"Il Gattopardo" di G. Tomasi di Lampedusa

 

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  • - La narrazione non costituisce un intreccio consequenziale ma avanza a blocchi, con estrema libertà, a volte esclusivamente sulla base di associazioni mentali del protagonista. Le otto parti di cui si compone sono scene intervallate da periodi più o meno lunghi, senza sommari di sutura; la narrazione in atto, per momenti staccati, è preferita, secondo il gusto novecentesco, a uno sviluppo metodico e pausato della narrazione. Il Principe Fabrizio di Salina (il Gattopardo) vive una vita monotona e tranquilla in una villa presso Palermo, governando autoritariamente una numerosa famiglia a cui egli rimprovera la loro piattezza morale, eccezion fatta per Tancredi. All'inizio del Gattopardo domina, come in tutte le parti più vive e affascinanti di questo romanzo, la sua figura, a colloquio prima col nipote Tancredi e poi con alcuni suoi dipendenti. Alla notizia dello sbarco di Garibaldi e del suo approssimarsi a Palermo, Tancredi decide di unirsi ai garibaldini, non per spirito patriottico o perché condivida un bisogno di rinnovamento, bensì proprio per evitare ogni cambiamento, per imbrigliare entro l'alveo della conservazione la carica potenzialmente rivoluzionaria di quanto sta accadendo. Dietro le sollecitazioni delle poche ma essenziali battute con le quali il giovane Tancredi motiva le sue decisioni, il principe medita sulle cose umane, sulla storia, sui suoi protagonisti che non riesce a vedere altrimenti che come autentiche e inconsapevoli mosche cocchiere. Alla fine il principe accetta, contrariamente al prete di famiglia, il gesuita padre Pirrone, il trasformismo del nipote e alcuni mesi dopo, recatosi con la famiglia in villeggiatura a Donnafugata, nonostante la rivoluzione, al plebiscito per l'annessione della Sicilia al regno d'Italia, vota e fa votare "sì". All'invito disubbidisce solo don Ciccio Tumeo. Tancredi sposa poi Angelica, la bellissima figlia di don Calogero Sedara, un popolano di Donnafugata (un feudo del Principe), arricchitosi con speculazioni di dubbia natura. Il matrimonio, che il principe approva nonostante che anche sua figlia Concetta sia innamorata di lui, suggella l'alleanza tra la vecchia aristocrazia borbonica e la classe di affaristi che si fa strada nel nuovo regime.

    La sesta parte del romanzo descrive un ballo che si tiene Palazzo Pantaleone nel 1862 in cui il principe mette piede per l'ultima volta, ballando con Angelica, nel mondo giovanile da cui egli si appresta ad allontanarsi definitivamente restando legato ad un passato che scompare con la caduta del regno borbonico.

    Le ultime due parti avvengono dopo forti scarti temporali: la penultima narra la morte del principe nel 1883: l'ultima, datata 1910, descrive la definitiva decadenza della sua famiglia, mettendo in scena le sue tre figlie ormai vecchie e rimaste zitelle che buttano in un mucchio di polvere gli ultimi residui del fasto di casa Salina , attraverso la metafora del corpo imbalsamato del vecchio fedele cane Bendicò.

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    Soggetto: dal romanzo omonimo di G.T.Lampedusa

    Interpreti: Burt Lancaster (il principe), Alain Delon (Tancredi), Claudia Cardinale (Angelica), Paolo Stoppa (don Calogero), Romolo Valli (padre Pirrone),

    musica. Nino Rota e un valtzer inedito di Verdi

    durata: 205'

    <<"Il Gattopardo" risulta l'epicedio ironico e struggente di una classe al tramonto, ma anche la lucida descrizione del riassorbimento degli ideali risorgimentali col ricorso al trasformismo politico. Il celebre "se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi" riassume la contraddizione tra l'effettiva caduta del vecchio mondo e la mancata realizzazione del mondo nuovo. Appena legge il romanzo di Lampedusa, Visconti decide di trarne un film. Molti sono gli elementi che lo affascinano: il ruolo della cultura aristocratica, l'ambientazione siciliana, la descrizione degli avvenimenti risorgimentali sotto il profilo inconsueto del "tradimento": Prospettiva questa già utilizzata per "Senso". Visconti non ritiene in contraddizione le acquisizioni della per Senso. Visconti non ritiene in contraddizione le acquisizioni della storiografia democratica (Gobetti, Salvemini, Gramsci) sul Risorgimento come "rivoluzione incompiuta" col pessimismo del principe di Salina. Esso si manifesta, nel film come nel libro, in una serie di dialoghi: come quello con don Ciccio Tumeo durante la battuta di caccia, in cui si fa riferimento alla manipolazione del risultato elettorale nel plebiscito per l'annessione allo stato sabaudo: Principe: "Ammiro la vostra fedeltà e devozione. Ma dovete capire, don Ciccio, che il popolo era sovreccitato per le vittorie di questo Garibaldi, e il plebiscito era il solo e urgente rimedio per l'anarchia. Credetemi. E per noi non è che il male minore. I Savoia, in fondo, una monarchia sono. Gli interessi delle persone che amate e a cui siete devoto escono da questi avvenimenti frustrati, sì, ma ancora vitali, ancora validi. Qualcosa doveva cambiare perché‚ tutto restasse com'era prima. L'ora della rivoluzione finì. Speriamo che l'Italia nata oggi qui a Donnafugata possa vivere e prosperare". Don Ciccio: "Ma io ho detto di no. E quei porci in Municipio, si inghiotto no la mia opinione, la masticano e la cacano via come vogliono loro... Io dissi Nero e loro mi hanno fatto dire Bianco. Ero un "fedele suddito". Ora tutti savoiardi sono! Ma i savoiardi me li mangio col caffè, io... i savoiardi!".

    I personaggi esprimono punti di vista reazionari; "ma lo fanno" osserva Visconti "o meglio Lampedusa ha ottenuto che lo facciano, in modo tale, da mostrare in qual modo distorto la classe dirigente piemontese e i suoi alleati naturali in Sicilia portassero avanti il "nuovo" servendosi unicamente degli strumenti più menzogneri e deprimenti del "vecchio", la malafede, la sopraffazione, l'inganno" (L. Visconti, Il Gattopardo, Bologna 1963, p. 29). Nel Gattopardo, Visconti ammira l'intrecciarsi di vita interiore e vita sociale, cui vede corrispondere, sul piano dello stile, la sintesi tra il realismo di stampo verghiano e il flusso della memoria proustiana. "Sarebbe la mia ambizione più sentita" afferma "quella di aver fatto ricordare in Tancredi e Angelica la notte del ballo in casa Ponteleone, Odette e Swann; e in don Calogero Sedara nei suoi rapporti coi contadini e nella notte del plebiscito, Mastro Don Gesualdo" (ibidem, p. 28).Ancora una volta, la sua sintesi stilistica Visconti la cerca nel melodramma. Con un attacco sontuoso, con quel susseguirsi di carrellate che funge da ouverture, con l' "allegro maestoso" del commento musicale di Nino Rota, il film dichiara fin dall'inizio di voler sottolineare la musicalità del romanzo. Per il ballo, Visconti utilizza lo spartito di un valzer inedito di Verdi. Per la scena dell'arrivo dei Salina a Donnafugata, sviluppa le citazioni proposte nel testo: dall'aria verdiana "Noi siamo zingarelle" che saluta l'arrivo del corteo, all' "Amami Alfredo" che ne accoglie l'ingresso in chiesa. Ma l'intento di sottolineare gli elementi lirici del romanzo induce Visconti a modificarne e la struttura. Dovendo trasformare in immagini e dialoghi il fluire del tempo e del monologo interiore propri del Lampedusa, il regista decide di sintetizzare i tempi della vicenda e di dilatare invece quelli del ballo. Sopprime alcuni episodi e tutta la parte finale del romanzo, in cui Lampedusa, dopo quello lirico, descrive con amara ironia il lato più squallido della morte: la sopravvivenza di persone e cose che hanno ormai esaurito la loro funzione storica. Lo scrittore sottolinea più volte l'importanza di quel "patrimonio di ricordi, di speranze e di timori di classe" di cui è costituito, come dice padre Pirrone, l'universo artificiale degli aristocratici: quella sensibilità ai segni esteriori per cui l'apparizione in frac di don Calogero fa al principe "un effetto maggiore che non il bollettino dello sbarco a Marsala" quell'attaccamento alle case e al mobilio di cui parla Tancredi ad Angelica, quell'importanza di rispettare le tradizioni, che trasformerebbe in un dramma per il principe la mancata villeggiatura a Donnafugata. Proprio il mutare di questi segni contraddice l'illusione di don Fabrizio di fermare la storia. Anche se sarà scongiurata la rivoluzione popolare, cambieranno infatti la cultura, lo stile, i cerimoniali della classe dominante. Attraverso questi segni il principe prende coscienza della propria sconfitta: "Era inutile sforzarsi di credere il contrario, l'ultimo Salina era lui (...). Perchè‚ il significato di un casato nobile è tutto nelle tradizioni, cioè nei ricordi vitali; e lui era l'ultimo a possedere dei ricordi inconsueti, distinti da quelli delle altre famiglie (...). L'ultimo era lui. Quel Garibaldi aveva dopo tutto vinto" (G.Tomasi di Lampedusa).Nonostante che la ricostruzione scenografica avalli, e persino accentui, la idealizzazione di luoghi e ambienti mediata dalla memoria del Lampedusa, persone e cose appaiono come sontuose nature morte. Visconti ricorre al procedimento per lui consueto di sospendere i gruppi familiari nell'immobilità: come nella scena iniziale del rosario, o nella chiesa di Donnafugata, quando i Salma appaiono come mummificati sotto la coltre di polvere del viaggio. Una immobilità a cui il regista si proponeva di attribuire un significato polemico, indicando nel trasformismo e nell'immobilismo di ieri le premesse alla stasi politica attuale. Anche nel finale Visconti ha voluto aggiungere uno spunto polemico, inserendo nel testo un'allusione alla fucilazione dei disertori dell'esercito regio, che nel '62 seguirono Garibaldi in Aspromonte. Abbandonato su un pouf della "sala d'oro", Tancredi accenna con non chalance ad Angelica dell'esecuzione imminente. Si esibisce così nella sua vera veste politica, provocando la risentita delusione di Concetta. Rimasti soli, Tancredi e Angelica si abbracciano; finché‚ irrompono nel salone gli ufficiali e le dame che aggregano la coppia alla catena della quadriglia: un vincolo simbolico, con il quale contrasta l'isolamento del principe fra i membri della sua classe. In ultimo, mentre don Fabrizio si inginocchia al passaggio del viatico e pronunzia la sua estrema invocazione di morte, lo sparo dei fucili echeggia all'interno della carrozza su cui rientrano Tancredi, Angelica e don Calogero, e li rassicura della restaurazione dell'"ordine". Queste notazioni hanno l'intento di suggerire il corso reazionario della nuova classe dirigente, futura sostenitrice del fascismo. Ma, più che altro, sottolineano il contrasto tra la posizione di aristocratico distacco del principe e l'arido opportunismo dei suoi successori. Anche gli spunti intenzionalmente polemici convergono così in quello struggente ritratto della fine del principe, che è il vero tema dominante del film. Il suo culmine è nel ballo. Visconti ha posto questo capitolo - l'ultimo scritto dal Lampedusa -a conclusione della vicenda, e lo ha dilatato sino a fargli occupare un terzo dell'intero film.

    Tra i suoi fasti coreografici ha insinuato quei sedimenti luttuosi di cui lo scrittore ha intessuto tutto il romanzo. Il momento della fragorosa spettacolarità diventa così anche quello della contemplazione interiore.(…)

    Esiste una curiosa consonanza tra il capolavoro di Visconti e un film di poco precedente, "Jalsaghar" (sala di musica, 1958) del regista indiano Satyajit Ray.>>( Alessandro Bencivenni, "Luchino Visconti", ed. Il Castoro cinema 1994, Roma, pag. 55-60)

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