Quale verità su Racak
L'esca di Racak
TIZIANA BOARI

U n massacro di civili inermi. Così un anno fa la comunità internazionale e gran parte della stampa definì il ritrovamento dei cadaveri di 45 albanesi nel villaggio di Racak, presso Stimlje, nel Kosovo meridionale, dove il giorno prima si erano svolti violenti scontri tra truppe serbe e guerriglieri dell'Uck. I corpi ritrovati rilevavano ferite da arma da fuoco e molti presentavano mutilazioni di vario genere. William Walker, il capo della missione Osce (Kvm) incaricata da metà ottobre 1998 di verificare l'applicazione del cessate il fuoco tra serbi e kosovari concordato tra Milosevic e Holbrooke, si recò sul luogo in tarda mattinata e convocò per il giorno stesso una conferenza stampa, in cui affermò di aver trovato "i corpi di oltre venti uomini che erano stati chiaramente giustiziati là dove giacevano (...) Tutti erano in borghese; tutti apparivano come umili abitanti del villaggio".
Walker definì l'episodio "un massacro, un crimine contro l'umanità" e non esitò ad attribuirne la responsabilità alle truppe serbe, chiedendo l'ntervento dell'allora procuratore capo del Tribunale Internazionale dell'Aja, la canadese Louise Arbour.

A bruciapelo

Si parlò di un'esecuzione, di colpi sparati a bruciapelo contro civili inermi. Gli Usa puntavano ad un intervento militare immediato; l'Europa, pur scossa dall'atrocità dei fatti, cercò un'ulteriore mediazione diplomatica con la convocazione della conferenza di Rambouillet. Alla vigilia del suo fallimento pilotato, furono resi noti in modo sommario i risultati delle autopsie: secondo le dichiarazioni del medico finlandese incaricato dall'UE, Helena Ranta, "nessun elemento fa dedurre che non si trattasse di civili disarmati", uccisi nel luogo del loro ritrovamento. Il mondo fraintese i suoi "commenti personali", scritti e divulgati in quel momento e in quella forma sotto evidenti pressioni politiche, ed emise il verdetto di condanna contro i serbi.
L'episodio di Racak fu strumentalizzato per preparare l'opinione pubblica ad una escalation militare, per fornire la giustificazione morale alla guerra. Doveva essere un massacro, un crimine contro l'umanità per chiarire al mondo chi fossero i "buoni" e chi i "cattivi". Oggi, sulla base della documentazione esclusiva in nostro possesso, possiamo dire che la verità fu sottaciuta. Non possiamo affermare di sapere cosa accadde quel 15 e 16 gennaio di un anno fa, ma possiamo stabilire in modo fondato ciò che non accadde.
E questo sulla base delle copie dei protocolli - finora tenuti segreti e ora da noi esaminati - delle 40 autopsie eseguite parallelamente dai patologi jugoslavi e bielorussi, e dal team di medici forensi finlandesi incaricati dall'UE e guidati dalla dottoressa Helena Ranta; nella documentazione sono inoltre contenuti quattro rapporti riservati dell'Osce sul ritrovamento di Racak, redatti il 16 e il 17 gennaio 1999.
Esaminando le due serie di protocolli di autopsia, ci si accorge che fondamentalmente quelli firmati unicamente dagli jugoslavi e bielorussi e quelli firmati anche dai finlandesi si equivalgono nelle conclusioni. Le prove dimostrano che non fu un'esecuzione e non è sicuro che si trattasse di civili inermi. Il professor Dusan Dunjic, patologo dell'Istituto di medicina forense di Pristina, afferma - nel suo articolo "The (Ab)use of Forensic Medicine" - che prima di eseguire le autopsie, il suo team effettuò la prova del guanto di paraffina, rilevando in 37 casi su 40 tracce di polvere da sparo sulle mani dei cadaveri. Ma di ciò nei documenti firmati ufficialmente non è rimasta traccia. E anche le cifre, il numero e soprattutto l'identità dei morti registrati non sono elementi indiscutibili. Al contrario, su questo punto le contraddizioni e i misteri irrisolti restano tanti. Cos'è dunque che "non accadde"?

Quante erano le vittime?

Il 15 gennaio 1999 a Racak, una roccaforte dell'Uck piena di trincee, scoppiarono violenti combattimenti tra guerriglieri e truppe serbe. Nel rapporto speciale dell'Osce, redatto in data 17 gennaio, il 12 gennaio i leader locali dell'Uck riferivano che oltre un migliaio di civili aveva abbandonato i villaggi di Belince, Racak, Petrova e Malopoljce per rifugiarsi sulle colline.
Il giorno dopo invece, i verificatori della Kvm trovarono a Racak 350 persone, il rapporto non menziona affatto che potesse trattarsi di guerriglieri Uck. Alcuni giornalisti internazionali presenti sul posto il 15 sera riferirono di non aver rilevato niente di strano nel paese, meno che mai la presenza di vittime di un eccidio. Il 16 i primi ad arrivare sul luogo, secondo testimoni diretti, furono gli americani della missione Usa di osservazione diplomatica in Kosovo (Uskdom), su segnalazione di fonti locali, probabilmente dell'Uck. Il rapporto Osce parla invece di un gruppo di verificatori che arrivò nel primo mattino, trovando, su una collina dietro al villaggio, 23 cadaveri di uomini, tutti uccisi da colpi di arma da fuoco sparati alla testa da una "distanza estremamente ravvicinata" (extremely close range). Lungo un sentiero vicino al villaggio, come in fila, furono rinvenuti i corpi di altri 3-4 uomini , apparentemente "colpiti mentre fuggivano". All'interno del villaggio, con la specifica tra parentesi "uccisi al di fuori, ma i cadaveri sono stati riportati a casa da alcune famiglie", 18 corpi, tutti di adulti maschi, ad eccezione di un bambino e di una donna. Di questi, 11 corpi risultano rinvenuti all'interno delle case del villaggio, 5 uccisi a Racak ma "portati a Malopoljce dalla loro famiglia": probabili guerriglieri portati via dalla "famiglia" dell'Uck?
L'Osce non menziona la probabile presenza di guerriglieri tra i caduti, avvalorando lo scenario dell'esecuzione sommaria contro civili. Peraltro il 15 a mattina il Media Center di Pristina, legato al governo serbo, chiamò gli operatori della Ap tv e altri giornalisti stranieri (tra questi l'inviato di Le Monde Christophe Chatelot, quello di Liberation Pierre Hasan e quello de Le Figaro Renaud Girard) segnalando loro che avrebbero dovuto trovarsi a Racak alle 10,30. Qualcosa stava accadendo. Alle 14,30 dello stesso giorno, il Media Center comunicava che nel villaggio controllato dall'Uck era stato portato a termine un attacco antiguerriglia e che "15 terroristi" erano stati uccisi. Perché un organo governativo avrebbe dovuto inviare un gruppo di giornalisti in un luogo dove si stava compiendo un massacro preordinato dai serbi?

I "criteri" dell'Aja

Di sicuro si sa che il giorno dopo, l'Esercito di Liberazione del Kosovo aveva riportato tra le sue file sei morti, che sarebbero saliti a otto, e sei feriti: lo afferma un rapporto interno dell'Ue datato 17 gennaio (nr. 10829), come riportato dal quotidiano tedesco Berliner Zeitung. l'Uck inoltre aveva annunciato che 22 suoi guerriglieri erano stati giustiziati dalla polizia serba: sul reale numero dei morti dunque regna ancora una certa confusione. Per la raccolta delle prove e per l'identificazione dei morti, altro capitolo poco chiaro, l'Osce si basò sulle testimonianze degli abitanti del villaggio. I protocolli delle autopsie infatti attribuiscono un numero in codice per ogni cadavere e indicazioni di base per la sua identificazione, ovvero sesso, età largamente approssimativa (ad es. "25-45 anni"), statura e corporatura. Ma nessun nome.
Con quali criteri dunque il Tribunale internazionale dell'Aja ha associato i 45 nomi presenti nell'elenco degli "assassinati a Racak" (inserito tra i capi di imputazione emessi contro i vertici di Belgrado il 22 maggio 1999) con i 40 cadaveri ritrovati e sottoposti ad autopsia dai medici forensi? Secondo l'inchiesta tedesca condotta dal quotidiano "Berliner Zeitung", almeno 13 delle 45 persone elencate dal Tribunale internazionale oggi non risultano seppellite nel "cimitero dei martiri" di Racak. Tra le 43 tombe che compongono il cimitero, invece, compaiono una dozzina di nomi estranei all'elenco. Che fine hanno fatto quei cadaveri? Chi erano in verità?

Il balletto delle autopsie

Torniamo a Racak. Dopo il ritrovamento, i cadaveri furono portati nella moschea dalla popolazione locale (e dall'Uck che li controllava a vista): come prescrive la religione musulmana, avrebbero dovuto essere seppelliti entro 48 ore dalla morte. Il 17 gennaio, il magistrato inquirente del tribunale distrettuale di Pristina, Danica Marinkovic, si recò a Stimlje, presso Racak, per iniziare le dovute indagini sul caso, come previsto dalle leggi jugoslave. Il capo delle operazioni della Kvm, generale John Drewienkiewicz, le offrì una scorta disarmata per entrare nel villaggio, sotto controllo dell'Uck. I guerriglieri, secondo un comunicato stampa della Kvm (n.12/99), avrebbero concesso l'entrata di un gruppo disarmato. Ma la Marinkovic non si fidò e chiese di entrare con poliziotti armati. La mediazione fallì, le truppe serbe occuparono il villaggio per recuperare i cadaveri e trasferirli all'obitorio di Pristina dove un gruppo di 4 medici forensi jugoslavi e 2 osservatori bielorussi potè avviare le autopsie. Le prime quindici dimostrano che non c'è prova del massacro e che - al contrario di quanto affermato da William Walker e dai rapporti Osce - le ferite non sono state causate da proiettili sparati a distanza ravvicinata (meno due casi, in cui si rileva una presenza sospetta di polvere da sparo intorno al foro di entrata del proiettile, si esclude tuttavia lo sparo a bruciapelo e si rimanda alla "necessità di ulteriori analisi", una costante di tutti i protocolli).
Ma il mondo vuole le prove delle responsabilità serbe, urla al massacro e accusa di faziosità il team di patologi slavi. Qui entra in gioco Helena Ranta e il suo gruppo di medici finlandesi a partire dal 22 gennaio.
Non controfirma le prime 15 autopsie eseguite dai colleghi slavi e decide di rifarle: nessuno ci ha detto che la dottoressa Ranta cercherà, sull'onda emotiva del fatto, le prove di un massacro contro civili inermi, senza utilizzare mai la prova del guanto di paraffina che avrebbe indicato se tra i caduti c'erano dei guerriglieri (come invece risulta al suo collega jugoslavo). Cosa dicono dunque i risultati?
Per tutti i casi, meno uno (RA-34), "non c'è prova di proiettili sparati a bruciapelo o a distanza fortemente ravvicinata". Le ferite sono in molti casi numerose, di tipo diverso. La maggioranza, oltre che al torace e alla testa, riporta ferite da arma da fuoco alle mani e alle gambe. Frequenti le ferite di striscio nella zona della testa. Le traiettorie dei proiettili sono variabili e diverse anche su uno stesso corpo; perlopiù si tratta di colpi alla schiena o laterali, qualche frontale. Un particolare elemento di comprensione dell'accaduto è dato dalle autopsie della donna (Ra-36, tra i 20 e i 30 anni) e del bambino (Ra-13, tra i 10 e i 15 anni), entrambe deceduti a causa di una ferita nella zona toracica causata rispettivamente da un solo proiettile. Riferimenti al ferimento di questi due soggetti si ritrovano nel rapporto speciale dell'Osce datato 17 gennaio che, relativamente al 15 riporta: "Nel tardo pomeriggio una pattuglia di verificatori della Kvm è riuscita ad entrare nel villaggio di Racak. I verificatori hanno visto un albanese morto e cinque civili feriti inclusa una donna e un bambino sofferenti per ferite da arma da fuoco. La Kvm ha inoltre ricevuto altri rapporti non confermati relativi ad ulteriori decessi".

Le autopsie

Secondo protocolli finlandesi, i proiettili utilizzati risultano provenienti da "armi di piccolo calibro, di grande potenza". In un caso è stata rilevata l'azione di un proiettile a frammentazione.
In un caso (Ra-3) troviamo il cadavere di un uomo "ben nutrito, di un'età stimata tra i 25-45 anni" che presenta ben 35 ferite, tutte di diametro diverso, 20 delle quali da arma da fuoco, abrasioni multiple nella zona degli arti inferiori, costole rotte e oggetti sensibili ai raggi X. Le cause del decesso sono chiaramente riportate: tra le più frequenti, ferite alla testa, al torace, emorragie interne. Per tutti non è stato ufficialmente possibile determinare la categoria delle modalità del decesso, ovvero cosa accadde: nulla di ufficiale conferma la tesi del massacro. E le mutilazioni che tanto sdegnarono l'opinione pubblica? Il termine "mutilazione" non ricorre in alcun caso. I referti indicano invece ferite o perdita di tessuti o materiale organico post mortem., "presumibilmente" causati da morsi di animali.
In sette casi è presente lo stato di putrefazione del corpo. Un uomo tra i 20 e 40 anni risulta decapitato (Ra-31) ; il cadavere di un uomo anziano (Ra-26) tra i 60 e 75 anni presenta all'analisi enfisema polmonare, fibrosi e adesione pleurica.
Un solo protocollo, quello relativo al cadavere Ra-34, parla di colpo di arma da fuoco sparato a distanza relativamente ravvicinata ("relatively close range"), come dedotto dai residui di polvere da sparo ritrovati intorno al foro d'entrata del proiettile. Ma non si tratta, precisa l'autopsia, di uno sparo a bruciapelo ("contact discharge").
In conclusione, 39 casi su 40 escludono nettamente l'ipotesi dell'esecuzione sommaria.
Le autopsie furono realizzate tra il 22 e il 29 gennaio 1999 dai medici finlandesi a Pristina, che però vollero eseguire alcune analisi e accertamenti a Helsinki. Accertamenti per altro non conclusi quando su Helena Ranta furono esercitate pressioni affinché rendesse pubblici i risultati delle autopsie, cosa che la dottoressa non riteneva affatto opportuna. Quale fu la vera ragione di tanta insistenza? Il rapporto diffuso il 17 marzo alla stampa riportava chiaramente la natura del documento, sottolineando che si trattava dei commenti che esprimevano "l'opinione personale dell'autrice" e non una comunicazione ufficiale. Ma nessuno ci fece caso: tutti vi lessero le prove dell'eccidio. L'Esercito di Liberazione del Kosovo e gli Stati uniti registrarono una vittoria strategica.
Tre giorni dopo la missione dell'Osce guidata dall'americano William Walker abbandonava il Kosovo verso Skopje. L'esca di Racak era stata gettata e il pesce europeo aveva abboccato. Quel che bastò a scatenare la guerra. Una distrazione fatale, troppi silenzi. E' ora di fare chiarezza.

Dal "manifesto" del 15 aprile 2000