La guerra non era inevitabile

Durante i 78 giorni dell'azione militare contro la Repubblica Federale
Jugoslava il variegato mondo di giuristi, associazioni, ONG, comitati,
esponenti politici e singoli cittadini che spesso viene sommariamente
indicato con l'etichetta di "pacifisti" ha saputo gridare con forza il suo
"no" all'odio etnico usato come strumento al servizio di una politica
mafiosa e criminale, condannando al tempo stesso lo spaventoso ossimoro
della "guerra umanitaria" con cui gli Stati Uniti, all'ombra delle 19
grandi potenze della Nato, hanno preteso di rappresentare i 185 Paesi
membri delle Nazioni Unite. Molti intellettuali, giornalisti, politici,
opinionisti e militari hanno tuttavia lamentato l'assenza di una
alternativa, di una proposta in grado di risolvere il dramma del Kossovo
con la stessa efficacia delle bombe "intelligenti". Molti hanno accettato
la sfida con l'intelligenza delle bombe, e molti altri questa sfida
l'avevano addirittura anticipata, proponendo delle soluzioni concrete,
efficaci e praticabili addirittura anni prima dei bombardamenti, ma queste
voci purtroppo non hanno trovato ascolto.

Nell'opinione comune, tuttavia, e' ormai radicata questa immagine dei
"pacifisti" capaci di dire solo "no", portatori di un idealismo sterile
incapace di fare i conti con la realta' concreta proponendo soluzioni
alternative alla guerra. L'immagine dei pacifisti "da corteo" e' proprio
quella di un gruppo di persone immature, magari animate da sentimenti molto
buoni, ma inadatte alla gestione dei veri problemi.

La realta' concreta e' piu' variegata, e molti pacifisti del 1999
sono lontani anni luce dallo stereotipo dei "figli dei fiori" anni '60.
Oggi la pace cerca con fatica di uscire dalla sua aurea di idealismo per
rivestirsi di concretezza, parlando con la voce di professori universitari,
psicologi ed esperti di cooperazione internazionale, con le parole di chi
ha scelto la politica dei diritti umani e del diritto internazionale contro
la legge militare del piu' forte.

Al contrario di quanto si crede (o si vuol far credere, o fa comodo
credere) questa proposta politica va ben oltre la semplice critica ai
bombardamenti. Si tratta di una proposta nata molto prima dell'esplosione
della crisi in Kossovo, e che continuera' anche dopo la gestione
dell'emergenza. La proposta politica dei movimenti per la pace e' basata
sulla diplomazia popolare, sul rafforzamento dell'ONU e sulla sua
democratizzazione, sull'abolizione del diritto di veto, sulla piena
affermazione del diritto internazionale. E' una politica che preferisce
l'interposizione diretta di forze ONU, di caschi bianchi o di corpi civili
di pace, con tutti i rischi che ne conseguono, alle azioni militari "a
perdite zero" fatte a diecimila metri d'altezza, dove non e' percettibile
nemmeno la differenza tra un convoglio militare e una colonna di profughi;
una politica in cui la pace non e' l'assenza di guerra o la spartizione dei
territori su base etnica, ma la creazione culturale e sociale di una
convivenza interetnica solida e duratura.

La prima alternativa alla guerra era rappresentata dalle forze di
monitoraggio e di interposizione che erano gia' presenti nei balcani molti
mesi prima del conflitto, quando sul Kossovo non erano ancora accesi i
riflettori dei media e si poteva far finta che laggiu' non succedesse
niente. Prima dei bombardamenti sulla Repubblica Federale Jugoslava erano
presenti in Kossovo centinaia di osservatori civili dell'OSCE
(Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), che avevano
il compito di monitorare il rispetto dei diritti umani in Kossovo. Il
governo di Belgrado aveva riconosciuto il ruolo degli osservatori OSCE e
aveva accettato la loro presenza all'interno del Kossovo. Il credito e la
forza diplomatica concessi all'OSCE sono stati un' "arma" negoziale
praticamente non utilizzata, e la missione degli osservatori ha dovuto
concludersi con una frettolosa evacuazione nei giorni immediatamente
precedenti ai bombardamenti. Pascal Neuffer, verificatore OSCE del
contingente svizzero durante l'ultimo mese precedente all'evacuazione, ha
dichiarato in una intervista che "La situazione sul terreno, alla vigilia
del bombardamento NATO, non era tale da giustificare un'azione militare
immediata (...) Indubbiamente in Kosovo era in atto una discriminazione a
sfondo etnico, con tanto di pulizia etnica. Ma prima dei bombardamenti era
ancora piuttosto contenuta. Molti di noi sono rimasti stupiti dall'ordine
di evacuazione: avremmo sicuramente potuto continuare a svolgere il nostro
lavoro. Per di piu' la giustificazione data anche alla stampa, secondo cui
la missione sarebbe stata compromessa dalla Serbia che ci avrebbe
minacciato, non mi risulta assolutamente. Diciamo pure che siamo stati
evacuati perche' la NATO aveva deciso di bombardare. Peccato, perche'
l'OSCE avrebbe potuto sicuramente giocare un ruolo maggiore. Ma alla luce
di quanto successo, viene da chiedersi se sia stata voluta come azione
pacificatrice o come pretesto per intervenire militarmente."

Va aggiunto che il ruolo e la natura degli osservatori OSCE sono stati
piuttosto ambigui: spesso gli osservatori erano persone senza nessuna
conoscenza nel campo della risoluzione dei conflitti o dell'interposizione
nonviolenta, ex militari in pensione incapaci di attenuare la tensione del
conflitto o di creare il dialogo tra le differenti etnie. E' opinione
diffusa che dietro le attivita' di ricostruzione del tessuto sociale in
Kossovo ci siano stati anche compiti non ufficiali come lo spionaggio
militare e il monitoraggio degli spostamenti delle truppe. Sottovalutare la
forza e l'impatto sociale dell'interposizione non armata e' stata una
grande occasione perduta, quando la creazione di una forza civile di pace
per il monitoraggio dei diritti umani e' ormai universalmente accettata
come condizione fondamentale per la prevenzione dei conflitti ancora allo
stadio iniziale. Queste teorie, purtroppo, non trovano ancora molto spazio
presso il ministero della difesa e il ministero degli esteri, direttamente
coinvolti nella selezione degli osservatori internazionali: la prevenzione
dei conflitti nella maggior parte dei casi e' ancora una "roba da
militari".

La seconda alternativa alla guerra c'e' stata a Rambouillet, quando le
grandi potenze del gruppo di contatto hanno dimostrato una scarsissima
capacita' di mediazione cercando di strappare al governo serbo un accordo
in cui il controllo militare dell'intera Repubblica Federale Jugoslava
veniva affidato alla Nato. Si tratta della famigerata appendice B degli
accordi di Rambouillet, in cui si afferma che "Il personale della Nato
dovra' godere, con i suoi veicoli, vascelli, aerei e equipaggiamento di
libero e incondizionato transito attraverso l'intero territorio della
Federazione delle Repubbliche Jugoslave, ivi compreso l'accesso al suo
spazio aereo e alle sue acque territoriali. Questo dovra' includere, ma non
essere a questo limitato, il diritto di bivacco, di manovra e di utilizzo
di ogni area o servizio necessario al sostegno, all'addestramento e alle
operazioni". Non si tratta di truppe ONU dispiegate in Kossovo, come e' in
realta' avvenuto con i successivi accordi di "pace" di Kumanovo, ma di
truppe Nato dislocate su tutto il territorio jugoslavo. In aggiunta a cio',
l'articolo 7 dell'appendice B prevedeva l'immunita' in perfetto "stile
Cermis" delle truppe Nato. Forse prima di iniziare a bombardare queste
clausole molto stringenti avrebbero potuto essere ammorbidite un po'.
Questo giudizio sugli accordi di Rambouillet e' condiviso anche da Don
Valentino Salvoldi, che ha seguito in prima persona le violazioni dei
diritti umani in Kossovo sin dai primi anni '90, promotore in "tempi non
sospetti" di iniziative per la riconciliazione tra le etnie e per il
recupero dell'autonomia culturale e politica della popolazione albanese.
Secondo Don Salvoldi le proposte fatte a Rambouillet sarebbero "accettabili
solo da pazzi", "un gioco di politica sporca che non tiene conto delle
vittime innocenti che provoca".

La "politica sporca" di cui parlava Salvoldi e' stata la stessa politica
che ha piegato alle esigenze militari le regole del diritto internazionale.
Chi denuncia l'assenza di una alternativa "pacifista" ai bombardamenti
forse dimentica, o non sa, o non vuol sapere, che un'altra delle possibili
alternative e' contenuta nella carta delle Nazioni Unite. Prima
dell'impiego della forza armata, infatti, l'art.41 della carta prevede
"un'interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e delle
comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche, radio
ed altre, e la rottura delle relazioni diplomatiche". Che le relazioni
economiche con il regime del "nuovo Hitler" non si siano mai interrotte e'
un dato di fatto. In un documento presentato il 27/3/99 gli attivisti della
Campagna per una soluzione nonviolenta in Kossovo hanno denunciato il
trattamento di favore accordato alla Jugoslavia, "dichiarata per giunta
zona di mercato privilegiato, cosa che ha aperto la corsa agli affari a
molte nazioni tra cui l'Italia che ne e' diventata il primo partner
economico attraverso accordi stipulati con STET (telecomunicazioni), FIAT e
altre societa'". Le conferme a queste informazioni sono riportate nei
contratti che nell'estate del 1997 portarono alla cessione quasi immediata,
per un miliardo di dollari circa, del 49% delle azioni della Telekom serba
a Telecom Italia e alla consorella greca. L'aggancio con l'economia europea
e' sempre stato una linfa vitale che ha sostenuto e rafforzato il regime di
Milosevic. L'esclusione dai grandi circuiti finanziari, la revoca del
credito delle banche estere, la sospensione degli investimenti e degli
accordi economici, l'isolamento politico e diplomatico sarebbero stati
un'arma efficace almeno quanto le bombe per la destabilizzazione del potere
criminale, mafioso ed affaristico che ha sostenuto per anni il regime
serbo.

Come si puo' vedere, le alternative alla guerra esistevano, ed erano tutte
molto concrete e praticabili. E' comprensibile comunque che per molte
persone la soluzione militare abbia rappresentato l'unica strada
percorribile. Tuttavia, anche chi non e' riuscito a vedere (o non ha voluto
vedere) una possibile alternativa all'intervento armato dovrebbe
interrogarsi sulle modalita' con cui si e' svolta l'azione militare.
Forse la guerra non poteva essere evitata, ma sicuramente poteva essere
evitato l'utilizzo di proiettili all'uranio impoverito, radioattivi e
cancerogeni, l'impiego di bombe a grappolo, equiparate alle mine antiuomo,
il bombardamento di infrastrutture civili come stazioni televisive,
centrali elettriche e ospedali, la distruzione deliberata di industrie
petrolchimiche con effetti ambientali devastanti.

Molte delle argomentazioni sin qui esposte, va riconosciuto, non possono
essere dimostrate alla luce dei fatti, ma sono condannate a rimanere delle
semplici ipotesi. Forse le "colombe" non riusciranno a dimostrare fino in
fondo che la pace armata non era l'unica pace possibile, ma anche i
"falchi" dovranno faticare molto per dimostrare che l'unica guerra
possibile era la guerra che si fa beffe del diritto internazionale e della
costituzione, la guerra fatta dal cielo per non sporcarsi le mani, la
guerra fatta con gli scarti delle centrali nucleari, la guerra che lascia
come ricordo bombe a grappolo inesplose, la guerra che trasforma il mare in
un campo minato, la guerra che scambia i ruoli tra oppressi ed oppressori,
questa guerra sporca che non lascera' piu' niente come prima, e che dal 24
marzo ci ha trasformato in assassini o in paladini dei diritti umani, a
seconda dei punti di vista.

Carlo Gubitosa
<c.gubitosa@peacelink.it>