da "Nigrizia" maggio 99

Nuovo ordine mondiale / Un alibi chiamato "umanitario"
È solo l'inizio dei guai
Giulietto Chiesa

Le bombe della Nato hanno colpito, con davvero millimetrica precisione, un
obiettivo che non si trovava a Belgrado bensì a New York: il Palazzo di
vetro. E non è stato un errore di mira.

  Pochi hanno mostrato di rendersene conto nel mezzo dei clangori di guerra
e della retorica "umanitaria" che li ha motivati. Non parlo ovviamente dei
problemi umanitari, terribilmente evidenti, parlo della insopportabile
retorica umanitaria con cui si è offuscata la ragione e il sentimento di
milioni di persone in buona fede.
Una piccola pattuglia di coloro che hanno capito è rimasta a presidio delle
macerie, gli altri hanno applaudito all'operazione militare che
sostituisce, di fatto, alle Nazioni Unite un unico reggitore del mondo
futuro: gli Stati Uniti d'America.

Per quanto tempo, nessuno lo sa. I gruppi dirigenti americani pensano per
sempre. Ma non è delle loro certezze, o illusioni, che qui occorre parlare.
Perché è accaduto, sta accadendo, un evento di enorme portata storica,
destinato a sconvolgere profondamente le nostre vite, quelle dei nostri
figli e nipoti, non solo quelle dei disperati fuggiaschi del Kosovo e delle
città iugoslave bombardate.
Come sempre accade, le motivazioni nobili ci sono, o si trovano. In questo
caso, è prevalso il suono "umanitario". In altri tempi, in epoca di guerra
fredda, si usò spesso - in Cile, a Cuba, Grenada, Panama, Vietnam - la
locuzione "difesa degli interessi nazionali dell'America". Il linguaggio
era più crudo e la retorica più contenuta, con grande vantaggio, se non
altro, per la verità. Si agiva in nome della "libertà" e in base
all'assioma che la libertà coincideva con gli Usa e, quindi, con i suoi
interessi nazionali.
L'America rappresentava il baluardo, l'unico, capace di fermare l'Unione
Sovietica. Ogni "distinguo" equivaleva perciò, semplicemente, a
disfattismo, quando non a simpatia, connivenza, tradimento. La caduta del
muro di Berlino ha posto fine a quella situazione, durata pressappoco
cinquant'anni, come la Nato. Apparentemente si erano create le condizioni
per una governance del mondo più efficace, libera dalla paura nucleare,
capace di affrontare le numerose e cruciali sfide che si ergono di fronte
al benessere degli uomini e alla loro crescita spirituale e materiale.
Certo, la rete delle istituzioni sovranazionali era piena di buchi, spesso
paralizzata dai veti e dai ricatti della politica e delle diplomazie,
altrettanto spesso incapace di decidere, oppure priva dei poteri reali di
decisione, sottrattile dall'egoismo dei più forti, dalla prepotenza dei
dittatori, dall'oggettiva difficoltà di far combaciare piani separati e
obliqui di culture, di tempi storici, di interessi radicati. L'immensa
"complessità" del mondo, tuttavia - per quanto difficile da governare -, si
dispiegava finalmente dopo cinquant'anni di semplificazioni, di
banalizzazioni, di "riduzioni a due", dettata dal mondo bipolare, impegnato
in un braccio di ferro per la vita e per la morte.
Di fronte a questa "complessità" mutavano i singoli ruoli e prendeva
oggettivamente il sopravvento, almeno logicamente, "l'interesse comune". Ma
questo senza tenere conto della "realtà effettuale" delle cose. Finita la
guerra fredda non finirono invece gl'interessi che erano stati capaci di
vincerla. Anzi furono essi a dispiegarsi con una inattesa virulenza. Gli
Stati Uniti in primo luogo, l'Occidente nel suo complesso, trovatisi
vincitori, si sono resi conto di non avere più alcun contrappeso. E di non
desiderarne di nuovi.
Una consapevolezza che, abbastanza stranamente a prima vista, ha impiegato
poco meno di dieci anni per dispiegarsi in tutta la vastità delle sue
implicazioni. Ci troviamo esattamente in questo snodo, quando essa si
traduce in pratica. Cosa ha significato, ad esempio, l'avvio
dell'estensione a est della Nato, se non l'affermazione del nuovo potere
mondiale degli Stati Uniti? Non esisteva, per questo, una sola motivazione,
né sotto il profilo della sicurezza dei vecchi membri, né sotto quello
della sicurezza dei nuovi. A volerla è stato il presidente Clinton, molto
più degli alleati europei, che però l'hanno accettata senza quasi
discutere, sebbene comprendessero che essa era il riflesso di un misto di
ragioni elettorali interne agli Usa, e della volontà americana di tenere
l'Europa vincolata alle strategie americane.


E tutti gli altri Kosovo?

I fili che legano le classi dirigenti europee a quella americana sono
tanti, molteplici, possenti. E se è vero che il "nemico Russia" era
palesemente demolito, le une e l'altra percepivano – e percepiscono – una
minaccia ben più generale. Ai rappresentanti del "miliardo d'oro" non
sfugge il pericolo rappresentato in prospettiva dall'approfondirsi del
divario tra le ricchezze dell'Occidente e la "miseria relativa" dei
cinque/sesti dell'umanità, destinati sempre più rapidamente a divenire i
sei/settimi e poi i sette/ottavi. Non può esserci pace, e benessere
garantito per il "miliardo d'oro", in un futuro in cui nessuno dei desideri
di un giovane di Bangkok o di Accra, di Vladivostok o di Quito, può essere
realizzato se non a New York o a Los Angeles. Né gl'interessi nazionali
dell'America potranno essere tutelati nella innumerabile vastità
degl'interessi del mondo.
Ecco dunque la necessità di liberarsi, per tempo, degl'impacci e delle
inutili bardature dell'Onu in tutte le sue epifanie settoriali. Non è per
questa via che il "miliardo d'oro" potrà tutelare il proprio crescente
benessere. Essa, al contrario, può soltanto minacciarlo, condizionarlo,
rallentarlo. Occorrevano, come s'è detto, nuove motivazioni. Non quelle
vere, inutilizzabili su larga scala perché provocherebbero indignazione
generale, così bene riassunte recentemente da uno degli apologeti più
intransigenti e sinceri di questo modo di ragionare. «La mano nascosta del
mercato globale non potrà mai funzionare senza un bastone nascosto. E il
bastone nascosto – che garantisce la possibilità di fioritura alle
tecnologie di Silicon Valley – si chiama Esercito degli Stati Uniti, Forze
Aeree, Marina e Corpo dei Marines (con l'aiuto, incidentalmente, delle
istituzioni globali come le Nazioni Unite e il Fondo Monetario
Internazionale)». Parola di Thomas L. Friedmann ( International Herald
Tribune , 20 aprile 1998).
Non quelle vere, dunque, ma di nuove, più digeribili. E sono state trovate.
Di figure odiose come Saddam Hussein o Slobodan Milosevic il mondo è pieno.
Di tragedie come quella degli albanesi del Kosovo – terribile senza alcun
dubbio – ve ne sono state e ve ne sono a decine, spesso non meno grandi e
mostruose. Basta concentrare i riflettori su quelle che meglio possono
toccare il cuore dei miliardi di telespettatori, sudditi del sesto membro
permanente – il più permanente di tutti – del consiglio di sicurezza
dell'Onu: la Cnn.
E a nulla vale chiedere: perché in Kosovo sì e in Kurdistan no? Perché in
Bosnia sì e in Cecenia no? A nulla vale ricordare, ad esempio, che Saddam
Hussein fu creatura americana finché servì come burattino, nemico di
Teheran. È storia, cioè non serve e non interessa più in un mondo in cui lo
spessore del tempo si va riducendo a lamine impercettibili e trasparenti,
oltre le quali non c'è più nulla. In ogni caso - è l'ultima e definitiva
risposta - "bisognava pure incominciare da qualche parte". Oppure si
sottolinea che, purtroppo, "non dappertutto è possibile esportare diritti
umani, ma questo non significa che dobbiamo assistere passivamente alle
atrocità laddove possiamo impedirlo".
Argomenti tutti accompagnati dalla conclusione quasi unanime dei
commentatori: le Nazioni Unite sono ormai solo una perdita di tempo. Il
modello da seguire è quello adottato per recintare Baghdad e Belgrado: una
pioggia di bombe. Ed è l'America stessa che decide il come, il dove, il
quando e anche il perché. Non importa se da sola o in compagnia.
È l'avvio di una nuova giurisprudenza internazionale, in cui l'accusa
coincide con il tribunale giudicante e con l'esecutore della pena. Non è
previsto appello e neppure l'arringa della difesa. Perfino il compromesso è
escluso, salvo che nella forma di una gentile concessione del più forte. È
toccato all'Europa dei governi socialisti assaggiare questo boccone. Che è
diretto – se ne rendano conto o meno gli europei – anche contro l'Europa.
Non c'è nulla di casuale in questa tragedia. Le illusioni dell'euro appena
nato, di una dialettica tra potenti, di un futuro condominio del mondo,
debbono ora essere abbandonate. Saremo tutti, forse, nel "miliardo d'oro",
ma come fratelli minori, con voto consultivo.
Se l'America prende il posto dell'Onu e la Nato quello dell'Osce, non sarà
facile sfuggire alle future, uggiose, inevitabili decisioni unanimi che ci
attendono. Il vero problema, l'unico che rimane, e non piccolo, sono quelli
che restano fuori del "miliardo d'oro". E quelli che ne sono già fuori
anche se vivono nei territori privilegiati. La globalizzazione, che tanto
ha contribuito a rendere l'America ancora più ricca e potente, chiama
imperiosamente in causa anche loro.
La Russia sembra reagire come se capisse che il "modello Belgrado" è
disegnato anche per il suo futuro. Alla Cina verrà proposto un ruolo
analogo a quello dell'Europa, altra ganascia della tenaglia con cui
Washington – secondo la ricetta di Zbignew Brzezinski – risolverà,
stritolando la Russia, l'equazione eurasiatica.
Grande, affascinante disegno, quello del "secolo americano" prossimo
venturo. Che implicherebbe, tuttavia, una capacità ("egemonica" avrebbe
detto Antonio Gramsci) di gestire la complessità del mondo, prima di tutto
riconoscendone l'esistenza. Invece sorge il sospetto che a Washington
pensino che tutto il mondo sarà un giorno, neanche troppo lontano, come
Washington o, in subordine, come Washington vorrebbe che fosse. E questo,
francamente, non sembra probabile. I guai nasceranno quando ciò diventerà
evidente.

Giulietto Chiesa
Corrispondente della Stampa da Mosca.


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