Recensioni degli Album
All That Heaven Will Allow


Cliccate sul link dell'album di cui volete leggere la mia recensione. Pur essendo un fan sfegatato, ho cercato di mantenere un certo equilibrio. Non me ne vogliano coloro che non sono d'accordo con le mie opinioni. Bisogna però sempre tener presente che il livello di partenza è decisamente sopra la media, anche per quei lavori che dovessero essere criticati negativamente. Invito tutti a spedirmi le proprie recensioni e considerazioni personali, anche riguardanti una canzone in particolare o un evento legato a Bruce e alla sua musica: troveranno di certo spazio su questo sito!




Greetings From Asbury Park, N.J.


L'esordio. Album completamente acustico, con una formazione di musicisti che presenta già un buon numero di componenti della futura E Street Band, ma caratterizzata da una forte componente nera. Chissà come sarebbe stata la musica di Bruce con queste influenze...
Il lavoro, dal punto di vista della qualità del suono, è a livello di demo tape, quindi scarso, come voci ben più autorevoli di me hanno avuto modo di dire.
I testi sono fiumi in piena, carichi di immagini e di personaggi tratti dalla strada, che vivono le loro esperienze in un mondo di periferia, sporco, crudo, ma che non per questo sono privi di sentimenti come l'amore, l'amicizia, l'onesta. I nomi sembrano tratti da qualche film western, e suonano già leggendari: da veri eroi metropolitani. I protagonisti delle storie sono gli sconfitti, che tuttavia conservano la dignità e possono ancora camminare a testa alta, perché è la vita, il mondo che gli ha sconfitti, schiacciati, ma la loro anima è intatta. Forse, l'esempio più caratteristico di questo sentimento è Growin'up, canzone quanto mai autobiografica, quasi un manifesto della filosofia di vita, dei sentimenti e delle aspettative del giovane Bruce.
Comunque, per quanto poi personaggi e ambienti si evolveranno nelle successive storie cantate da Springsteen, l'idea che essere fedeli alle propri idee, essere leali e onesti, soprattutto con sé stessi, e di conseguenza con gli altri, resterà fondamentalmente immutata negli anni, attraverserà pressoché tutta la produzione springsteeniana, fino agli ultimi lavori. Il che non vuol dire che Bruce non cambierà le sue idee: anche lui è cresciuto. Solo resterà fedele ai suoi princìpi e manterrà la sua anima pura.
La musica è chiaramente influenzata da diversi autori suoi contemporanei, ma non si tratta assolutamente di imitazioni: il giovane cantautore ha già una sua identità musicale ben definita, forte, che impiega largamente strumenti romantici, come il pianoforte, che tocca una vasta gamma di generi, che regala sensazioni uniche. Ed è proprio la musica a rendere memorabili alcune canzoni che, se fossero legate al solo testo, sarebbero forse state dimenticate in fretta.
Comunque, se qualcuno mi chiedesse quale album di Bruce Springsteen comprare per iniziare ad avere un'idea chiara della sua musica, di sicuro non gli indicherei Greetings. È un lavoro per palati raffinati, o per springsteeniani veri, di vecchia data: dipende dai punti di vista.
A sua difesa, basti comunque dire che molti dei brani eseguiti da un giovane Bruce davanti a John Hammond (lo scopritore di Bob Dylan) con la sola chitarra acustica, che decretarono l'ingaggio del nostro con la Columbia, sono presenti su questo disco. Inoltre, a testimoniare questo evento e a dare maggiore dignità a Greetings stanno i quattro brani con cui si apre Tracks. In conclusione: quando si parla di Bruce si parla sempre di gran bella musica.
Dovendo dare un mio parere personale, preferisco il lavoro successivo. Tuttavia è lecito chiedersi come sarebbe stato questo disco con un'équipe tecnica migliore e con una qualità del suono più decente.

The Wild, the Innocent & the E Street Shuffle


Edito lo stesso anno di Greetings, questo secondo lavoro di Springsteen ha una certa continuità nei confronti del suo predecessore, ma rappresenta un grande passo avanti del processo di maturazione artistica. I testi raccontano sempre storie di personaggi comuni vestiti da eroi, che combattono dignitosamente la loro piccola guerra quotidiana con la vita, ma qui la narrazione avviene con sapienza e con idee più chiare. Forse con meno paura di voler dire tutto e subito in ogni canzone: non c'è più l'ansia di scolpire quante più immagini possibili: ora Bruce lavora di cesello. Lo si vede chiaramente in canzoni come Sandy o Incident on 57th Street. Il ventaglio di generi musicali toccati è molto ampio, ed è tutto racchiuso tra la prima canzone (The E Street Shuffle) e l'ultima (New York City Serenade) che ha certe inflessioni che paiono sconfinare addirittura in generi musicali più "colti" del rock 'n' roll. L'album accosta storie allegre (Rosalita) a storie decisamente più tristi (la stessa Incident), affiancandole a notevoli affreschi di vita quotidiana, di vita vissuta, di vita vera. Ed è meravigliosa la musica che accompagna questa girandola di luci riflesse dal mare, di circhi, di incidenti, di serenate cittadine, di uscite notturne. Pera ssaporare le atmosfere magiche create dalla fisarmonica, dal basso tuba, dagli archi bisogna necessariamente ricorrere a questo disco, che resterà un episodio musicalmente isolato negli oltre venticinque anni di carriera del poeta di Freehold. Per concludere, un lavoro sulla scia del precedente, ma con notevoli punti di rottura, che mostrano quanto rapidamente Bruce riesca ad evolvere, a limare le sue creazioni verso una perfezione artistica quasi maniacale, che porterà l'artista a limitare notevolmente la frequenza delle pubblicazioni discografiche, nonostante la produzione di canzoni davvero imponente. Fenomeno questo che porterà alla realizzazione di album che, senza tema di smentite, saranno delle pietre miliari nella storia del Rock (quello con la "R" maiuscola). Personalmente lo preferisco di gran lunga a Greetings, perché trovo che le musiche siano, in una parola, più belle e che i testi siano vere poesie, a differenza dei precedenti che mi fanno pensare piuttosto a specie di "filastrocche".

Born to Run


La tempesta dopo la quiete (scusa, Giacomo...). Ovvero due anni passati in sordina seguiti da un'esplosione di critica e pubblico. Ovviamente parlando di lavori in studio, perché Bruce era già celebre nel Jersey e nello Stato di New York per i suoi concerti leggendari e imperdibili.
Con Born to Run si assiste ad una svolta chiave della produzione discografica di Bruce, infatti la produzione passa a Jon Landau e il mixing a Jimmy Iovine. E si sente. È macroscopica la differenza qualitativa del suono tra il lavoro del 1975 e i suoi due predecessori.
Il disco contiene solo otto tracce, aperte dalla indimenticabile screen door di Thunder Road e chiuse dalla notte nella Jungleland. E nel mezzo si trovano alcuni dei più grandi classici che Springsteen abbia mai composto e che oggi sono entrati a pieno titolo nella storia del rock e della musica più in generale. Ma andiamo con ordine.
Thunder Road è una delle canzoni più apprezzate dai fan. Forse la più amata. Di sicuro è una canzone dalle mille facce e dalle mille riletture. I messaggi contenuti in essa sono sanguigni e ricchi di pathos ed energia. Contengono ancora quella voglia di fuga e di redenzione che sarà il filo conduttore della poetica springsteeniana per lungo tempo.
È una canzone d'amore disperato, una poesia, un tributo alla musica, un manifesto di gioventù e un insieme di frasi epiche ed indimenticabili. Insomma, una canzone che in tanti avrebbero voluto scrivere. Alcune trovate sono forse un po' banali e fanciullesche, ma non bisogna dimenticare l'età in cui Springsteen la compone. Forse questa canzone, più di tante altre, fa capire come Bruce non dica niente di nuovo con le sue canzoni, ma quello che dice è irripetibile per la forza e la convinzione con cui lo dice, e soprattutto per il COME lo dice. E, a volte, è più difficile riuscire a trattare temi classici, piuttosto che innovare a tutti i costi e rischiare, alla fine, di perdere l'equilibrio e cadere da quella sottile linea che è il confine tra il bello e il ridicolo.
La musica andrebbe ascoltata. Riascoltata, sentita col cuore, assorbita in ogni fibra muscolare, visceralizzata e sublimata con l'ascolto della canzone una volta ancora, magari dal vivo, magari a un concerto, magari acustica, magari...
Thenth Avenue Freeze-Out è indimenticabile per il suo sax, mentre la voce cupa di Night canta il dualismo notte-giorno visto in parallelo a quello duro lavoro-redenzione/divertimento. Di entrambe le canzoni, la cosa che colpisce di più, soprattutto per Tenth Avenue, è la musica. Si tratta più di un divertissement musicale, che di un testo compiuto. Lo stesso Bruce confesserà di averla composta per sentire suonare l'assolo di sassofono da Clarence Clemons.
Backstreets, ovvero amori disperati, passati a nascondersi dalla vita dura e crudele. E come spesso accade nelle liriche springsteeniane, la strada è metafora di vita, ma si potrebbe anche pensare che la strada è la vita, il posto dove i ragazzi trascorrono i loro giorni, affrontano i loro disagi, scoprono l'amore, inseguono i loro sogni in mezzo ad un mondo duro e crudele, un mondo di periferia fatto di locali da quattro soldi ed eroi patetici nei loro stracci, ma che camminano a testa alta. Vista in quest'ottica, Backstreets è forse, meglio di ogni altra canzone, la summa delle tematiche del primo Springsteen.
Born to Run. Epico inno della fuga che porta alla redenzione. Già cantato in Thunder Road, il concetto viene qui amplificato ed enfatizzato da una batteria indiavolata e da un giro di accordi semplice ma efficacissimo, magniloquente. È perfetta, Born to Run, perfetta ed eccezionale. E c'è un filo che la unisce a Thunder Road: la speranza. Si potrebbe dire tutto su questa canzone, dire tutto Springsteen, dire tutta la sua musica. Per capire cosa è davvero si dovrebbe accendere lo stereo e alzare il volume. E lasciare che il cuore gridi quello che sta provando.
Dopo una canzone così, viene da pensare, tutto quello che viene dopo è meno bello. O meno coinvolgente. Non è così e ci pensa She's the One, una canzone alla Bo Diddley (tanto che dal vivo viene spesso suonata in medley con Mona), che riesce ancora a riscaldare un cuore già reso incandescente da Born to Run. E lo fa regalando immagini indelebili ("With her killer graces/ And her secret places/ That no boy can fill/ With her hands on her hips/ Ho and that smile on her lips"). Per non parlare poi del finale, davvero da brivido nella schiena.
A questo punto, dopo circa mezz'ora di rock all'ennesima potenza, Bruce tira fuori dal suo magico cilindro un'altra sorpresa. Una ballata. E che ballata! Meeting Across the River racconta una storia che sa di morte e di insuccesso già dalle prime strofe, già dalla musica. È il monologo di un uomo che deve combinare un affare losco che gli frutterà duemila dollari, ma è anche un grosso rischi, che richiede una pistola in tasca, l'abbigliamento adatto all'occasione e poche parole, da duro. L'ottimismo delle parole del protagonista è in netto contrasto con la musica e l'atmosfera della canzone. Insomma, un altro sconfitto senza nome che lotta contro un mondo che non regala niente a nessuno.
E infine Jungleland. Struggente. Scene tratte da una città dove avvengono massacri, dove le figure dei miseri protagonisti si dibattono fino alla morte, dove i poeti nulla scrivono di tutto questo. Ed è proprio questa la parte più incredibile: "And the poets down here/ Don't write nothing at all/ They just stand back and let it all be". Solo Bruce, poeta preso dalla strada per cantare la strada, si cura di tutto ciò. E scrive una canzone indimenticabile.
Springsteeniani o no, in definitiva, questo album è una pietra miliare del Rock, imprescindibile per gli amanti del genere. Imprescindibile per chi ama la buona musica.

Darkness on the Edge of Town


Personalmente lo considero inferiore solo a Born to Run, anche se non di molto.
Si tratta di un grandissimo disco. Tra tutti quelli mai scritti da Springsteen è probabilmente quello che più incarna l'idea che sta alla base di un romanzo: ogni singola canzone di per sé costituisce un capitolo, ma per comprenderne il vero significato bisogna inserirla nella continuità tematica del disco nella sua interezza. Una sola canzone disgiunta dalle altre può essere paragonata a un passo antologico di un grande romanzo. Ovvero, si intuisce lo stile dello scrittore, se ne apprezzano i contenuti, la poetica e la poeticità, ma non si comprende appieno la grandezza dell'opera nella sua interezza.
Credo che sia questo il motivo per cui una canzone come Badlands non trovi la sua giusta dimensione nel Greatest Hits. La sia scolta, si dice che è bella, bellissima, un vero pezzo rock, ma finisce lì.
In pratica è come affermare che la "Divina Commedia" è eccelsa conoscendone solo il primo canto. Il concetto, è evidente, è al quanto restrittivo.
Darkness on the Edge of Town arriva alla fine di un momento davvero difficile per Springsteen, ovvero lo scontro in tribunale con Mike Appel (vedi Biografia) dove molte delle sue certezze crollano e dove viene definitivamente bruciato quel poco di ingenuità puerile che la vita di strada, la vita del self made man non ancora made gli aveva già sottratto. Si tratta di un lavoro dai toni cupi, percorso da una vena di cinismo e di frustrazione, di rabbia e di dolore. Su tutto pesa il tradimento dell'amico che aveva accompagnato la sua nascita come cantante "professionista" e che aveva contribuito a farlo scoprire da John Hammond. Alla luce di questi fatti, appare chiaro come le tematiche del disco siano quantomai strazianti. Lo si capisce già dal titolo. E se mai si dovesse cercare un regista per ricreare l'atmosfera del disco, questi sarebbe certamente Tim Burton.
Non manca la poesia, nelle tracce di Darkness on the Edge of Town, come spesso accade quando si scrive di esperienze vissute sulla propria pelle. E in particolare di esperienze amare.
Badlands, la traccia d'apertura è un classico pezzo rock, eseguito pressoché costantemente dal vivo. Costituisce uno dei momenti più attesi degli spettacoli, anche se più "scontati", perché il suo riff è davvero travolgente e il testo catartico nelle rabbiose grida del verso I wanna spit in the face of these badlands.
Una mia curiosità personale sarebbe vedere l'intero disco rieseguito in chiave acustica, come un nuovo The Ghost of Tom Joad, perché credo che, oggi più che mai, Bruce sarebbe davvero in grado di comunicare la sua rabbia e la sua frustrazione arpeggiando una chitarra, soffiando dentro un armonica e bisbigliando con voce roca i suoi sentimenti ai cuori di chi lo ascolta.
Adam Raised a Cain è una canzone ispirata e dedicata al suo rapporto conflittuale con il padre, dove Bruce ricorre ad una efficace metafora biblica per chiarire le sue posizioni. La loro contrapposizione è chiaramente delineata fi dai primi momenti della canzone: He was standin' in the door, I was standin' in the rain.
È uno dei pezzi più "arrabbiati" del disco, con le chitarre che fendono l'aria con i loro acuti mentre una voce ringhiante di rabbia e strascicata mastica parole, versi memorabili come la conclusione, quasi da romanzo gotico: Lost but not forgotten, from the dark heart of a dream,/Adam raised a Cain.
Inevitabile il rimando dell'ascolto di tutte queste canzoni in versione live, dove (soprattutto nei concerti del tour del 1978, che seguì l'uscita del disco) testo e musica vengono esaltati da un Bruce ai massimi livelli mai raggiunti e da una E-Street Band in forma smagliante e che non sembra poter essere arrestata per nessun motivo.
Più tranquilla musicalmente, più melodica, ma non certo meno amara è la terza traccia: Something in the Night. Un crescendo memorabile all'inizio: Bruce si insinua con un mormorio appena accennato che diventa urlo lamentoso mentre un arpeggio al pianoforte percorre a lenti passi la strada lungo la quale si dipana la storia.
Il testo costituisce nella sua interezza un lungo climax ascendente, che lentamente porta verso un finale disperato. Raramente si sono viste canzoni di Springsteen senza un filo di speranza. Something in the Night è una di queste. Sembra quasi una traccia presa in prestito da Nebraska. Comunque, per me, si tratta senza dubbio di una delle canzoni più belle e struggenti di tutto il disco, e quindi di tutta la produzione springsteeniana. Si ha la netta sensazione di trovarsi di fronte ad un istant classic, una canzone senza tempo e perciò fuori da esso. Se fosse un'automobile sarebbe una Ferrari Testarossa (o una Porsche 911, se preferite).
Oscurità, ancora oscurità, ma questa volta nel corridoio che porta alla Candy's Room, alla stanza di Candy. Si tratta di una canzone d'amore per una ragazza, un amore travagliato e diverso da quelli finora cantati dall'uomo di Freehold: qui Candy nasconde dietro il suo visino carino tutta la sua tristezza, ben sottolineata dall'atmosfera scura e opprimente che regna nella canzone, creando così un'antitesi tra l'amore e la gioia che dovrebbe portare e il dolore che la vita spesso comporta.
Candy's Room ha visto una gestazione quanto mai elaborata: è nata infatti dall'unione di una musica intitolata The Fast Song (il termine fast rende davvero bene l'andamento della canzone) e un testo (Candy's Boy) che era accompagnato da un'altra melodia.
Da una canzone veloce e travolgente ad una lenta ballata che parla di corse d'auto. Racing in the Stret e già il titolo stesso la colloca di diritto nella mitologia springsteeniana.
Potrebbe essere una Born to Run vista da un'altra angolazione. Ancora protagonista è la corsa in strada, accompagnata da relazioni amorose e amari frammenti di vita (With the eyes of one who hates for just being born/For all the shut down strangers and hot rod angels), un'amarezza sconosciuta al suo alter ego. Fatto sta che questa canzone è un classico, una ballata esemplare e apodittica dello stile di Springsteen e della sua magistrale abilità come cantastorie nel senso più profondo della parola.
Non mi esprimo volutamente sulla musica per evitare di divenire eccessivamente laccato e stucchevole.
La traccia numero sei, The Promised Land solo in apparenza, ovvero in apertura, sembra una canzone completamente positiva. Certo, rispetto alle altre canzoni si comincia ad intravedere un po' di luce, ma l'amarezza di fondo resta.
È un momento emotivamente successivo: la prima reazione ad una catastrofe affettiva è certamente la disperata amarezza del sentirsi traditi. Subentra quindi un sentimento di rivalsa morale e di reazione alla sofferenza; reazione che spinge l'individuo a non arrendersi, ma anzi a ergersi per combattere le avversità. Questo sentimento prende via via forma man mano che la musica scorre e le parole si susseguono, come se nell'eco dell'una le altre trovassero il coraggio di esprimersi. Ed ecco un nuovo climax ascendente, fino alla strofa finale: Blow away the dreams that tear you apart Blow away the dreams that break your heart Blow away the lies that leave you nothing but lost and brokenhearted.
A questo punto si capisce il perché del ritornello I believe in a promised land... vessillo di quel sentimento di irriducibilità e di voglia di lottare per ricominciare, illuminati dalla speranza di un futuro migliore, dalla consapevolezza dell'esistenza della Terra Promessa.
Se è vero che le canzoni finora ascoltate potevano tranquillamente essere ambientate di notte (e in effetti molte lo sono), in Factory si ha la netta impressione di trovarsi al crepuscolo, o in un grigio mattino. Più che una canzone una poesia dedicata al padre e accompagnata da una musica melanconica e vibrante, triste e affettuosa allo stesso tempo, carica di pioggia che bagna il duro lavoro degli operai della fabbrica, un lavoro che strappa loro la vita, anche se consente a chi vi lavora di guadagnare il pane per vivere.
Il buio delle strade percorse finora si accende di un colore rosso fuoco in Streets of Fire, canzone in perfetta sintonia con i contenuti dell'album. Se possibile appare ancora più cupa e tetra delle precedenti. Siamo alla terza fase: dopo lo sgomento e la disperazione, dopo il ritrovato coraggio per affrontare la situazione, ecco che arriva la rabbia, rabbia contro le menzogne e l'infida crudeltà di chi invece ritenevi un amico; rabbia accompagnata da un senso di solitudine e di abbandono, chiaramente espresso in chiusura: I live now, only with strangers / I talk to only strangers / I walk with angels that have no place / Streets of fire.
Ancora, Prove it All Night ; una canzone d'amore che solo apparentemente è spensierata, perché qua e là semina versi che possono passare inosservati, ma che in realtà fanno da filo conduttore all'intento dell'album, come Girl, you want it, you take it, you pay the price. Siamo nella quarta fase: ormai quello che è successo è successo, e ci si ritrova a meditarci sopra, a trarne l'insegnamento, per quanto amaro. E quanto imparato diventa una delle leggi che la vita applica e delle quali bisogna tenere conto. Una legge che si fa conoscere a chi si ama, perché possa non farsi cogliere impreparata dai casi della vita.
Il tema del disco in questa canzone appare appena accennato, ma è invece un modo molto sapiente e poetico di dire le cose: non bisogna sempre gridare tutto e andare troppo sopra le righe: c'è chi comprende il succo dei discorsi anche senza che si debba essere troppo espliciti. Questa è una vera tecnica poetica. E qui Bruce è davvero poeta. E non solo. È una dichiarazione dell'alto concetto che ha dei suoi fan: non tutti si possono permettere di essere così sottili e avere la certezza di essere compresi.
L'ultimo momento, forse il più alto, quello in cui si riassume tutto il contenuto del disco, si cagliano i sentimenti e le vicende per ottenere l'Esperienza. E per questo motivo, la decima canzone è quella che dà il titolo all'intero album. Darkness on the Edge of Town è splendida, scintillante di oscurità, capolinea e punto d'arrivo della strada che si snoda per tutto l'album in cerca di risposte che forse non ci sono e che forse non ci saranno mai, ma che gli uomini continueranno comunque a porsi, in attesa di trovare la Terra Promessa.

The River


Nebraska


Born in the U.S.A.


Bruce Springsteen & The E Street Band Live 1975/85


Tunnel of Love


Human Touch


Lucky Town


Live MTV Plugged


Greatest Hits


Il Greatest Hits è un appuntamento al quale le case discografiche ci hanno abituato ormai da parecchio tempo.
Quando si vuole avere una visione complessiva, ci si vuole fare un'idea sulla musica di un certo cantante, di solito la via più breve, più diretta e anche più facile è di sicuro la raccolta dei successi. Certo, l'approccio risulta limitato e indirizzato, preconfezionato, ma è sempre meglio di niente.
Anche Springsteen ha dovuto cedere a quella che è una mossa commerciale e niente più. È difficile condensare ventidue anni di musica in diciotto tracce, ma lo è ancora di più volerlo fare con sole quattordici.
Il problema, anzi I problemi sono tanti. Non si tratta di un vero e proprio Greatest Hits, perché alcune delle canzoni presenti nel disco non hanno scalato la classifica dei Top Ten (bisogna aspettare Hungry Heart), ma non è neppure un Best of, perché canzoni fondamentali dell'opera springsteeniana sono state scartate. Inoltre è una raccolta che non offre una visione completa della carriera del musicista del New Jersey, perché non si ritrova neppure una canzone dell'era antecedente a Born to Run. Insomma, si celebrano in pratica venti e non ventidue anni di carriera.
E come se un solo disco e quattordici canzoni fossero sufficienti a contenere il meglio di un cantante come Bruce Springsteen, sono state aggiunte quattro (dico quattro) inediti. Ciò ha significato da una parte una riduzione dello spazio utile per completare la raccolta di hits, dall'altra l'obbligo per i fan di acquistare il disco per possedere gli inediti. Insomma un colpo basso. Molto, troppo simile a quello che accadrà quattro anni dopo con 18 Tracks.
Chissà a quanti di voi avrà pianto il cuore nel lasciare fuori questa o quella canzone nella compilation da regalare alla propria ragazza o ad un amico. Spesso raccolte doppie o ,addirittura, triple. Chissà che criterio hanno usato alla Columbia Sony per mettere su questo disco della discordia. È anche vero che cercare di mettere d'accordo tutti sarebbe stato pressoché impossibile.
Ma la nota di maggior stridore è l'assenza di quella continuità tematica e d'intenti che Springsteen ha perseguito costantemente e caparbiamente per tutti gli anni della sua carriera, immolando in nome di questa coerenza capolavori come Roulette, Restless Night, Frankie, e tanti altri (che per fortuna hanno comunque visto la luce in veste ufficiale sul cofanetto quadruplo Tracks).
Se non altro questo disco, che strizza un occhio alle classifiche commerciali più che ai contenuti, ha il pregio-difetto di regalarci quattro canzoni inedite (oltre a Streets of Philadelphia). Due di queste sono inediti assoluti (Blood Brothers e Secret Garden), mentre altre due sono apparse su diversi bootlegs (Murder Incoroprated e This Hard Land).
Streets of Philadelphia è la canzone che ha regalato a Springsteen l'Oscar per la migliore canzone originale. Si tratta infatti della colonna sonora del film Philadelphia. Questa canzone ha il merito di aver portato una volta ancora alla ribalta la musica di Bruce, questa volta carica di significati sociali molto più diretti ed espliciti che in passato. C'è il seme di The Ghost of Tom Joad, in questa canzone sull'amarezza di essere soli ed emarginati dalla gente. In poche righe, Bruce descrive l'orrore di una malattia che devasta il fisico tanto da non far più riconoscere al protagonista il suo stesso volto riflesso. Sono i versi di una bella poesia.
Tuttavia, a me personalmente, questa è una delle canzoni di Springsteen che meno piace, a causa di quelle tastiere, di quel ritmo hip-hop, ma soprattutto di quella batteria elettronica. Mi sono chiesto se anche Bruce non si fosse lasciato coinvolgere dalle nuove sonorità, dal rap, dalle tendenze moderne, mentre un brivido mi percorreva la spina dorsale.
Per fortuna è durata poco, questa mia paura: solo fino all'uscita di The Ghost of Tom Joad.
Secret Garden è una canzone d'amore, ma non è la solita canzone d'amore. Qui la ragazza (donna?) non consente l'accesso alla zona più recondita dal suo animo, non lascia entrare nel suo giardino segreto il suo amante. Forse per pudore, forse per insicurezza dei sentimenti dell'altro, forse solo per tenerlo stretto a sé il più a lungo possibile. O forse per nessuna di queste ragioni. Fatto sta che la musica è davvero molto bella, i versi sono espressione altamente lirica dell'insicurezza che da sempre accompagna l'amore.
Murder Inc. è il classico rock springsteeniano dal riff chitarristico trascinante e coinvolgente. È una canzone che fa venire alla mente Taxi Driver, storie di periferia, di un'America violenta e ingiusta, di un'America che si sente sicura solo se ha la pistola sotto il cuscino, dove l'omicidio è quasi una regola. E, pensandoci ora, è legata ad un filo alla nuova American Skin (41 shots) che tanta polemica ha destato negli States. Si potrebbe dire che Murder Inc. sia il prologo e American Skin l'epilogo di una triste storia fatta di pistole e sangue.
Blood Brothers è una grande canzone sull'amicizia e sull'affetto, in particolare nei confronti di quella E Street Band dalla quale Bruce si era separato oltre cinque anni addietro. La canta per loro, con loro. E non è un caso che sia stata la canzone con la quale si è concluso il World Tour 2000, con l'ultima strofa rivista per l'occasione (per leggere la traduzione clicca qui).
This Hard Land è una delle canzoni più belle che Bruce abbia mai scritto. È una bella storia, una di quelle che si ricordano, a cavallo tra West e città, amara e piena di amicizia. Ma mi fermo qui e cedo la parola ad Alessandro Baricco e al suo Stay Hard, Stay Hungry, Stay Alive, più che le mie parole.

The Ghost of Tom Joad


Quando mise sotto contratto Bruce Springsteen, la Columbia credeva di avere in mano il nuovo Dylan, forse a causa dell'audizione che Bruce aveva proposto a John Hammond, con sola chitarra acustica. In realtà egli aveva sempre suonato accompagnato da una band di musicisti-amici e la sua esibizione solista era stata più che altro casuale.
I dubbi sull'eventuale parallelismo Springsteen-Dylan furono definitivamente allontanati dall'uscita di Born to Run, inno rock al Rock.
Quasi venticinque anni dopo, Bruce, nel pieno della sua maturità artistica e personale, dà alle stampe il suo disco più dylaniano: The Ghost of Tom Joad.
Personalmente ritengo che questo sia il vero capolavoro di Bruce Springsteen. Senza niente voler togliere a Born to Run, Darkness on the Edge of Town, o agli altri lavori "maggiori". Non sono molte oggi le persone in grado di reinventare la loro musica e di rimettersi in discussione come ha fatto Springstten. Non è facile soprattutto quando si ha la certezza di poter vendere all'infinito milioni di copie producendo lavori sulla falsa riga di Born in the U.S.A. Non è facile davvero. Molti artisti sono caduti nella rete dell'autocompiacimento artistico e della staticità professionale. Le vittime portano nomi illustri e non. Bruce Springsteen ha mantenuto la promessa pur cambiando, evolvendosi. Per questo penso che sia il più grande.
Se si può parlare di poeticità per molte canzoni dell'artista del Jersey, per The Ghost of Tom Joad bisogna parlare di Poesia vera e propria. A sottolineare il concetto è anche la musica, basata su arpeggi spesso facili e mai protagonisti, se non per sottolineare un sentimento o una situazione contenuta nei testi. La musica al servizio delle parole. Penso che la vera differenza tra Nebraska, pure molto poetico e acustico, stia proprio in questo uso della musica. Sembra quasi la colonna sonora del film che viene raccontato da ogni canzone. Si tratta di storie che hanno un inizio e una fine, spesso tragica e amara, ma la tragicità e l'amarezza non dipendono tanto dal punto di vista del cantante-poeta, quanto dagli eventi stessi, che Springsteen narra in modo oggettivo e quasi distaccato.
E qui entra in gioco la bellezza della canzone: una poesia, scritta ma non recitata, può adottare dei toni distaccati, oggettivi che non consentono di mettere in evidenza la posizione dello scrittore. Nelle canzoni di Bruce invece, per quanto il testo sia oggettivo e quasi distaccato, la voce fa sentire quanto l'artista sia vicino spiritualmente ai temi cantati e quanto il suo animo ne sia agitato.
Certo, in molti spunti si vedono apertamente il pensiero e le posizioni di Springsteen, ma laddove è la tragicità degli stessi fatti narrati, il giudizio diretto cede il passo a quello portato dal tono e dalla melodia. È qualcosa che solo un grande musicista può fare. È qualcosa che solo un grande musicista sa fare.
Sarebbe inutile tentare di fare un'analisi dettagliata di ogni singola traccia che compone il disco. Inoltre ci sarebbe tanto da dire da riuscire a pubblicare un piccolo trattato monografico. E non è questa la sede. Basta leggere i testi in Inglese o, al limite, le traduzioni e ci si rende conto di quanto mondi siano racchiusi in ogni canzone. Personaggi qualunque si susseguono e mostrano le loro mani sanguinanti di fatica, le ferite dell'anima, le ingiustizie che li circondano e li compenetrano.
Come sempre, quando si legge una poesia in traduzione, bisogna tenere conto dei limiti del traduttore (in questo caso i miei, che non sono limiti da poco) e del fatto che inevitabilmente si perderà il senso di alcune parole, la cui radice ha un intrinseco significato, una sfumatura spesso impossibile da cogliere o da comprendere. A questo si potrebbe ovviare trascrivendo in poesia la poesia: così fece Monti con l'Iliade. Ma io non sono Monti. E Bruce non è Omero.

Tracks


18 Tracks


Perché?
Parlando con il proprietario di un negozio di dischi, a proposito di 18 Tracks, sono venuto a sapere che è andato meno bene di Tracks, che pure è un cofanetto da cento, centoventi mila lire.
Perché fare un'operazione commerciale di questo tipo? È stata questa la mia seconda grande delusione legata a Bruce e a tutto ciò che egli rappresenta per me. Mi sono sentito tradito per la seconda volta. La prima è stata il Greatest Hits.
Non che 18 Tracks non sia un bel disco. E questo mi pare abbastanza ovvio, visto che prende quindici delle diciotto canzoni direttamente dal fratello maggiore, Tracks appunto. Ciascuno può discutere di quali canzoni sarebbero dovute entrare nelle "top 15", ma si tratta comunque di gusti. Personalmente, ritengo che si sia dato maggior spazio ai pezzi più orecchiabili, più "commerciabili". Ma è, ripeto, un mio parere. Fatto sta che non si sentiva assolutamente il bisogno di questo album. E la cattiveria maggiore è stata quella di renderlo imperdibile, per il fatto che contiene due tra le canzoni più amate e belle mai composte da Bruce: The Fever, ma soprattutto The Promise. Come dire di no, dopo un'attesa tanto lunga per queste canzoni, ascoltate su bootlegs gracchianti fino a consumare la puntina del giradischi?
L'amaro in bocca, il gusto della presa in giro rimane comunque, visto che su Tracks lo spazio fisico per inserire le tre tracce (c'è anche Trouble River) ci sarebbe stato. Ma passiamo ad altro.
Trouble River è un classico rock in stile springsteeniano, che ha echi dello stile compositivo di Human Touch. quindi di uno dei periodi più controversi e discussi della storia dell'uomo di Freehold. Sarà sicuramente più coinvolgente dal vivo.
The Fever è invece un classico. Un titolo abusato e strausato nel mondo del rock, così come il tema della febbre d'amore per una ragazza. Ma qui sono la voce di Bruce e la musica dai toni blues e jazz a rendere la canzone meravigliosa e a far volare i sette minuti e passa in un batter d'occhi. Per non parlare del background vocal di Clarence Clemons, del suo mitico assolo, del sax che tiene la nota in sottofondo per un tempo interminabile, ma discreto: quasi all'inizio non ci si fa caso. E poi la "ouverture" strumentale di oltre un minuto interrotta dalla voce echeggiante di Bruce. Insomma, una vera perla, una canzone che diventa malattia, droga.
The Promise. Una poesia. Non sono il primo a dirlo, né sarò l'ultimo. La poetica di Springsteen in questo pezzo diviene sublime. E si rimane a bocca aperta, col cuore che palpita, ascoltando le parole, il pianoforte, la voce di un uomo, Bruce Springsteen, che non smette di stupire e di regalare emozioni, storie e passione ai suoi fan, alla musica, a chi soffre, a chi è felice.
Secondo molti è il migliore outtake mai scritto dal Nostro. Personalmente non mi sento più di fare classifiche. Ogni volta che ci provo mi esce una lista di trenta canzoni, e tutte al numero uno... fatto sta che si tratta di una rara perla, una canzone assoluta, splendida icona di tutto ciò che Bruce ha sempre cantato, manifesto degli ideali e metafora della vita. C'è tutto in questa splendida canzone. Basta solo lei per giustificare l'acquisto di questo 18 Tracks traditore, ma bellissimo.

Before the Fame


Bruce Springsteen and the E Street Band Live in New York City


Trovarsi tra le mani un nuovo disco di Bruce è sempre un'emozione. Ancora più grande se si tratta di un live aspettato, voluto, desiderato fortemente da tutta la Springsteen-Nation.
Sono tante le critiche che si potrebbero muovere a questo nuovo disco. A partire dalla copertina, che ricorda vagamente quelle di dischi di altri musicisti e che non è certo particolarmente bella o artistica. Di sicuro non è origniale: si basa infatti sull'immagine simbolo del Reunion Tour, apparsa su manifesti e biglietti. Per la cronaca, la foto che ritrae le sagome di Bruce e Clarence è di Neal Preston. Sempre a riguardo del cover art, si può criticare la grafica, che divide le canzoni in 13 tracce più 6 additional performances: ora, la suddivisione può essere dettata dal fatto che nella versione televisiva dello show del 7 luglio, trasmesso dalla rete americana HBO il 7 aprile, compaiono appunto le prime 13 canzoni. In realtà nel primo CD sono contenute le prime 10 canzoni, oltre ad una ghost track di gran lusso. Undici canzoni dunque per il primo disco, nove per il secondo. La traccia fantasma, la cui presenza non è riportata in nessun modo sulla confezione, è Born to Run, inserita alla fine del primo disco e separata dalla continuità delle altre canzoni.
Un'altra scelta che, personalmente trovo incomprensibile, è quella di aver inserito solo i testi delle canzoni inedite, secondo una nuova tendenza che pare dilagare e che, credo, non sia giusta. Se fosse il solo disco di Springsteen in mio possesso, a quest'ora starei facendo a meno di diciotto poesie di vita urbana.
Ancora critiche. In qualche canzone si avvertono fischi provenienti dai microfoni, come in Born to Run e in Lost in the Flood, All'inizio di American Skin si sente Bruce che chiede al pubblico di stare calmo ("we need some quiet"), ma se è vero che durante il concerto il pubblico si faceva sentire ("disturbando" la registrazione) è ancor più vero che nel CD per sentire il pubblico bisogna alzare il volume dello stereo a livelli inverosimili.
Sì, il pubblico: questo è un punto che ha diviso molti pareri. Secondo alcuni ci sono parti in cui è presente e parti in cui si sente troppo poco, per non dire nulla. In parole povere si ha la sensazione di una "strumentalizzazione" (volendo usare termini brutali) della funzione della folla. Secondo altri si ha la sensazione di trovarsi dentro il concerto, a pochi metri dal palco. Questione di gusti.
A descriverlo in questi termini, questo live sembra una delle cose peggiori che Bruce abbia mai partorito. Visto così, incartato, spulciato in mille modi, sezionato e analizzato al microscopio dà l'idea di un lavoro approssimativo. Possibile? Possibile che da luglio 2000 a marzo 2001 Bruce, in nove mesi, non sia riuscito a fare niente di più accurato? Dov'è finita il suo famigerato e maniacale perfezionismo?
La risposta è tutta nelle tracce di questo doppio live.
Perché tutte queste critiche possono essere vere, ma una volta acceso lo stereo e calcato play, ci si cala in un mondo sonoro incredibile, inimitabile. Una voce matura, calda, possente, ruggente, dolce, malinconica, sofferente, sofferta.
Basta guardare i titoli delle canzoni presenti su questo gioiello per far aumentare vertiginosamente la frequenza cardiaca. Titoli come Jungleland, Lost in the Flood, fanno sognare ancor prima che la musica incominci.
Si parte con My Love Will Not Let You Down, un vecchio inedito comparso nel 1998 su Tracks. E l'attacco è uno di quelli che non si dimenticano e la canzone va fortissima, spinta dalle rte chitarre di Bruce, Nils e Stevie.
Si continua con Prove It All Night, una canzone che non ha bisogno di nessuna presentazione, un grande classico, impreziosito dall'assolo del sax di Clemons e ancora dalle tre chitarre, più indemoniate che mai. Segue Two Hearts, con un memorabile duetto tra Bruce e Stevie, eseguito in quasi tuttie le date del Reunion Tour, e con l'inserimento di una parte di It Takes Two nel finale. Si passa per Atlantic City e il confronto con il live MTV Plugged, dove la canzone è comparsa ufficialmente per la prima volta in versione elettrica, sancisce definitivamente le differenze tra una band e LA Band. Bellissima Atlantic City, con il parlato della strofa finale, ad accentuarne il pathos. Ancora da Nebraska, ancora grandissime emozioni: Mansion on the Hill, una delle più belle e intime poesie regalateci da Bruce nell'arco della sua carriera. Una esecuzione da brividi fin dalle prime note, con la fisarmonica di Danny Federici e la slide di Nils che riescono a creare una magia nella magia. Credo che ascoltare questa canzone a occhi chiusi al buio una volta al giorno abbia un vero effetto terapeutico contro lo stress. E di poesia in poesia si arriva a una pietra miliare, si arriva ad una ballata tra le più belle. Anzi: LA ballata. The River. Un'introduzione dolcissima e delicatissima del sassofono ci conduce per mano sulle sponde del fiume, cantato in modo viscerale, adulto, struggente. Un accompagnamento incredibile, una melodia che dal vivo veniva sommersa dai fischi, dalle grida, dagli applausi e forse per questo non apprezzata a fondo. Siamo di fronte a pura poesia, da inserire nei testi di letteratura americana e mondiale.
Youngstown ed è rabbia, disagio, chitarre elettriche che squarciano l'aria gridando la disperazione degli abitanti della cittadina industriale. E questa versione elettrica è adrenalina pura, una forza sconvolgente, una bellezza disarmante. E viene seriamente da chiedersi come sarebbe stato The Ghost Of Tom Joad se fosse stato elettrico e non acustico, dopo aver ascoltato questa canzone. E Youngstown è seguita da Murder Incorporated e da Badlands, in un terzetto rock da brivido, eseguito in eguale successione in tutte le date del tour e andando a costituire l'ossatura centrale degli spettacoli. Si passa quindi al divertimento di Out In The Street, introdotta da Bruce che chiama a gran voce "New York City... New York City..." Una canzone che mette voglia di ballare sin dalle prime note, un grande regalo fatto da Bruce al pubblico di casa sua e ai fans di tutto il mondo.
Staccata dalla continuità del concerto, non menzionata nelle note di copertina, né in altro modo, compare, come per magia, l'undicesima traccia: Born to Run. Inutile voler dire altro: Born to Run.
Finisce il primo disco. Parte il secondo: "Is there anybody really alive out there?" e Tehth Avenue Freeze-Out comincia nel migliore dei modi. È un tripudio che dura circa un quarto d'ora e nel quale succede di tutto: Bruce presenta la band, dopo aver cantato col pubblico It's All Right e Take Me To The River. Patti canta una parte della sua Rumble Doll.
Si arriva così al primo dei due inediti: Land Of Hope And Dreams, una splendida canzone, troppo spesso lasciata da parte dai giornalisti, per dare spazio ai temi caldi toccati da American Skin. Si tratta comunque di una grande canzone, con un testo che è a metà strada tra Born To Run e The Promised Land, con un grande messaggio di speranza: su questo treno s'è spazio per tutti, perciò afferra il biglietto, prendi al volo le valige e si parte, al suono delle ruote metalliche che suonano come le campane della libertà. Era questa la canzone che chiudeva gli spettacoli, e che in questo live è in penultima posizione, seguita da American Skin, ultima canzone prima delle "additional performances". I membri della band si alternano al microfono per cantare "41 shots", ripetuto anche coralmente. La canzone parte con una linea di basso accompagnata dall'organo, in un'atmosfera carica di tensione e di pathos. La canzone è davvero bellissima, e in un crescendo irrefrenabile di dolore e di rabbia che non può lasciare indifferenti. Il testo è veramente durissimo e struggente. È una vera poesia, e per questo Bruce non ha il cattivo gusto di menzionare personalmente Amadou Diallo e di cambiare il nome di sua madre in Lena. La madre di Amadou è al concerto quella sera, e di sicuro più d'una lacrima deve aver solcato il suo volto, alle note di Bruce e della E Street Band. La canzone si chiude con bruce che sfuma mentre ripete ossessivamente " You can get killed just for living".
Così si chiude il concerto "ufficiale", e lo attesta una pausa fin troppo lunga di silenzio.
Ci si ritrova quindi ad ascoltare le 6 tracce aggiuntive.
Il pianoforte di Roy accenna un motivo, via via più chiaro, e una fucilata della batteria di Max fa partire definitivamente Lost In The Flood, una canzone che non veniva suonata dal vivo da tempo immemorabile. Un inedito in versione live, visto che non era presente nei precedenti concerti ufficiali. E quando la canzone parte con tutta la band, bisogna davvero sforzarsi per non saltare in piedi e levare il pugno al cielo, trasportati dalle note lì a pochi metri da lui, sotto il palco.
Segue una slide acidissima, amara e tagliente: è la bellissima Born in the U.S.A., in una delle sue vesti, a parer mio, più belle. E Bruce mette in campo tutta la sua classe e la sua forza emotiva, rendendo ancor più esplicito il messaggio di questa canzone troppe volte e tropo a lungo fraintesa. " I'm ten years, I'm fifteen years, I'm twenty-five years burning down the road"...
Ancora una canzone tratta da Tracks: si tratta di Don't Look Back, che resta abbastanza fedele alla versione in studio, pur guadagnando in forza ed efficacia in questa veste dal vivo.
E adesso quella che per me è LA canzone: Jungleland. Superba. Non voglio dire niente su questa canzone, tranne un particolare che mi si è insinuato nel cervello e che mi ha fatto impazzire dal godimento: la pausa del piano prima dell'arpeggio che precede l'attacco del cantato.
Il resto è storia della musica, parole di pura poesia di strada, sassofono infinito, pianoforte cristallino e chitarre e organo e basso e batteria... e Bruce!
Parte Ramrod e il divertimento è assicurato dal piano, dalle chitarre, da Stevie e Bruce. Un altro pezzo da ballare, un altro bel regalo.
Si chiude con la bellissima If I Should Fall Behind, cantata dai musicisti che si avvicendano al microfono. Una chiusura dolce, che mette il sigillo il ritorno della E Street Band ai fasti di un tempo, in un ruolo ancor più di primo piano rispetto al passato.
In definitiva un lavoro fuori dal comune, sia per la scelta di inserire grandi classici del passato, troppo a lungo snobbati, sia per la presenza di canzoni dalla durata fuori misura. Il suono è davvero di altissima qualità e si riesce a sentire persino il respiro di Bruce quando prende fiato.
Un grande lavoro che conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che Bruce e gli E-Streeters sono in forma smagliante, che sono pronti per regalarci un nuovo disco, un nuovo tour, nuove emozioni, nuovi sogni da inseguire, nuove speranze.

The Rising


The Rising è un album atteso, forse troppo. È il primo dal 1984 che Bruce incide con la E Street Band. Un ritorno atteso.
Fino a qui ci si aspetterebbe un revival di vecchi suoni familiari, in stile anni Ottanta o Settanta. In realtà Springsteen prende in contropiede tutto e tutti. Cambia addirittura produttore (Brendan O' Brien invece di Jon Landau) e studi di registrazione (gli Southern Tracks Recording di Atlanta).
Il cambiamento più vistoso è però quello della poetica e dell'uomo Springsteen.
La fede in Dio esce dalle pieghe in cui si nascondeva nei dischi precedenti, per assumere il ruolo da protagonista assoluto. Si può facilmente individuare un percorso religioso, o meglio spirituale, che parte dal famoso verso "nuns run bald through Vatican halls pregnant, pleadin' immaculate conception " di Lost in the Flood per arrivare alla preghiera corale che si innalza sulle note di My City of Ruins, che chiude il disco.
La tematica di fondo è quella della tragedia dell'11 settembre, con tutti i suoi vari risvolti umani e affettivi, o quasi. Il punto di vista non può che essere quello americano. Meglio ancora: quello di un americano ferito che canta il dolore di una Terra, di un Popolo. Tanti pensieri per gli eroi americani e, per dirla come una vecchia canzone, "those who've gone and left their babies brokenhearted" (Souls of the Departed). Tante facce di una sola medaglia, con immagini a volte difficili da comprendere, a volte quasi al limite della retorica e dell'ovvietà. Spiccano tra le quindici tracce, soprattutto per il contenuto, Worlds Apart e Paradise.
La prima è un'amara considerazione di come Occidente e Oriente restino, nonostante tutto, due mondi separati. Come spesso accade nelle sue canzoni, Bruce tesse un filo di speranza: un giorno forse un ponte unirà i due mondi, rendendoli più vicini, anche se per il momento c'è solo oscurità.
Paradise invece dà voce ai pensieri di un kamikaze, cercando, con immagini poetiche, di carpire cosa si possa agitare nell'animo di chi vive in un mondo separato dal tuo.
Dal punto di vista musicale credo che si sia perso qualcosa. Forse l'aspetto melodico sacrificato sull'altare dell'impatto scenico della band, con le tre chitarre in primo piano, in un'amalgama di suoni dove si fatica a trovare la magia musicale che legava album tanto diversi e lontani tra loro.
Infine, forse per una tematica così delicata, così profonda, sofferente, mi sarei aspettato suoni più malinconici, meno rock.
Questo è il nuovo Bruce Springsteen. Può piacere o meno. Quello che conta è che ancora una volta la sua scommessa è in piedi, più salda che mai. Conta che Bruce continui a scrivere canzoni in cui possa credere, che possa cantare senza considerarle estranee. Conta che la sua lealtà è ancora lì a farne uno dei personaggi più autentici della musica popolare.




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