UNA
SFIDA
Una sfida: inventiamo un modo che ci permetta di
volare. E il
povero uomo terricolo ha cercato e sognato e lavorato per tanto tempo prima
di trovare la soluzione. Prova ali come quelle degli uccelli, prova vele
come quelle delle navi, prova la fiamma del razzo a polvere. Prova, prova,
prova. Aquiloni, stoffa, piume, legno, motori a vapore e telai di bambù.
Poi canne di bambù coperte di stoffa e una gabbia per il pilota. Se
costruisco un alto terrapieno e stendo le mie ali di bambù in cima ad esso,
e corro giù lungo il pendio del terrapieno nel vento… e c’è riuscito.
L’uomo finalmente vola. Mesi di voli giù dal terrapieno, però dovrebbe
durare di più, dovrei poter godere più completamente di questa rara
felicità.
E allora, remi, pedali, pale ruotanti, manovelle a mano, ruote e
pale, ali battenti e un piccolo motore a benzina costruito in casa. Se
prendiamo il motore, e applichiamo una trasmissione a catena che possa far
girare due eliche e sistemiamo il tutto sulle ali, e forse il pilota
potrebbe sdraiarsi sotto, sull’ala inferiore… Un altro passo era fatto,
era stata tracciata una strada. Una strada aperta a tutti coloro che
avessero voluto percorrerla.
Dapprincipio il volo è una cieca forma di divertimento, ecco di
nuovo la sfida, qualcosa di diverso da fare. E’ piacevole sapere di poter
controllare un grosso uccello metallico e guardare giù le casette, i laghi
e le formiche sulla strada. Col tempo, per coloro che perseverano
nell’arcaica assimilazione di testi che porta al brevetto di pilota, il
piacere si trasforma inavvertitamente da quello di controllare l’uccello
in quello di essere un uccello, con gli occhi spalancati che guardano giù,
con le ali che a terra sono solo legno e tela e fogli di alluminio, un
uccello che in volo diventa cosi vivo da sentire le piume che si agitano al
vento.
La prima cosa che notiamo è il cambiamento del mondo che ci
circonda. Non è più la prospettiva dal basso che ci era familiare, ma
quella inconsueta dall’alto, e ci chiediamo cosa si deve provare a cadere
da quell’altezza. Forse sarebbe divertente, ma con qualche riserva, perché
dopo tutto, ci diciamo, l’aria non è esattamente il nostro elemento. Per
molto tempo non cambiamo il nostro modo di pensare a questo proposito.
Poi viene il momento in cui non ci sentiamo a nostro agio, perché
abbiamo di nuovo il tempo di guardare il mondo, mentre il volo procede per
conto suo. Da questo stato di disagio usciamo quando impariamo ad affrontare
e risolvere molti problemi.
E allora cominciamo a vedere la terra e il cielo come simboli. La
montagna non è più una massa di terra che termina con una vetta terribile,
ma un ostacolo da superare in vista di una meta più alta.
E scopriamo che l’aeroplano è un maestro. Un maestro calmo, acuto,
persuasivo, dotato di una pazienza infinita. Un aeroplano non vuol sapere la
ragioni che spingono il pilota, non lo fraintende, non deve placare i suoi
risentimenti. Come il cielo, un aeroplano è, e basta; e impartisce le sue
lezioni. Se desideriamo imparare le sue lezioni, esso ce le offre a
profusione, e possono diventare lezioni molto particolareggiate e profonde,
e dure.
Forse tra qualche migliaio di anni il volo diventerà qualcosa che
potremo accettare e considerare come reale. I gabbiani e i falchi amano
volare? Probabilmente no. Probabilmente preferirebbero camminare sulla
terra, e provare che cosa significhi stare saldamente attaccati ad essa
senza essere sballottati dalle correnti atmosferiche. Mi vien voglia di dire
“Vorrei fare a cambio con te, falco”, ma vorrei anche porre qualche
condizione. Anzi, più ci penso, più condizioni dovrei porre, e alla fine
vorrei solo essere me stesso, con la capacità di volare. E questo è ciò
che sono ora. Voglio conservare la mia vita e il mio modo goffo e rumoroso
di andare per l’aria, perché è lavorando, lottando e sacrificandomi per
questo tipo di volo che io posso goderlo appieno; datemi il volo senza
sforzo e io lo abbandonerò per qualcosa di più stimolante. Una sfida.
Liberamente
tratto da un racconto di Richard Bach
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