IL Contadino

 

 

Non disponiamo di testimo­nianze dirette sulla dura vita del contadino egizio. Analfabeta egli affida necessariamente la pro­pria immagine ad altri; per lui par­lano gli storici, i reperti archeologi­ci e una ricca documentazione ico­nografica. La figura è essenziale al­la prosperità di un Paese che deve gran parte della sua ricchezza all'oscuro lavoro che egli svolge, l’agricoltura,ma la considerazione sociale di cui gode e del tutto impari alla fatica profu­sa. La sua condizione non si modi­fica granché con il trascorrere del tempo gli strumenti che utilizza si conservano nei secoli.

Tra questi c’è lo shaduf, una sorta di traliccio che sorregge un'asta: da una parte è appeso un contrappeso e dall'altra un secchio che, calato nell'acqua, si riempie e ne consente il rapido e facile trasporto là dove necessita. L’esistenza del contadino è legata alla terra che lavora, di chiunque sia, di proprietà della co­rona o di un ordine sacerdotale, mai sua.


I suoi tempi sono regolati dalla piena del fiume che, se è troppo scarsa, porta con sé povertà di raccolto e fame, se è troppo abbondante richiede fatica supplementare per drenare le acque sta­gnanti. Ma anche quando la portata dell'acqua fuoriuscita è ottimale, il lavoro del contadino è faticoso e febbrile. Bi­sogna evitare che la terra inaridisca se si vogliono facilitare le operazioni successive della zappatura e dell'aratura.

 

I reperti

 

Dall’alto: Raccolta, trebbiatura, vagliatura e trasporto del grano nella tomba di Menna.

Due contadini si apprestano a sollevare e trasportare un cesto di grano mietuto.


In genere il contadino egizio non lavora da solo, lo accompa­gna un aiutante con il compito di incitare con grida i buoi e un seminatore che da una borsa trae i semi che sparge nei solchi appena tracciati.

Spesso è presente un funzionario del proprietario della terra, raffigurato di dimensioni
maggiori rispetto agli altri umili attori della scena e ritratto nell'atto di controllare che le operazioni si svolgano al me­glio.

 

Se improvvise tempeste o rovinose invasioni di caval­lette risparmiano le messi così seminate, giunge la stagione del raccolto, il periodo più duro per il contadino, costretto a lavorare sotto gli sguardi vigili degli ispettori del faraone o del sacerdote impegnati a determinare la quota di pro­dotto che gli sarà sottratta. I mietitori con una mano im­pugnano gli steli dei cereali alla base e con l'altra li taglia­no con la falce, li seguono gli spigolatori, spesso donne e bambini, che raccolgono le spighe da terra, le sistemano entro cesti e li caricano su asini.

 

Questi le trasportano nel­le aie dove, mediante calpestio affidato a mandrie di buoi o asini, l'involucro viene separato dal grano. Ma ecco che si presenta lo scriba che, tavoletta alla mano, si appresta a definire con precisione pedante l'ammontare delle tasse.

Se la maggior parte dei contadini è impegnata nella col­tivazione di cereali o lino, numerose sono le scene di ven­demmia dipinte sulle pareti delle tombe a dimostrazione della diffusione di un'attività, quella della produzione del vino, che s'intensificò soprattutto nel Regno Nuovo.

 

Oppresso dalle tasse, costretto frequentemente a corvees imposte dallo stato per assolvere a servizi militari o alla costruzione di imponenti edifici, obbligato a obbe­dire a padroni spietati, il contadino dell'Età Tarda ricorre all'anachoresis: la fuga dal lavoro, l'abbandono della fami­glia e della vita dei campi sono la sola forma di protesta contro un destino inevitabile di miseria e infelicità.

 

 

 

 

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