La violenza degli Alleati
Perfino i più protervi sostenitori dell'
"ingerenza umanitaria" ammettono che qualcosa non è andata come avrebbe dovuto
e mostrano una virtuosa preoccupazione per la sorte dei kosovari di etnia serba e, i più
sensibili, anche del popolo Rom. La violenza a cui è stata sottoposta la Federazione
jugoslava era giusta e necessaria, dicono; ma gli Alleati hanno deluso le speranze
suscitate dalla nobiltà dei loro intenti quando hanno dimostrato di non sapere o volere
reprimere con la necessaria energia quella dell'Uçk.
Squallido esempio della miseria morale e
intellettuale alla quale conduce la volontà di difendere una causa indifendibile
allorché si coniuga con un inconfessabile amore per la violenza. Intendiamoci, ci piaccia
o no, sappiamo bene che la violenza non è inefficace. Ma i fini che la violenza può
conseguire sono limitati. In linea di massima, due. Ci si consenta di tenerli distinti,
anche se le cose sono a volte meno semplici. Diciamo, innanzi tutto, che la violenza
può stabilire il dominio del vincitore, e questo, almeno ufficialmente, non era il fine
degli Alleati. Ma la violenza può anche liberare gli oppressi dal dominio altrui mediante
l'annientamento, la sottomissione o l'espulsione degli oppressori. Parrebbe che proprio in
questo ambito debba essere collocata la guerra del Kosovo. Ma così non è, perché,
secondo la versione accreditata dalla Nato, si trattava sì di costringere le formazioni
militari e paramilitari serbe ad abbandonare la regione, ma allo scopo di ristabilire una
pacifica convivenza tra le due etnie in essa conflittualmente presenti da molti secoli,
quella serba e quella albanese, risultato che l'unilaterale violenza alla quale gli
USA avevano deciso di ricorrere fin da prima che facessero deliberatamente fallire i
"negoziati" di Rambouillet non poteva certo conseguire.
Innanzi tutto occorreva fermare la mano omicida, è
stato detto. Sebbene la retorica dell'unica "mano omicida" resti abbastanza
lontana dalla situazione reale, trattandosi di una guerra civile che stava volgendo al
peggio per la parte più debole, si avrebbe difficoltà a contestare un'affermazione tanto
ovvia, se i fatti non dimostrassero che l' "ingerenza umanitaria" doveva
necessariamente ottenere un risultato molto diverso. Come era inevitabile, infierendo sul
popolo serbo, la "mano omicida" non è stata fermata. Le si è dato invece
motivo e occasione di condurre all'estremo la sua feroce repressione, non senza rapporto
con l'eguale ferocia dell'avversario locale - che, fortunatamente, con la stessa
sistematicità non era mai stato in grado di agire - e della coalizione
internazionale alla cui soverchiante potenza nulla poteva opporre la Federazione
jugoslava. E appena è stato posto termine alle atrocità delle milizie serbe sono
ricominciate quelle dell'Uçk - al quale si permette ancora di conservare le armi che
avrebbe dovuto deporre, - contrastate dalla Kfor con equivoca debolezza. Ma il punto è
che anche se più intensa ed efficace divenisse la controviolenza della Kfor (come forse
accadrà per il semplice fatto che le mire dell'Uçk, che coltiva il progetto
destabilizzante della Grande Albania, e quelle della Nato rischiano di diventare
incompatibili), non per questo potrebbe dirsi che è stato compiuto qualche passo sulla
via della pacificazione, perché la pacificazione può essere promossa e agevolata, ma non
imposta dall'esterno. Un'autentica pacificazione avrebbe richiesto l'adesione di entrambi
i contendenti ad una proposta di mediazione della quale il graduale ritiro delle milizie
serbe e il contemporaneo disarmo dell'Uçk avrebbero costituito i presupposti essenziali.
In questo quadro si sarebbe inserita coerentemente la presenza armata dei terzi che si
erano adoperati affinché si giungesse ad un accordo in qualità di garanti. Solo dopo
aver inutilmente sperimentato la possibilità di addivenire a una vera mediazione, la
violenza, opportunamente gestita e controllata con responsabile moderazione dall'unica
istituzione sprovvista di interessi di parte, le Nazioni Unite, avrebbe potuto svolgere un
ruolo non puramente negativo. Ma poiché la violenza è stata usata come è stata usata,
di questo sembra inutile discutere.
A che serviva infliggere infinite sofferenze al
popolo serbo, se si voleva ristabilire in Kosovo una pacifica convivenza? A che serviva
bombardare scuole, ospedali, infrastrutture civili di ogni genere, provocando un disastro
ecologico che non riguarderà soltanto la ex-Jugoslavia? A consentire ai kosovari di etnia
albanese, la cui espulsione era stata vertiginosamente accelerata dall'aggressione della
Nato, di rientrare in Kosovo? Ammesso, e non concesso, che sia così , la cessazione dei
soprusi inflitti a degli innocenti, le cui sofferenze erano state indirettamente, e in
qualche caso direttamente, aggravate dall'intervento che avrebbe dovuto porvi rimedio, è
stata e sarà pagata ad usura da altri innocenti, in Kosovo e in Serbia. E coloro che si
è sostenuto di voler difendere stanno facendo ritorno in una terra devastata e
contaminata, mentre una nuova e contraria pulizia etnica, che l'agenzia ONU per i
rifugiati (Acnur) definisce "brutale e ripugnante come quella di cui sono stati
vittime gli albanesi", ha creato un'altra ondata di profughi, questa volta non
sfruttabile per fini propagandistici e perciò brutalmente respinta dai governi della
civilissima Europa.
Sono questi i successi dell'umanitarismo?
L'intelligenza si ribella e finisce col trovare più sopportabile l'aperto cinismo del
bellicista Luttwak, che almeno fa giustizia della retorica umanitaria. Il re è nudo,
scriveva nell'editoriale del 30 luglio Monica Vago. E anche le ultime illusioni si
dileguano di fronte al perpetuarsi della violenza attraverso il rifiuto di collaborare
alla ricostruzione della Serbia imposto dagli Stati Uniti ai loro "alleati" -
sui quali pure intendono scaricare l'intero costo dell'operazione, - ponendo come
condizione la caduta di Milosevic, ma, in realtà, l'instaurazione di un regime
filooccidentale, evento che la durezza dell'azione militare non ha certo facilitato e che
il ricatto statunitense, destinato ad esasperare il nazionalismo serbo, rende ancora meno
probabile. In conclusione, se credere all'intento umanitario dei bombardamenti era
difficile, prendere sul serio la grottesca pretesa di insegnare la democrazia per
strangolamento è del tutto impossibile.
Se, dunque, il precipitoso e indiscriminato
uso della violenza era un mezzo del tutto inadatto a conseguire il fine che avrebbe dovuto
giustificarlo e conduceva piuttosto, esasperando gli odi che avevano dato luogo alla
guerra civile da qualche tempo in atto, ad un risultato opposto, occorre che la
decisione di farvi ricorso abbia avuto fin dall'inizio uno scopo che non aveva nulla a che
vedere con quello proclamato. E le modalità del suo impiego lo confermano ampiamente.
Che cosa volevano, allora, gli Stati Uniti e la
Gran Bretagna? Che cosa continuano a volere? Poiché tutto era chiaro fin al primo
momento, come molti di noi avevano detto e scritto subito dopo l'inizio dei raids
"umanitari", non resta che un'ipotesi: esattamente quello che è avvenuto - o
quasi, perché la Serbia ha resistito più del previsto e, almeno sulla carta, ha spuntato
condizioni un po' meno onerose di quelle che si era tentato di imporle a Rambouillet. E
cioè infliggere un durissimo colpo alla Federazione jugoslava, rea, agli occhi degli
strateghi di Washington e di Londra, non tanto di perseguitare una minoranza etnica, come
fanno molti altri paesi, compresi i loro e nostri alleati turchi, quanto di ostinarsi a
respingere il disegno imperiale anglo-americano, chiaramente delineatosi fin dai
primordi della crisi balcanica e ora completato mediante la massiccia presenza - resa
indispensabile dal prevedibile e probabilmente non indesiderato permanere dello scontro
etnico - di un contingente militare, che si è surrettiziamente preteso non potesse essere
sostanzialmentediverso da quello Nato. Ma anche condurre alle estreme conseguenze la
delegittimazione dell'ONU, alla quale da tempo attendevano gli Stati Uniti, al fine di
attribuire alla Nato il ruolo di unico giudice delle controversie internazionali,
sorvolando sul fatto che è nel medesimo tempo parte non disinteressata, in particolare
nelle aree di primaria importanza economica e strategica come quella balcanica. E,
naturalmente, mettere alla prova la "fedeltà" degli alleati
europei, in vista di nuove "ingerenze umanitarie", solo provvisoriamente
scoraggiate dalla pessima condotta della guerra, che ha reso evidente ciò che avrebbe
dovuto essere occultato dall'apparente nobiltà della causa e dalla rapidità dell'azione
militare.
Antiamericanismo? Qualcuno esulterà. "Ma certo, e
del più autentico, ecco la prova del cieco odio che i critici della Nato nutrono verso il
popolo americano!" Si calmi. Odiare un intero popolo sarebbe segno di incurabile
paranoia, oltre che dell'incapacità di distinguere i molti oppressi dai pochi oppressori,
i mistificati dai mistificanti, le voci critiche dai conformisti. Se una cosa tutto questo
ci induce a fare, non è certo a odiare, ma ad appoggiare come ci è possibile le
componenti progressive della società statunitense, dall'interno della quale si sono
innalzate le voci più aspre contro il brutale intervento della NATO. Ciò, tuttavia, non
significa che il rifiuto di cadere nella trappola dell'antiamericanismo debba impedirci di
giudicare inaccettabile, e magari ripugnante, e con convinzione tanto maggiore
quanto più siamo costretti a farne diretta esperienza nel nostro paese, il sistema
che le classi dominanti degli States sono riuscite a stabilire, sotto il velo di una
democrazia sempre più astratta e formale. Né che debba impedirci, anche se diverso
dovesse essere il giudizio che ne diamo, di respingere con fermezza la pretesa di imporlo,
con la forza del dollaro - e, se non basta, delle armi, - al resto del mondo, e in primo
luogo agli stati per i quali non altro non sarebbe che assoggettamento politico ed
economico come è già per molti altri. Né, infine, che debba impedirci di opporre, senza
farci troppe illusioni ma con decisa convinzione, la nostra capacità di persuadere alle
scelte, quasi sempre subalterne e conniventi, dei governi europei e delle forze
economico-sociali alla cui disumana e miope logica paleoliberale essi si sono
arresi. Ma dio non voglia che quelle forze inducano un giorno l'Unione europea a
svincolarsi dalla tutela statunitense per perseguire con gli stessi mezzi i medesimi scopi
in competizione con l'attuale alleato.
Giorgio Cadoni