Editoriale    
20 agosto 1999

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La violenza degli Alleati



        Perfino i più protervi sostenitori dell' "ingerenza umanitaria" ammettono che qualcosa non è andata come avrebbe dovuto e mostrano una virtuosa preoccupazione per la sorte dei kosovari di etnia serba e, i più sensibili, anche del popolo Rom. La violenza a cui è stata sottoposta la Federazione jugoslava era giusta e necessaria, dicono; ma gli Alleati hanno deluso le speranze suscitate dalla nobiltà dei loro intenti quando hanno dimostrato di non sapere o volere reprimere con la necessaria energia quella dell'Uçk.
        Squallido esempio della miseria morale e intellettuale alla quale conduce la volontà di difendere una causa indifendibile allorché si coniuga con un inconfessabile amore per la violenza. Intendiamoci, ci piaccia o no, sappiamo bene che la violenza non è inefficace. Ma i fini che la violenza può conseguire sono limitati. In linea di massima, due. Ci si consenta di tenerli distinti, anche se le cose sono a volte meno semplici. Diciamo, innanzi tutto, che la violenza  può stabilire il dominio del vincitore, e questo, almeno ufficialmente, non era il fine degli Alleati. Ma la violenza può anche liberare gli oppressi dal dominio altrui mediante l'annientamento, la sottomissione o l'espulsione degli oppressori. Parrebbe che proprio in questo ambito debba essere collocata la guerra del Kosovo. Ma così non è,  perché, secondo la versione accreditata dalla Nato, si trattava sì di costringere le formazioni militari e paramilitari serbe ad abbandonare la regione, ma allo scopo di ristabilire una pacifica convivenza tra le due etnie in essa conflittualmente presenti da molti secoli, quella serba e quella albanese, risultato che l'unilaterale violenza  alla quale gli USA avevano deciso di ricorrere fin da prima che facessero deliberatamente fallire i "negoziati" di Rambouillet  non poteva certo conseguire.
      Innanzi  tutto occorreva fermare la mano omicida, è stato detto. Sebbene la retorica dell'unica "mano omicida" resti abbastanza lontana dalla situazione reale, trattandosi di una guerra civile che stava volgendo al peggio per la parte più debole, si avrebbe difficoltà a contestare un'affermazione tanto ovvia, se i fatti non dimostrassero che l' "ingerenza umanitaria" doveva necessariamente ottenere un risultato molto diverso. Come era inevitabile, infierendo sul popolo serbo, la "mano omicida" non è stata fermata. Le si è dato invece motivo e occasione di condurre all'estremo la sua feroce repressione, non senza rapporto con l'eguale ferocia dell'avversario locale - che, fortunatamente, con la stessa sistematicità non era mai stato  in grado di agire - e della coalizione internazionale alla cui soverchiante potenza nulla poteva opporre la Federazione jugoslava. E appena è stato posto termine alle atrocità delle milizie serbe sono ricominciate quelle dell'Uçk - al quale si permette ancora di conservare le armi che avrebbe dovuto deporre, - contrastate dalla Kfor con equivoca debolezza. Ma il punto è che anche se più intensa ed efficace divenisse la controviolenza della Kfor (come forse accadrà per il semplice fatto che le mire dell'Uçk, che coltiva il progetto destabilizzante della Grande Albania, e quelle della Nato rischiano di diventare incompatibili), non per questo potrebbe dirsi che è stato compiuto qualche passo sulla via della pacificazione, perché la pacificazione può essere promossa e agevolata, ma non imposta dall'esterno. Un'autentica pacificazione avrebbe richiesto l'adesione di entrambi i contendenti ad una proposta di mediazione della quale il graduale ritiro delle milizie serbe e il contemporaneo disarmo dell'Uçk avrebbero costituito i presupposti essenziali. In questo quadro si sarebbe inserita coerentemente la presenza armata dei terzi che si erano adoperati affinché si giungesse ad un accordo in qualità di garanti. Solo dopo aver inutilmente sperimentato la possibilità di addivenire a una vera mediazione, la violenza, opportunamente gestita e controllata con responsabile moderazione dall'unica istituzione sprovvista di interessi di parte, le Nazioni Unite, avrebbe potuto svolgere un ruolo non puramente negativo. Ma poiché la violenza è stata usata come è stata usata, di questo sembra inutile discutere.
        A che serviva infliggere infinite sofferenze al popolo serbo, se si voleva ristabilire in Kosovo una pacifica convivenza? A che serviva bombardare scuole, ospedali, infrastrutture civili di ogni genere, provocando un disastro ecologico che non riguarderà soltanto la ex-Jugoslavia? A consentire ai kosovari di etnia albanese, la cui espulsione era stata vertiginosamente accelerata dall'aggressione della Nato, di rientrare in Kosovo? Ammesso, e non concesso, che sia così , la cessazione dei soprusi inflitti a degli innocenti, le cui sofferenze erano state indirettamente, e in qualche caso direttamente, aggravate dall'intervento che avrebbe dovuto porvi rimedio, è stata e sarà pagata ad usura da altri innocenti, in Kosovo e in Serbia. E coloro che si è sostenuto di voler difendere stanno facendo ritorno in una terra devastata e contaminata, mentre una nuova e contraria pulizia etnica, che l'agenzia ONU per i rifugiati (Acnur) definisce "brutale e ripugnante come quella di cui sono stati vittime gli albanesi", ha creato un'altra ondata di profughi, questa volta non sfruttabile per fini propagandistici e perciò brutalmente respinta dai governi della civilissima Europa.
        Sono questi i successi dell'umanitarismo? L'intelligenza si ribella e finisce col trovare più sopportabile l'aperto cinismo del bellicista Luttwak, che almeno fa giustizia della retorica umanitaria. Il re è nudo, scriveva nell'editoriale del 30 luglio Monica Vago. E anche le ultime illusioni si dileguano di fronte al perpetuarsi della violenza attraverso il rifiuto di collaborare alla ricostruzione della Serbia imposto dagli Stati Uniti ai loro "alleati" - sui quali pure intendono scaricare l'intero costo dell'operazione, - ponendo come condizione la caduta di Milosevic, ma, in realtà, l'instaurazione di un regime filooccidentale, evento che la durezza dell'azione militare non ha certo facilitato e che il ricatto statunitense, destinato ad esasperare il nazionalismo serbo, rende ancora meno probabile. In conclusione, se credere all'intento umanitario dei bombardamenti era   difficile, prendere sul serio la grottesca pretesa di insegnare la democrazia per strangolamento è del tutto impossibile.

        Se, dunque, il precipitoso e indiscriminato uso della violenza era un mezzo del tutto inadatto a conseguire il fine che avrebbe dovuto giustificarlo e conduceva piuttosto, esasperando gli odi che avevano dato luogo alla guerra civile da qualche tempo in atto,  ad un risultato opposto, occorre che la decisione di farvi ricorso abbia avuto fin dall'inizio uno scopo che non aveva nulla a che vedere con quello proclamato. E le modalità del suo impiego lo confermano ampiamente.
        Che cosa volevano, allora, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna? Che cosa continuano a volere? Poiché tutto era chiaro fin al primo momento, come molti di noi avevano detto e scritto subito dopo l'inizio dei raids "umanitari", non resta che un'ipotesi: esattamente quello che è avvenuto - o quasi, perché la Serbia ha resistito più del previsto e, almeno sulla carta, ha spuntato condizioni un po' meno onerose di quelle che si era tentato di imporle a Rambouillet. E cioè infliggere un durissimo colpo alla Federazione jugoslava, rea, agli occhi degli strateghi di Washington e di Londra, non tanto di perseguitare una minoranza etnica, come fanno molti altri paesi, compresi i loro e nostri alleati turchi, quanto di ostinarsi a respingere  il disegno imperiale anglo-americano, chiaramente delineatosi fin dai primordi della crisi balcanica e ora completato mediante la massiccia presenza - resa indispensabile dal prevedibile e probabilmente non indesiderato permanere dello scontro etnico - di un contingente militare, che si è surrettiziamente preteso non potesse essere sostanzialmentediverso da quello Nato. Ma anche condurre alle estreme conseguenze la delegittimazione dell'ONU, alla quale da tempo attendevano gli Stati Uniti, al fine di attribuire alla Nato il ruolo di unico giudice delle controversie internazionali, sorvolando sul fatto che è nel medesimo tempo parte non disinteressata, in particolare nelle aree di primaria importanza economica e strategica come quella balcanica. E, naturalmente,  mettere alla prova la  "fedeltà" degli alleati europei, in vista di nuove "ingerenze umanitarie", solo provvisoriamente scoraggiate dalla pessima condotta della guerra, che ha reso evidente ciò che avrebbe dovuto essere occultato dall'apparente nobiltà della causa e dalla rapidità dell'azione militare.

      Antiamericanismo? Qualcuno esulterà. "Ma certo, e del più autentico, ecco la prova del cieco odio che i critici della Nato nutrono verso il popolo americano!" Si calmi. Odiare un intero popolo sarebbe segno di incurabile paranoia, oltre che dell'incapacità di distinguere i molti oppressi dai pochi oppressori, i mistificati dai mistificanti, le voci critiche dai conformisti. Se una cosa tutto questo ci induce a fare, non è certo a odiare, ma ad appoggiare come ci è possibile le componenti progressive della società statunitense, dall'interno della quale si sono innalzate le voci più aspre contro il brutale intervento della NATO. Ciò, tuttavia, non significa che il rifiuto di cadere nella trappola dell'antiamericanismo debba impedirci di giudicare inaccettabile, e magari ripugnante, e con  convinzione tanto maggiore quanto più siamo costretti a farne diretta esperienza  nel nostro paese, il sistema che le classi dominanti degli States sono riuscite a stabilire, sotto il velo di una democrazia sempre più astratta e formale. Né che debba impedirci, anche se diverso dovesse essere il giudizio che ne diamo, di respingere con fermezza la pretesa di imporlo, con la forza del dollaro - e, se non basta, delle armi, - al resto del mondo, e in primo luogo agli stati per i quali non altro non sarebbe che assoggettamento politico ed economico come è già per molti altri. Né, infine, che debba impedirci di opporre, senza farci troppe illusioni ma con decisa convinzione, la nostra capacità di persuadere alle scelte, quasi sempre subalterne e conniventi, dei governi europei e delle forze economico-sociali alla cui disumana e miope logica paleoliberale essi  si sono arresi. Ma dio non voglia che quelle forze inducano un giorno l'Unione europea a svincolarsi dalla tutela statunitense per perseguire con gli stessi mezzi i medesimi scopi in competizione con l'attuale alleato.
                                                                                                                                          Giorgio Cadoni