Questo saggio, scritto a 6 mani, riassume i contenuti del Seminario di introduzione alla ricerca storica dedicato
al tema "Il Mito del Risorgimento", tenutosi alla Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma
dal 15 al 19 marzo 1993.

Oltre a me vi hanno collaborato Claudio Sica e Raffaele Iaria.

 

GIUSEPPE TALAMO : IL RISORGIMENTO TRA MITO E REALTA'

Il termine Risorgimento compare per la prima volta nel 1936 sull'enci-

clopedia Treccani e definisce il periodo storico sotto cui avviene

l'unità d'Italia. Propriamente significa "rinascita" ma, in realtà è

improprio parlare di rinascita dello stato unitario italiano in quanto

l'unità d'Italia si verificava per la prima volta da quando con la

discesa dei Longobardi e la caduta dell'Impero Romano d'Occidente iniziò

per la penisola un processo di divisione.

Cosa risorgeva dunque ? L'unità del popolo italiano era rappresentata

da un'unica tradizione religiosa (cattolica), giuridica (diritto romano)

e culturale; questa unità culturale andava tradotta in realtà politica:

il Risorgimento è l'attuazione di questo processo.

Questa unità ideale affondava le sue radici piuttosto che nella

tradizione colta e letteraria, patrimonio di pochi, nella religione,

unica vera forza coesiva della nazione. Questa concezione viene

espressa da Gioberti nel "Primato morale e civile del popolo italiano",

in cui affermava anche la coincidenza della tradizione italiana con

quella della chiesa; per questo prospettava uno stato federale libero

dallo straniero e presieduto dal papa.

La spinta al movimento unitario fu data dal nord che vantava una

tradizione comunale di autogoverno, mentre il sud era estraneo a questa

esperienza e rimaneva legato ad antiche tradizioni.

L'Italia centro-settentrionale ha avuto classi capaci di auto-

organizzarsi proprio per la forma di città-stato assunta dai vari

governi nel medioevo; questo portò alla nascita degli imprenditori in

una parte del paese dove le repubbliche marinare e la presenza di

banchieri favorì l'accumulo di capitali mentre al sud la maggior parte

della popolazione era costituita da braccianti e da un'esigua classe borghese.

Secondo l'analisi di Gramsci alla "forza urbana settentrionale" spettò

il compito di dirigere le altre forze distribuite sul territorio

italiano; il criterio organizzativo era basato sulla subordinazione

delle forze rurali a quelle urbane: in realtà il potere direttivo

risedeva nelle città del nord che esercitavano la propria influenza

anche nelle campagne meridionali con la mediazione delle forza urbana

del sud. Questa situazione favorì un più stretto legame politico tra

nord e sud e consentì alle città meridionali di acquisire una capacità

direttiva - man mano sempre più autonoma - sulle campagne.

Un aspetto del mito risorgimentale è l'eredità di Roma (la "Boria

Romana"): Balbo indicava la necessità di liberarsi della superbia del

passato ("di una donna non mi interessa la bellezza passata, ma la

realtà). Questa convinzione di Balbo di doversi preoccupare del

presente dimenticando glorie ormai lontane è sottolineata nella chiara

affermazione "cederei molti archi d'acquedotti romani per alcune locomotive".

Tuttavia il mito di Roma fa parte del bagaglio risorgimentale e

nell'ambito della questione unitaria, Cavour già nel 1861 sente il

bisogno di proclamare Roma capitale nonostante questa, fino al 1870,

facesse parte di un altro stato, quello pontificio. Roma, per il suo

passato, era l'unica città che potesse assolvere una funzione unificante.

Le origini del movimento risorgimentale sono difficili da rintrac-

ciare. Come punto di partenza possiamo assumere il giacobinismo

italiano: le repubbliche giacobine (romana, partenopea, cisalpina) di

fine '700 segnano uno stacco tra l'antico e il nuovo regime che passa

attraverso la rivoluzione francese. Per la prima volta il termine

"giacobino" assume un valore politico definito come rottura con

l'ancient regime.

E' opportuno tener presente che la storiografia presenta due tendenze

nel considerare il passaggio da un'epoca storica ad un altra, coglien-

done o le diversità o i motivi di continuità. Tocqueville, ad esem-

pio, coglie la continuità esistente nel passaggio tra antico regime e

rivoluzione. E' un esempio di questa continuità la tendenza all'ac-

centramento sostenuto da Richelieu nel vecchio regime che è mantenuta

dalla dittatura giacobina e si manifesta attraverso la valorizzazione di

Parigi come centro della repubblica francese.

La classe politica del risorgimento si forma dunque sotto l'influenza

della Rivoluzione Francese e della Restaurazione. Anche la restaura-

zione non fu una vera e propria frattura ma un tentativo di mediazione

tra l'antico regime e le novità rivoluzionarie. Per esempio Luigi XVIII

nel concedere la costituzione (la cosiddetta Charte Octroyée) riprende

nell'ambito di un clima reazionario i princìpi della Rivoluzione: tale

costituzione non è elaborata dai rappresentanti del popolo, eppure

garantisce le libertà liberali del 1789 . Allo stesso modo lo statuto

albertino riprenderà questo duplice carattere liberale e reazionario.

Infatti il tipo di stato cui si tendeva, che all'origine non si pensava

dovesse comprendere tutta la penisola, non poteva prescindere dai

principi dell'89, frutto della cultura illuminista; il problema non era

soltanto costituire politicamente lo stato ma ricercare i principi

culturali su cui fondarlo, principi che saranno trovati appunto nella

tradizione illuminista.

Il complesso di questi avvenimenti diede luogo a tre indirizzi

storiografici da cui dipende il giudizio dato al risorgimento: uno

reazionario che condannava la rivoluzione, uno progressista liberale che

rintraccia le radici del risorgimento nella Rivoluzione del 1789 e

infine uno che vede queste radici nella dittatura di Robespierre del 1793.

Il dibattito storiografico sul risorgimento ha inizio quasi in

contemporanea con il processo unitario stesso e si arricchisce via via

di nuove interpretazioni fino ai giorni nostri.

A prescindere dalle prime posizioni degli storici che tendevano a

fornire una immagine mitica del risorgimento e a ricostruire una

"biografia della nazione", fu soprattutto in periodo fascista e nel

secondo dopoguerra che si allargarono le basi della ricerca storica di

cui era oggetto il risorgimento.

Gramsci ad esempio nei "Quaderni dal carcere" nel tentativo di com-

prendere le cause che avevano portato alla crisi dello stato liberale e

all'avvento del fascismo dà un'interpretazione critica del processo

risorgimentale. Gramsci dà particolare rilievo al fatto che il blocco

storico su cui si formò il risorgimento fu la borghesia industriale e

agraria guidata dai liberali: i moderati infatti costituivano un blocco

omogeneo e strettamente legato alla borghesia mentre il Partito d'azione

che aveva al suo interno una composizione eterogenea non fu in grado di

legarsi a nessuna classe sociale in particolare, ed anzi rimase

subordinato alla direzione liberale. I moderati ancor prima di

conquistare il potere governativo avevano una funzione dirigente della

classe borghese di cui erano espressione e questo gli consentiva di

esercitare una certa influenza anche sui partiti avversari. La

debolezza del Partito d'azione fu dovuta alla mancanza di un programma

in favore dei contadini che gli consentisse di crearsi alleanze e

acquistare un peso decisivo nello svolgimento del processo

risorgimentale. Probabilmente i suoi dirigenti vedevano nell'unità

culturale (patrimonio di un ristretto gruppo di intellettuali) e

religiosa della penisola un sufficiente fattore di coesione delle masse

popolari per la loro adesione al programma unitario. In realtà

l'incapacità del Partito d'azione di proporre una riforma agraria,

dovuta anche alla necessità di conquistarsi il più ampio consenso

possibile e non solo quello di gruppi legati a interessi particolari,

portò a quella che è stata definita "rivoluzione fallita": al contrario

in Francia durante la rivoluzione i Giacobini furono in grado di

costruirsi alleanze e imporre la direzione di Parigi sulle campagne

grazie al consenso derivato dalla distribuzione delle terre ai

contadini. La rivoluzione che portò all'unità d'Italia fu una

rivoluzione passiva nel senso che nacque da un compromesso tra le classi

dirigenti: lo stato che ne derivò fu debole perché non sorse da un

blocco storico progressista ma solo da vecchie alleanze. In definitiva

fu uno stato privo del consenso delle masse indebolito ancor più dallo

spirito municipalistico e dall'ostilità cattolica.

Anche Sereni dà, come Gramsci, un giudizio negativo del modo in cui fu

portato a compimento il processo unitario analizzando però principalmen-

te gli aspetti economici. Secondo la sua interpretazione la mancanza di

una riforma agraria e di una distribuzione delle terre ai contadini

impedì l'eliminazione dei residui feudali che costituirono un'elemento

frenante per lo sviluppo economico: la rendita fondiaria infatti, che

rimaneva la principale forma di investimento, forniva un basso

rendimento. Questa situazione inoltre non consentì un'aumento dei

consumi contadini che avrebbe portato ad un ampliamento del mercato e

conseguentemente allo sviluppo dell'industria. Il modo in cui fu

realizzata l'unità è secondo Sereni una delle cause principali del

ritardo dell'Italia nello sviluppo economico e industriale.

A queste posizioni si oppone lo storico Rosario Romeo che intende

rivalutare le scelte liberali e dimostrare come le posizioni Gramsciane

siano errate. Innanzitutto Romeo nega che esistesse una massa contadina

mobilitabile che il Partito d'azione non seppe sfruttare e dirigere:

l'impostazione di Gramsci si rifà al passato (la rivoluzione francese) e

secondo Romeo il modello che propone non è più riproducibile. Inoltre

mette in evidenza come la rivoluzione agraria teorizzata da Gramsci

avrebbe portato inevitabilmente a reazioni internazionali. E ciò

avrebbe avuto la conseguenza ancor più disastrosa di distruggere l'uni-

co elemento capitalistico presente in Italia: la produzione agricola.

Questa posizione che attribuiva alla creazione di un regime di piccola

proprietà contadina un carattere nocivo anziché propulsivo per l'econo-

mia era in netto contrasto con le posizioni di Sereni. Per di più Romeo

sostiene che la ristrettezza del mercato fu dovuta non alla scarsa

capacità di acquisto delle classi contadine ma al basso livello di

produttività, dal momento che la prima superava di gran lunga il se-

condo. Il problema del paese che si trovava agli inizi del decollo

industriale non era quello di allargare il mercato ma di sviluppare una

capacità produttiva tale da giustificare un allargamento del mercato.

Anzi, contrariamente a quanto sostenuto da Sereni, Romeo individua nel

mantenimento delle condizioni contadine le premesse necessarie allo

spostamento del denaro dall'agricoltura all'industria (la cosiddetta

accumulazione primitiva) attraverso una operazione fiscale che danneg-

giava principalmente i contadini dal momento che essa gravava sui

consumi. Secondo l'analisi di Romeo, se ci fosse stato un aumento dei

consumi contadini in seguito alla rivoluzione agraria il denaro sarebbe

stato consumato e non sarebbe potuto essere accumulato e convogliato al

settore industriale. Infine se uno sviluppo dell'agricoltura era neces-

sario per creare le condizioni dello sviluppo industriale (maggiore

disponibilità di materie prime e prodotti alimentari, disponibilità di

una parte di manodopera agricola per altri compiti), subito dopo tale

sviluppo si doveva realizzare a danno dell'economia agraria dal momento

che lo sforzo di industrializzazione si traduceva in una sottrazione di

capitali all'agricoltura.

Un giudizio storiografico non necessariamente deve essere formulato

dopo molto tempo dall'avvenimento storico in esame; è il caso della

critica di Vincenzo Cuoco nell'opera del 1801 "Saggio storico sulla

rivoluzione napoletana" in cui sostiene che il fallimento della

repubblica partenopea del 1799 non era dovuta all' arrivo degli Inglesi,

ma alla sua debolezza intrinseca che rendeva impossibile riprodurre il

modello francese, in quanto esisteva uno stacco tra le classi dirigenti

giacobine e le masse.

Tra i moderati, che considerano necessaria la collaborazione tra il

principe e il popolo senza violare il principio di leggittimità, spicca

la figura di Cesare Balbo. Nelle "Speranze d'Italia" del 1844 è eviden-

te che Balbo non pensava ad una soluzione unitaria, in quanto ciò

avrebbe significato detronizzare tutti i principi tranne la monarchia

sabauda, mentre l'Austria avrebbe continuato a mantenere il suo dominio

sul lombardo-veneto. Eppure saranno proprio i moderati a gestire

l'unità d'Italia pur senza averla prevista nei loro disegni; questo

determinò l'improvvisazione con cui fu organizzato l'ordinamento

legislativo del nuovo stato e, in mancanza di un adeguato dibattito, ci

si limitò ad estendere a tutta la penisola lo Statuto Albertino, l'unica

costituzione ancora in vigore, in Italia, dopo il 1848.

Molti storiografi non fanno concludere il Risorgimento con l'unifica-

zione dell'Italia e neanche con la presa di Roma del 1870. In realtà

non è facile tracciare i confini di un periodo storico così importante.

Il Risorgimento dura finché la classe dirigente risorgimentale man-

tiene in piedi i valori su cui si era basato l'intero movimento. In

questa ottica il risorgimento si potrebbe far concludere con la figura

di Crispi che sentiva continuamente minacciata l'unità dalle congiure

internazionali e da forze disgregatrici interne, quali cattolici e

socialisti: Giolitti infatti mostra già un diverso modo di porsi di

fronte a questi problemi, che considera semplicemente il risultato di

nuove forze sociali emerse all'interno dello stato e con cui misurarsi.

La corrente dell' "Interventismo Democratico" concepisce addirittura

la prima guerra mondiale come la quarta guerra d'indipendenza, perché

ritrova in essa ancora valori risorgimentali, come è dimostrato dalle

lettere tra fronte e interno passate attraverso la censura: la grande

guerra viene considerata come l'ideale completamento dell'unità d'Italia

attraverso la conquista di Trento e Trieste.

Dopo tale evento del risorgimento non restano più i valori, ma la

memoria storica di quel processo, cioè il modo con cui la nazione

culturale si è trasformata in nazione politica.

In conclusione un'altra tendenza storiografica contemporanea che si

rifà alla corrente di "Les Annales" tende a rivalutare la storia

sociale, la storia della mentalità; infatti quelli politici sono

interventi superficiali, benché clamorosi, che non determinano mutamenti

nella società e nella mentalità che hanno un corso evolutivo più lento

rispetto alla politica.

CLAUDIO SINISCALCHI : CINEMA E RISORGIMENTO

Il primo storico che instaurò un rapporto tra il cinema e la storia fu

Pierre Saurrent: il cinema è una mezzo prezioso per comprendere meglio

la storia perché rappresenta la società del tempo, ma è necessario

integrarlo con altre fonti. Manca una tradizione letteraria che tratti

compiutamente l'argomento cinema e questo è stato spesso controllato e

strumentalizzato dalla classe politica per diffondere e propagandare ideologie.

La storia del cinema italiano può essere divisa in tre momenti fonda-

mentali: il cinema delle origini, quello del periodo fascista, e quello

del periodo del secondo dopoguerra.

Caratteristica essenziale del cinema delle origini è il tentativo di

dare un'interpretazione istituzionale alla ricostruzione del

Risorgimento. Per fare un esempio, nel primo film italiano di Filoteo

Alberini ("La presa di Roma"), che durava solo 10 minuti, era muto, e in

bianco e nero, viene volutamente esaltata al termine del cortometraggio

la figura di Crispi, che sostituisce Mazzini, allo scopo di celebrare la

monarchia sabauda. Il primo film italiano è dunque un film a soggetto,

e non a caso questo soggetto è il Risorgimento, e darà l'avvio a una

corrente cinematografica su episodi cruciali del Risorgimento.

Nel periodo fascista la cinematografia deve fornire una ricostruzione

della storia d'Italia funzionale al fascismo, visto come logica

conclusione del processo risorgimentale. Ha origine in questo periodo

il filone storico che va dall'antica Roma, intesa come base ideale del

fascismo ("Scipione l'africano", 1937, di Carmine Gallone), attraverso

il medioevo ("La corona di ferro", di Blasetti), il Rinascimento ("I

condottieri", 1937, di Trenker), fino al Risorgimento ("La baraonda",

1923, "Garibaldi ed i suoi tempi", "Un balilla", 1948, "Villafranca",

1933, "Giuseppe Verdi", "I cavalieri di San Marco", "Una romantica

avventura"). Il motivo per cui la cinematografia fascista dà molta

importanza al Risorgimento è perché viene rinvenuta una continuità tra

questo e il fascismo, considerandolo come la sua origine.

Infatti nel film "1860" era stato aggiunto alla conclusione un ipotetico

incontro tra garibaldini e camicie nere, ma dopo il 1945 tale sequenza

fu tagliata per ovvi motivi. Il fascismo si pone anche il problema

della nazionalizzazione delle masse; in tale periodo il cinema assume

una caratteristica che mancava al cinema delle origini: essere il

miglior strumento di comunicazione tra potere e masse.

In particolare la cinematografia che si rifà al Risorgimento viene

esaltata da Mussolini stesso che disse che il cinema è l'arma della

rivoluzione, riprendendo Lenin nella definizione di "cinema come treno

della rivoluzione". Il fascismo, proprio nel suo collegamento al

Risorgimento vede nella funzione che ha avuto in tale periodo la

religione un richiamo alla funzione propagandistica del cinema.

Nel periodo del secondo dopoguerra si nota un'attenzione scarsissima

nei confronti del risorgimento. I maggiori film di questo periodo sono:

"Viva l'Italia", 1960, di Rossellini, "Allonsanfan", 1974, dei fratelli

Taviani, "Quanto è bello morire acciso", "San Michele aveva un gallo",

1971, dei fratelli Taviani. Non solo i film sono pochi ma hanno

soggetti sterili come la repressione garibaldina a Bronte.

Un discorso a parte merita il regista Luchino Visconti, autore dei film

"Senso", 1954, e "Il Gattopardo", 1960. Egli si pone a confronto con la

storia e promuove una visione negativa dell'unità italiana, ridimen-

sionando la figura della monarchia. Ne "Il Gattopardo" Visconti afferma

che il comportamento della classe liberale settentrionale era troppo

elitario e particolarista, perché privo di un reale interesse per il sud

d'Italia. Crolla quindi l'epopea risorgimentale esaltata dal fascismo

per cedere il passo ad una più realistica e severa critica sulla

politica dell'Italia dopo l'unità, al di fuori di qualsiasi fine

propagandistico. Nell'affermazione di Tancredi nel "Gattopardo" << Af-

finché tutto resti com'è, è necessario che tutto cambi >>, è implicita

una condanna alla politica unificatrice del governo, sentenziando che

dopo l'unità non ci sarebbe stato alcun miglioramento della società e

che quindi le vecchie classi dirigenti medievali avrebbero mantenuti

intatti i loro privilegi.

ELISABETTA MONDELLO :

LA LETTERATURA ITALIANA E IL MITO DEL RISORGIMENTO

Il Rinascimento è accompagnato da definizioni di riscatto o riscossa

nazionale per sottolineare la continuità della storia dal periodo di

Roma a quello attuale.

Carducci nel 1870 disse, presso la tomba di Petrarca, che

l'affermazione del Metternich secondo la quale l'Italia esisteva solo

come realtà geografica era sbagliata, in quanto l'unica unione effettiva

era quella culturale. Infatti politicamente i vari popoli erano molto

divisi, perché animati da spiriti municipalistici, e il termine "Italia"

è usato solo dagli intellettuali per indicare una specie di contenitore.

L'unico elemento unitario era la chiesa, ma il suo ruolo nell'unità

d'Italia non portava ad una percezione di identità, ma solo alla

coscienza di una appartenenza politica allo Stato del Papa.

Fino all'Ottocento l'orizzonte politico è municipale o al massimo

regionale, ma il sogno unitario comincia come "mito" forte solo in senso

letterario fin dal Medioevo ed esclusivamente tra gli intellettuali. Il

primo storiografo che compie i suoi studi di storiografia in funzione

dell'idea di nazione è il De Sanctis con "Storia della nazione" . E' su

questa idea che si costruiscono i miti del Risorgimento:

1) Il mito linguistico che considera la lingua come elemento

unificante, da cui il dibattito sulla "questione della lingua".

2) Il mito istitutivo di Roma, che diviene il simbolico centro della

nuova Italia pur essendo una città meno progredita e più campagnola

rispetto ad altre località del nord. Altri miti collegati a quello di

Roma sono la considerazione degli stranieri, risultato diretto del

concetto di romanità come valore privilegiato. Come per contraddizione

contemporaneamente viene data importanza alle civiltà preromane. Da

questo deriva, nel periodo fascista, un'idea trasposta e degenerata del

primato della cultura italiana legato alla grandezza di Roma, che spetta

all'Italia per stirpe e per nascita e che va dunque riaffermata.

3) Il mito del Risorgimento in generale, che si riferisce all'arma-

mentario simbolico costruito successivamente e che si sovrappone agli

eventi costituendo l'immaginario collettivo e completando l'avvenimento.

4) Il mito urbanistico che ripropone tramite strutture ed edifici la

storia del Risorgimento esaltandola e celebrandola.

5) Il mito di Garibaldi visto come figura eroica del Risorgimento e

con la quale si identifica il valore del popolo.

6) Il mito della "Terza Italia", il cui centro è Roma e che si

aggiunge alla "Prima Italia", cioè l'Impero Romano, e alla "Seconda

Italia", cioè la Chiesa Romana.

7) Il mito della lotta di un popolo per cui si crede che la vittoria

sia stata raggiunta grazie all'eroismo delle masse popolari piuttosto

che all'organizzazione dell'esercito Sabaudo.

8) Il mito del valore guerriero con cui si ritiene che l'Italia

attraverso il Risorgimento abbia mostrato in battaglia tutto il suo

eroico valore.

9) Il mito della piccola nazione contro le grandi che persiste

tutt'oggi e che è collegato con l'eterno desiderio della classe politica

italiana di sedere come vincitrice al Consiglio delle Nazioni Europee.

10) Il mito del re e della famiglia reale, quest'ultima vista come

modello da imitare e con il quale identificarsi da tutto il popolo italiano.

11) Il mito negativo del Papa, ostacolo clericale e religioso alla

vittoria laica sperata dalla classe dirigente piemontese e quindi da

tutti gli italiani.

12) Il mito negativo dell'Imperatore d'Austria, Francesco Giuseppe,

chiamato "Cecco Peppe" in tono derisorio contro cui si scagliava il

rancore del popolo che lo identificava come la peggior minaccia e il più

forte freno per l'unità e l'indipendenza.

Assume particolare importanza nella storiografia unitaria la questione

della lingua, portata avanti da numerosi e illustri teorici.

Gramsci il fattore aggregante della lingua funzionale ad altre ques-

tioni, quali la formazione e l'allargamento della classe dirigente e il

rapporto di essa con le masse. La fondazione della lingua nazionale

comincia con Dante che con la Divina Commedia offre un'alta opera let-

teraria scritta in lingua volgare e perciò italiana. Per Foscolo la

storia della lingua è storia della nazione; Manzoni abbandona il

dialetto milanese e usa il dialetto fiorentino per tentare di rendere

omogenea la lingua italiana.

Durante il '900 il fascismo si pone il problema di diffondere la

cultura scolare e di uniformare linguisticamente le masse. Con Pasolini

si pone il contrasto per l'ultima volta tra lingua municipale e italia-

no; proprio egli dirà che guida del linguaggio sarà sempre più la

tecnica (TV, cinema, mass media). Prima di parlare della letteratura

legata al movimento risorgimentale è necessario capire in che modo si

costituisca questo mito. Due sono le risposte forniteci dagli storio-

grafi: la prima sostiene l'autonomia del Risorgimento italiano, mentre

la seconda afferma che esso è dipendente dalla tradizione rivoluzio-

naria e napoleonica francese. Da un punto di vista letterario il mito

ha influenzato le opere risorgimentali in due modi. In senso stretto

troviamo pagine legate al sentimento nazionale, alle organizzazioni

clandestine (Carboneria, Giovine Italia), agli eroi (Garibaldi e

Mazzini) e all'unità d'Italia con i problemi della sua gestione politi-

ca. In senso più largo comprenderebbe quasi tutte le opere dell'Otto-

cento che danno luogo a possibili richiami, diretti o indiretti, alla

storia passata come spunto di un'analisi della storia contemporanea (ad

esempio, parlare dei Longobardi era il pretesto per descrivere la

Lombardia dell'Ottocento).

Da un punto di vista cronologico la produzione sul Risorgimento può

essere divisa in cinque periodi:

1) Periodo dell'idea sovversiva antecedente all'unità, in cui il

Risorgimento è ancora un movimento in formazione ed ha carattere

rivoluzionario. E' contraddistinto da una letteratura politica e

patriottica che esalta le idee giacobine di libertà e democrazia.

2) Periodo coevo al Risorgimento in atto che va dall'unità sino al

1870. E' caratterizzato dall'esperienza diretta degli autori, definiti

"intellettuali militanti" che traspongono in àmbito letterario la loro

partecipazione al processo risorgimentale. Questo periodo è molto

articolato riguardo ai generi:

a) Memorie e ricordi di coloro che hanno vissuto in prima persona

questi avvenimenti storici (Guerrazzi con "I lombardi e la prima

crociata", D'Azeglio con "I ricordi", Berchet).

b) Pensatori dello sviluppo del pensiero politico che si impegnano

soprattutto nelle riviste ("Antologia", "Il conciliatore", "L'Italia e

il popolo") e costituiscono l'ossatura ideale del Risorgimento (Mazzini,

Gioberti, Pisacane, Cattaneo).

c) Giornalisti, pubblicisti e poligrafi. Cattaneo, fondatore del

"Politecnico", sosteneva che le riviste erano l'anima viva del periodo

storico e fossero in grado di influenzare gli avvenimenti politici.

Altri importanti pensatori sono il Viesseux ("Antologia"), Galluppi,

Bonghi e Rosmini.

d) Storici che interpretano la storia in chiave critica (De Sanctis,

Amari, Balbo, Capponi).

e) Memorialisti che denunciano con i loro ricordi e diari

l'oppressione (Silvio Pellico con "Le mie prigioni", Capponi, Orsini,

Mazzini, Confalonieri). Ruffini scrive le sue memorie in inglese per

sensibilizzare anche altre nazioni d'Europa ai problemi dell'Italia.

f) Forma romanzesca alta di cui il maggiore esponente è sicuramente

Ippolito Nievo ("Confessioni di un italiano", 1857-1858, pubblicato

postumo nel 1867 con il titolo di "Confessioni di un ottuagenario"), che

consacra il mito del Risorgimento e in cui l'idea mitica si incarna in

una biografia immaginaria.

3) Periodo successivo al periodo eroico (dal 1870 al 1880) dove

esplode il fenomeno della letteratura risorgimentale attraverso la

celebrazione. I principali esponenti sono Giuseppe Cesare Abba, notista

di Garibaldi, lo stesso Garibaldi ("Le memorie"), Alberto Mario

("Camicia Rossa"). Inoltre vengono pubblicati i romanzi di appendice,

come "Memorie di un Garibaldino" di Celchi, "Da Firenze a Digione" di

Socci, "Ricordi di gioventù" di Giovanni Visconti Venosa, "Come siamo

entrati a Roma" e "Firenze capitale" del giornalista Ugo Pesci. Il De

Sanctis con "Un viaggio elettorale", costruito con i suoi discorsi di

campagna elettorale, descrive tutti i problemi della costruzione dello Stato.

4) Periodo successivo all'unità che dura fino al primo decennio del

Novecento, in cui il mito del Risorgimento è fatto di riti, immagini,

personaggi che si stabilizzano nella cultura italiana (Garibaldi,

Mazzini, Famiglia Reale). Anche le città sono urbanisticamente

attrezzate per sacralizzare il processo unitario. La costituzione degli

italiani come identità nazionale al di là dell'unità geografica avviene

proprio attraverso questi miti. Però in questo stesso periodo subentra

il mito oppositivo e complementare del Risorgimento tradito: c'è una

sorta di delusione espressa dalle masse sulla gestione politica e su

Roma corrotta. Interpreti letterari di questa tendenza sono gli

Scapigliati, contestatori della società attraverso il "Romanzo

parlamentare", caratterizzato da una violenta polemica. Contem-

poraneamente c'è anche una letteratura pedagogica ("Cuore" di De Amicis,

Carducci) che al contrario esalta il Risorgimento e si fa carico di

sensibilizzare e istruire le masse.

5) Periodo della Prima Guerra Mondiale: il mito risorgimentale

comincia ad appannarsi e viene sostituito da quello della Grande Guerra.

Lo scontro mondiale è simbolicamente molto più forte. Il fascismo

recupererà i miti dell'Ottocento esclusivamente per un uso celebrativo.

Nella Resistenza, invece, si riprenderà il mito del Risorgimento tradito

e il Risorgimento sarà pretesto per costruire lo scenario dei romanzi

rosa e costituirà la base dei romanzi storici.

ALBERTO MARIA ARPINO - IL VITTORIANO : MUSEO, ARCHIVIO, MONUMENTO

Il Risorgimento è la chiave di interpretazione per comprendere il

presente, ma può essere studiato sotto ottiche diverse. E' errato far

coincidere i limiti cronologici del Risorgimento con l'estensione dei

confini territoriali. Si può ipotizzare che il Risorgimento nasca nel

1796 con la discesa di Napoleone nella penisola e la comparsa del

tricolore come simbolo della Repubblica Cisalpina e che finisca con la

morte di Vittorio Emanuele II. Proprio la paura che il Risorgimento

trovasse la sua conclusione nella morte del re fu una delle ragioni che

motivarono la costruzione del Vittoriano.

In principio l'iniziativa venne dal popolo con una colletta, ma poi il

progetto fu assunto dal governo e affidato a Giuseppe Sacconi. Il

Vittoriano infatti iniziato nel 1885 (anche per segnare la presa di

possesso della capitale papale da parte dei Savoia) fu situato vicino al

campidoglio che rappresenta il centro di Roma, proprio ad indicare con

la sua imponenza, la raggiunta grandezza dell'Italia. Se il Colosseo è

il simbolo della Roma imperiale, se San Pietro è l'espressione della

tradizione cattolica, il Vittoriano, rappresenta la "Terza Roma", ossia

celebra l'unità completata.

Da allora fino ai giorni nostri, il Vittoriano ha assunto diversi

significati. Nato inizialmente per commemorare Vittorio Emanuele II, in

un secondo tempo, come indicano le due iscrizioni sull'edificio (CIVIUM

LIBERTATI - PATRIAE UNITATI), esso fu dedicato alla conquista della

democrazia e dell'indipendenza. Nel 1921 perviene la salma del milite

ignoto (da cui una delle sue denominazioni) e durante e il fascismo

assume il nome di "altare della patria", in cui sono celebrate funzioni

metareligiose, come se fosse un sorta di chiesa laica. Tutt'oggi esso

viene utilizzato per celebrare anniversari nazionali e svolgervi formali

cerimonie politiche.

Come non tutti sanno, il Vittoriano non è un monumento privo di

funzionalità, ma poiché ospita l'archivio e il museo nazionale del

Risorgimento conterrà in sé la memoria e la documentazione del glorioso

periodo storico che porta all'unità d'Italia. Ciò che ospita il

monumento è una sorta di traduzione laica di una prassi religiosa: non è

deposito di reliquie, ma di fonti materiche che integrano i documenti

dell'archivio.

In realtà il museo non è stato inaugurato da Giolitti né da Mussolini,

ma conobbe l'inaugurazione solo il 20 settembre del 1970. Fu sede di

diverse mostre: nel 1911 la mostra del cinquantenario dell'unità

d'Italia e nel 1949 fu sede di una seconda esposizione in occasione del

centenario della Repubblica Romana.

LAURO ROSSI : BIBLIOGRAFIA DEL RISORGIMENTO

Al congresso di Vienna Metternich diceva che l'Italia era

un'espressione geografica e Cavour aggiunse poi che fatta l'Italia, era

necessario fare gli italiani.

Bisogna fare una distinzione tra i concetti di nazione, patria e

italianità. Effettivamente l'Italia era profondamente divisa e il

problema era creare un'unità attorno alla monarchia Sabauda. Questo

processo doveva essere appoggiato dalla costruzione di ideali e simboli.

In questa prospettiva Moss parlava di "invenzione del mito", mentre

altri parlavano di costruzione del mito. Il mito è un'esigenza di

ricondurre a visioni, idealità, emblemi superiori, dei concetti in cui

evidenziare tutti i valori positivi relativi alle ragioni del dover

essere italiani.

Il periodo dopo l'unità non è dominato da grandi personaggi, ma è un

periodo della storia che trova le sue radici nei comportamenti della

gente, nel come la gente si muove e partecipa alla identificazione in

emblemi e simboli: è un periodo di costituzione dell'identità nazionale,

di un processo che si evolve trasformando antiche forme di partecipa-

zione sociale. Inoltre l'Italia di quel periodo non è una società

multimediale e i giornali riguardano la classe dirigente, cioè un'esigua

minoranza, ed il resto dell'Italia era per il 71% analfabeta ed estranea

alla circolazione delle idee. Mentre l'unità politica è rimasta relega-

ta ad un'élite di intellettuali, la costruzione di un'identità nazionale

ebbe come suo centro la partecipazione della massa popolare. A questo

scopo ci si servì di forme di riunione quali feste religiose pagane,

eredità del passato (nozze, funerali, eccetera). Vengono inoltre

istituite nuove feste aventi per fine un'opera di propaganda patriotti-

ca. La monarchia Sabauda doveva diventare un simbolo completamente

acquisito dagli italiani. Questo tentativo di legittimazione della

monarchia aveva bisogno di un modello: tutti i re avranno un'appella-

tivo, un epiteto, che caratterizzerà le virtù politiche, culturali e

morali della famiglia reale. Allo stesso modo, i personaggi che hanno

"fatto il Risorgimento" (Garibaldi, Mazzini, Cavour, Bixio, e gli

altri), vengono enfatizzati in funzione dell'esaltazione del mito

unitario. L'esercito Sabaudo fu un forte segnale di un tentativo di

giungere all'identità nazionale come dimostra il valore dei soldati nel

difendere la causa unitaria. Per celebrare la guerra come momento di

riscatto nazionale, vengono esaltate le vittorie delle patrie battaglie,

momento eroico, mentre le sconfitte vengono trascurate e attribuite al

fato avverso. Successivamente si sentì il bisogno di "materializzare"

questo mito attraverso delle raffigurazioni (lapidi, ossari, mausolei, monumenti).

Lo storico Carlo Botta aveva accennato alla necessità di istituire

delle feste civili e patriottiche atte a osannare la famiglia reale e

intese come momento di raccolta e identificazione della nazione. La

regina Margherita incarnò il modello femminile di virtù nazionale.

Fra i numerosi elementi che costituiscono il mito, oltre alle

esposizioni, momento di grande partecipazione collettiva, importanza

fondamentale ebbero le diverse ricorrenze:

- 9 gennaio: anniversario della morte del re;

- 10 marzo: morte di Mazzini;

- 14 marzo: genetliaco del re;

- 2 giugno: morte di Garibaldi;

- Prima domenica di giugno: festa dello Statuto;

- 20 settembre: presa di Roma;

- 11 novembre: compleanno del Principe Ereditario Vittorio Emanuele III;

- 20 novembre: compleanno della Regina Margherita.

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