UNA CHIESA BERLUSCONIZZATA
Alex Zanotelli, comboniano, già direttore di Nigrizia, da anni
vive nella baraccopoli di Gorogocho, alla periferia di Nairobi, dove
ha avviato dei progetti molto interessanti di riciclaggio dei
rifiuti e di sostegno a donne sieropositive ed ex prostitute. Ieri
è circolata la notizia che il missionario, dopo la notizia della
vittoria di Berlusconi, avrebbe deciso di non tornare in Italia.
Abbiamo raggiunto telefonicamente Alex Zanotelli a Nairobi.
Davvero ha deciso di restare a Gorogocho, in Kenya?
No, non sarebbe giusto, adesso è il momento di impegnarsi in
Italia, perché la situazione è davvero incredibile. Io avevo fatto
quella battuta al Giubileo degli oppressi proprio per aiutare la
gente a capire che non si può partecipare al Giubileo degli
oppressi e poi andare a votare Berlusconi, volevo sottolineare che
era in gioco qualcosa di importante, c'è da vergognarsi a vedere un
Berlusconi arrivare al potere. Io resterei ancora molto volentieri a
Gorogocho, è una esperienza che mi dà moltissimo, ma ormai il
cambiamento è in atto, sono quattro anni che stavamo preparando il
passaggio: i comboniani assumeranno direttamente Gorogocho, questo
è molto bello perché è la prima volta che una istituzione fa una
scelta del genere. Io volevo fare una esperienza nel nord, magari
negli Stati uniti, ma poi molti amici mi hanno detto che è molto
importante essere presenti ora in Italia, si pensava a una missione
a Napoli o Palermo. Per poter dare una mano al movimento di
resistenza in Italia, i comboniani anzi mi chiederebbero una
presenza nelle sedi europee dove si prendono le decisioni, a
Strasburgo e Bruxelles.
Quindi potrebbe trovarsi proprio in Sicilia, dove la destra ha fatto
il pieno di voti...
Sono rimasto impressionato nel sentire che la destra ha spazzato via
tutto. Proprio oggi mi venivano in mente le parole di Dossetti, che
io ho visto in punto di morte. Quando c'è stato il primo governo
Berlusconi l'aveva definito "Baccanale dell'esteriorità",
era una definizione molto azzeccata. Quello che avrei voluto
chiedere a Dossetti però era perché aveva aspettato così tanto a
dirlo, visto che in fondo Berlusconi è il frutto maturo del
craxismo. Ma quando, nel 1985, Nigrizia ha cominciato a sparare su
queste cose Dossetti non c'è mai stato, eravamo soli.
E' impressionante in questa situazione anche la scesa in campo a
fianco di Berlusconi della chiesa, del papa e dei vescovi, in modo
così esplicito non si era mai visto ...
Questa è una cosa che veramente mi sconcerta. Oggi ho letto un
testo che parlava della "berlusconizzazione" della chiesa
italiana, è spaventoso, è una chiesa che ormai si è allineata
decisamente sui valori della società, una chiesa che non è più
profetica, non ha più una parola da dire, non ha una sua visione da
prospettare per il futuro è parte integrante del sistema, è
funzionale al sistema. E per me, come credente, questa rappresenta
una ferita ancora più grande.
Che cosa possono fare ora i cattolici, la chiesa non li rappresenta
certamente tutti. E' possibile organizzare una resistenza?
Si sono già provate varie resistenze dal '68 in poi e non è che
abbiano funzionato molto. Quindi più che resistenza, secondo me, a
livello ecclesiale bisogna continuare a ricordare alla chiesa il
tradimento che ha operato e che avviene in continua. Israele era
molto cosciente di questo, aveva un sogno e l'ha tradito
radicalmente, ha cercato di portarlo avanti poi c'è stato il
tradimento da Salomone in avanti, fino all'esilio, ha avuto però il
coraggio di ammettere che hanno tradito il sogno. Quando Gesù ha
riproposto quel sogno nella Galilea degli oppressi, ha rilanciato un
movimento alternativo all'impero romano. Anche lì le comunità
hanno tenuto duro per trecento anni poi c'è stata la svolta. In
continuità abbiamo dovuto riproporre quel sogno perché, per usare
le parole molto belle di Martin Luther King, la chiesa è chiamata
ad essere un termostato nella società ed invece quasi sempre è un
termometro. Un termostato per trasformare, cambiare valori, e invece
è un termometro che misura la febbre della società, lo status
sociale. Ecco la grande sfida, è quello che ci manca come chiesa
italiana e che dobbiamo ritrovare, però sono profondamente convinto
che nella base c'è una grande forza. Ora tutto il movimento
lilliputziano dovrà uscire alla luce e diventare alternativa, non
dico diventare partito ma assumere un ruolo politico e fare una
opposizione seria, altrimenti rischiamo di non avere più nulla.
Il rischio di veder fare tabula rasa di tutte le conquiste ottenute
con molte lotte ...
E' vero e le abbiamo ottenute con belle esperienze: dalla
resistenza, al dopoguerra, in realtà alternative. A questo livello
non sono assolutamente scoraggiato, anzi penso che forse l'aspetto
positivo di quella che sarà la catastrofe berlusconiana è che
porrà la gente di fronte all'alternativa. Finora con le sinistre
abbiamo giocato perché ormai è l'economia che detta legge. Abbiamo
avuto delle sinistre al governo che non hanno fatto una politica di
sinistra, anche questo ha favorito la destra. Oggi con la vittoria
di Berlusconi dobbiamo guardarci in faccia, uscire dalle parole
vuote, ritrovare valori umani, della convivenza, dello stare
insieme. Dobbiamo lottare per costruire un futuro, è un momento
stimolante perché dobbiamo cercare di tradurre in alternative
quelli che sono i nostri sogni, il nostro guardare al futuro.
NON DEVO DIFENDERE LA MIA VERITA’,
MA
VIVERLA
Allevato
in Spagna da madre cattolica e padre indú, Raimon
Panikkar ha dedicato
tutta la vita al dialogo interreligioso. Ordinato sacerdote
cattolico nel 1946 e incardinato nella diocesi di Varanasi, in
India, Panikkar è autore di circa 40 libri. Questa intervista,
concessa a Henri Tincq, redattore religioso del quotidiano parigino
Le Monde, è apparsa su Christian century.
Com'è
possibile combinare un'eredità al contempo cristiana e induista?
Sono stato educato
nel cattolicesimo da mia mamma spagnola, ma non ho mai smesso di
cercare di restare unito alla tollerante e generosa religione di mio
padre e dei miei antenati indù. Tuttavia ciò non fa di me un
"semi-casta" culturale o religioso. Cristo non era mezzo
uomo e mezzo Dio, ma interamente uomo e interamente Dio. Ugualmente
io mi considero al 100 per cento induista e indiano e al 100 per
cento cattolico e spagnolo. Com'è possibile? Vivendo la religione
come un'esperienza piuttosto che come un'ideologia.
Come
spiega il fascino che le religioni e le filosofie dell'Asia
esercitano sull'Occidente e la paura che questo produce nelle chiese
occidentali?
Si potrebbe
rovesciare la domanda e chiedersi, invece, perché l'Occidente
esercita una tale attrazione sull'Oriente. La risposta alla sua
domanda, in ogni modo, è che il cristianesimo contemporaneo ha
prestato un'attenzione insufficiente a molti elementi chiave della
vita umana, come la contemplazione, il silenzio e il benessere del
corpo.
C'è in
quest'attrazione un salutare schiaffo dello Spirito, che sta dicendo
alle chiese in Occidente di svegliarsi. La scoperta dell'altro, la
ricerca di una maggiore pace dell'animo e tranquillità del corpo,
di gioia e serenità, sono fonti di rinnovamento. Quella del
cristianesimo è tutta una storia di arricchimento e rinnovamento
ottenuti da elementi che sono venuti dal di fuori di esso. Il Natale
e la Pasqua, come quasi tutte le feste cristiane, non hanno forse
un'origine non cristiana? Sarebbe stato possibile formulare la
dottrina fondamentale cristiana al di fuori della tradizione greca,
essa stessa pre-cristiana? Ogni essere vivente non vive forse in
simbiosi con l'ambiente che lo circonda?
Allora perché
questa paura? Se la chiesa vuole vivere, non deve temere di
assimilare elementi provenienti da altre tradizioni religiose, la
cui esistenza non può più ignorare oggi. Ciò non toglie che si
debba usare prudenza e io comprendo la voce delle autorità
cattoliche quando si leva contro la diffusa superficialità.
La maggioranza dei
conflitti nella società odierna non nasce proprio dalla paura della
distruzione dell'identità, una paura che ha portato a tutte quelle
forme di ripiegamento religioso chiamato integralismo?
Chi teme di
perdere la propria identità, l'ha già persa. In Occidente
l'identità si definisce attraverso la differenza. I cattolici
trovano la loro identità nel non essere protestanti, induisti o
buddisti. Ma altre culture hanno un altro modo di pensare l'identità.
L'identità non è fondata sul grado in cui uno è differente dagli
altri.
Nelle tradizioni
abramitiche (ebraismo, islam, cristianesimo), si vede Dio nella
differenza nella superiorità o nella trascendenza. Essere
divino significa non essere umano. Per gli ingusti, invece, il
mistero divino è nell’uomo, poiché è così profondo e reale in
lui che egli non se ne può separare, e ciò non può essere
relegato nella trascendenza. Questo è l'ambito dell'immanenza, di
quell'archetipo spirituale che è chiamato brahma. Nel sistema indù,
le persone non temono di perdere la propria identità. Possono avere
paura di perdere ciò che hanno, ma non ciò che sono.
Aver paura è
sempre un brutto segno. Cristo dice: "io vi do la pace" e
"non abbiate paura". I cristiani di oggi si sentono
circondati e hanno paura di dissolversi. Ma che cosa dice il
Vangelo? "Voi siete il sale della terra". Il sale deve
sciogliersi per rendere il cibo più saporito. Il lievito serve
per far gonfiare il pane. La vocazione cristiana consiste nel
perdere se stessi negli altri. Da un punto di vista istituzionale o
disciplinare, posso capire le reazioni odierne di prudenza nelle
chiese. Ma il dovere del cristiano è di dissolversi, di
"perdere la propria vita" per comunicarla agli altri. La
fede cristiana ci dice anche che perdendo la nostra vita la
salviamo. E' qui che troviamo il significato della risurrezione.
Lei crede nel
dialogo interreligioso. A quali condizioni può avvenire?
E' finito il tempo
in cui le religioni potevano rifugiarsi in uno splendido isolamento.
In Europa, per esempio, i credenti non possono più ignorare
l'esistenza di milioni di stranieri con differenti culture che ora
vivono qui. Non possono più ignorare che, in tre quarti del
pianeta, la religione prevalente non è il cristianesimo. Quindi ci
deve essere dialogo; la domanda è: quale genere di dialogo?
Dobbiamo
distinguere tra dialogo interreligioso e dialogo intrareligioso.
Il primo pone a confronto religioni già strutturate e affronta
questioni dottrinali e disciplinari.Il dialogo intrareligioso è
qualcosa di più. Esso non comincia con la dottrina, la teologia e
la diplomazia. E' "intra", cioè significa che se io non
scopro in me stesso il terreno in cui l'induista, il musulmano,
l'ebreo e l'ateo possono trovare un posto nel mio cuore, nella
mia intelligenza, nella mia vita non sarò mai in grado di
entrare in un genuino dialogo con lui.
Finché non apro
il mio cuore e non vedo che l'altro non è un altro, ma una parte di
me che amplia i miei orizzonti e mi completa, non arriverò al
dialogo. Se ti abbraccio, allora ti capisco. Tutto ciò per affermare
che il vero dialogo intrareligioso inizia in me stesso ed è più
uno scambio di esperienze religiose che di dottrine. Se uno non
comincia dalle proprie fondamenta, nessun dialogo religioso è
possibile; sono solo futili chiacchiere.
Ma come si
evita di cadere in un vago sincretismo fatto di differenti
espressioni religiose?
Ovviamente io sono
contro quello che oggi va di moda, cioè quell'andare di qua e di
là alla ricerca di una soddisfazione spirituale che finisce per
non portare da nessuna parte. Il cammino del dialogo che io propongo
è esistenziale, intimo e concreto. Il suo scopo non è instaurare
una qualche religione universale, arrivare a una specie di Onu
delle religioni. Si rilegga il libro della Genesi: Dio distrusse la
torre di Babele.
Perché Dio non
vuole un governo mondiale, una banca mondiale, una democrazia
mondiale? Perché Dio pensa sia meglio, per facilitare la
comunicazione tra uomini e donne, che essi vivano in piccole casette
a dimensione umana, con finestre e strade, piuttosto che su
superautostrade dell'informazione?
Per i cristiani la
risposta è l'Incarnazione: perché il mistero divino si è fatto
carne. Per il filosofo ciò avviene affinché la relazione umana
rimanga personale. Io non posso avere un contatto umano con un
computer; una macchina non è una persona. Il genuino dialogo tra
le religioni, dunque, dovrebbe essere questo "duo-logo";
tra te e me, tra te e il tuo vicino; sarebbe come un arcobaleno in
cui non siamo sicuri dove un colore finisce e un altro comincia.
Ma si può
ancora parlare di religione se non si è convinti di possedere la
verità?
Quando, durante il
suo processo, a Gesù è chiesto "che cosa è la verità?
", egli non risponde. 0 risponde col silenzio. Infatti, la
verità non si lascia ridurre a un concetto. Essa non è puramente
oggettiva, assoluta. Parlare della verità assoluta è veramente una
contraddizione in termini. La verità è sempre relazionale e
l'Assoluto (absolutus, non legato) è ciò che non ha relazione. La
pretesa delle grandi religioni di possedere tutta la verità può
essere compresa solo in un contesto limitato e contingente. Non essere
consapevoli dei propri limiti porta all'integralismo. Ma per
essere consapevoli dei nostri limiti, noi abbiamo bisogno del nostro
vicino, e dunque di dialogo e amore. La verità è prima di tutto
una realtà che ci permette di vivere, una verità esistenziale che
ci rende liberi.
Io non sono così
relativista da credere che la verità si possa tagliare a fette come
una torta. Ma sono convinto che ognuno di noi partecipa alla verità.
Inevitabilmente la mia verità è la verità che io percepisco dalla
mia finestra. E il valore del dialogo tra le varie religioni
consiste precisamente nell'aiutarmi a percepire che ci sono altre
finestre, altre prospettive. Quindi io ho bisogno dell'altro per
conoscere e verificare la mia prospettiva della verità. La verità
è una genuina e autentica partecipazione al dinamismo della realtà.
Quando Gesù dice "io sono la verità", non mi sta
chiedendo di assolutizzare il mio sistema dottrinale, ma di mettermi
sulla via che conduce alla vita.
Tuttavia,
quale sarebbe lo scopo di credere e dedicare la propria vita a qualcosa,
se non si tratta di difendere la propria verità? Il tipo di
dialogo religioso che lei chiede, in cui ciascuno entra, prima di
tutto, non per difendere le proprie convinzioni ma per condividere
esperienze, non si riduce facilmente a un'amichevole
chiacchierata?
Io difendo la mia
verità. Sono pronto a dedicarle la mia vita e a morire per essa.
Dico semplicemente che non ho un monopolio sulla verità e che più
importante è il modo in cui tu e io entriamo in quella verità,
come la percepiamo e la ascoltiamo. Tommaso d'Aquino diceva:
"Tu non possiedi la verità; è la verità che possiede
te". Sì, noi siamo posseduti dalla verità. E' lei che mi fa
vivere; ma anche gli altri vivono, in virtù della loro verità. Io
non m'impegno prima di tutto a difendere la mia verità, ma a
viverla. E il dialogo tra le religioni non è una strategia per far
trionfare la verità, ma un percorso per ricercarla e approfondirla
insieme agli altri.
Le
chiese cristiane si sforzano per inserire il messaggio del Vangelo
nella diversità delle culture. Com'è possibile conciliare il
rispetto che lei ha per le altre religioni e culture con la necessità,
per un cristiano come lei, di "inculturare" il Vangelo?
E' dell'interculturazione
che dobbiamo parlare, cioè di un incontro fra tradizioni e culture,
e non dell'innesto di una cultura in un'altra. Sarebbe solo una
prova di colonialismo pretendere che un messaggio religioso, come il
Nuovo Testamento, abbia il diritto e il dovere d'inculturare se
stesso ovunque, come se fosse qualcosa di sovraculturale.
Le chiese
dovrebbero prendere maggiormente sul serio le culture tradizionali
esistenti e lavorare per la loro reciproca fecondazione. Come? Per
mezzo di quell'ispirazione mistica che troppo spesso viene
dimenticata nella loro teologia. Per esempio, il miglior modo di
spiegare lo "scandalo" del cristianesimo all'induista
classico non è parlare del Natale o di Gesù di Nazaret, ma del
Cristo risorto e dell'eucaristia. Sa che l'espressione usata nel XVI°
secolo dal Concilio di Trento per descrivere l'eucaristia
"1'unico sacrificio che salva il mondo" si trova già
in un testo vedico di 2000 anni prima? In altre parole, il
sacrificio che salva il mondo è prima di tutto una specie di
commercio tra l'umano e il divino, qualcosa che l'indù capisce
altrettanto bene del cristiano.
Io credo
nell'Incarnazione e penso che dopo le disavventure dei passati 2000
anni, il cristianesimo dovrebbe smettere di essere la religione del
Libro e diventare la religione del Mondo un mondo che i
cristiani dovrebbero ascoltare a partire da un Cristo che vive, come
dice Paolo, ieri, oggi e sempre. Allora la loro verità potrà
diventare un'esperienza maggiormente personale. Presentare la verità
a uomini e donne oggi non significa cercare di introdurre un po' di
tomismo qui, un po' d'ebraismo là, e così via, ma raggiungerli ai
loro livelli esistenziali, umili e mistici più profondi.
La verità
cristiana non è monopolio di una setta, una dottrina imposta da una
sorta di colonizzazione, ma un'eruzione che è esistita fin
dall'origine dei tempi, che San Paolo definiva molto bene "un
mistero che è esistito fin dal principio" e di cui noi
cristiani conosciamo solo una piccolissima parte.
E'
questa la ragione per cui lei chiede un secondo Concilio di
Gerusalemme, seguendo l'esempio del primo, che decise di non imporre
più i rituali ebraici ai nuovi convertiti?
Oggi a essere in
crisi non è un paese, un modello, un regime; siamo davanti a una
crisi di umanità. Si dovrebbe convocare un Concilio che non
dovrebbe mettere più al centro questioni interecclesiali
occuparsi di sacerdoti, vescovi, ordinazione delle donne e così
via ma rivolgere l'attenzione a problemi di gran lunga più
essenziali. Tre quarti della popolazione mondiale vive in condizioni
inumane. L'umanità vive in un'afflizione e insicurezza così grandi
che i suoi leader pensano di dover tenere 30 milioni di uomini in
armi! La chiesa non può estraniarsi da tale angoscia, da
quest'ingiustizia istituzionalizzata. Non può restare sorda alle
grida del popolo, specie a quelle dell'umile e del povero. Il
Concilio che propongo dovrebbe essere non esclusivamente cristiano,
ma ecumenico, nel senso che dovrebbe dare ascolto ad altre
cosmologie e religioni. Il suo obiettivo dovrebbe essere quello di
individuare come lo Spirito sta ispirando l'umanità a vivere in
pace e dare il lieto messaggio della speranza.
(A cura di Henri
Trincq)
Il partito "amico" del Vaticano
di Vilma Occhipinti*
Dopo le parole del cardinal Ruini a nome della
CEI e l'ultimo appello pontificio è ancora più palese che in
Italia vince il partito "amico" del Vaticano, quello che
garantisce più soldi alle finanze vaticane, più privilegi alle
istituzioni ecclesiastiche, più sostegno finanziario al
"volontariato" cattolico. Da parte sua, la gerarchia
ecclesiastica, attraverso una struttura capillare e onnipresente,
garantisce la vittoria elettorale. Quando la curia vaticana fa
dire al Papa che l'Italia, con la vittoria della destra, entra
nella normalità e nella stabilità, si schiera di fatto, in modo
fazioso e scorretto, con il liberismo berlusconiano. Cessa di
essere la chiesa di tutti per essere dalla parte di chi le
garantisce privilegi e potere.
Tutto il resto, compresi i valori gridati, è un diversivo per
dirottare l'attenzione. L'esperienza di questi ultimi anni
conferma che l'istituzione ecclesiastica parla di aborto, di
famiglia, di vita da tutelare, per coprire altri fini, altri
interessi. Tanto è vero che essa non tiene conto del fatto che
molti uomini, cattolici e non, pensano di tutelare la famiglia
creando asili e spazi per i bambini e facendo funzionare i servizi
sociali a tutela di tutti i cittadini. E lo fanno a prescindere
dalla fede , religiosa e no, di ciascuno. Uomini che si misurano
con una realtà rappresentata, sì, da famiglie sancite dal
matrimonio, ma anche da famiglie di fatto e ritengono immorale
fare graduatorie ed escludere. Ma l'istituzione ecclesiastica non
tiene conto nemmeno che uomini, cattolici e non, hanno lavorato
alla legge per la tutela della maternità,per eliminare l'aborto
clandestino, per disciplinare il ricorso all'aborto, ritenuto da
tutti, cattolici e non, un dramma da evitare. Le statistiche del
Ministero della Sanità riportano una riduzione costante degli
aborti. Questo è più importante degli annunci gridati per
ricorrente opportunismo. Se la curia vaticana avesse a cuore
veramente la famiglia e i bambini nati e da nascere, non avrebbe
firmato l'articolo del Concordato sulla religione cattolica nella
scuola pubblica. Articolo che di fatto divide nelle classi i
bambini cattolici da quelli di altra - o di nessuna - religione,
con la conseguenza di innescare un meccanismo di violenza i cui
frutti già si vedono: l'altro per razza, cultura, religione ha
meno valore del bambino doc cattolico.
Non facciamoci illusioni: ai cardinali paludati e solenni,
tragicamente sterili, sta a cuore soprattutto il potere con
conseguente forza economica. Quando chiedono la parità
scolastica, vogliono soltanto un ulteriore finanziamento diretto,
per una scuola a parte, separata, divisa, ma unica nello sfornare
i futuri quadri del potere politico e di quello economico. Si
perpetua così per clonazione il modello che garantisce alla
chiesa perpetui privilegi, mettendo in atto la strategia dell'Opus
Dei, consolidata in America Latina. Si comincia dalla scuola e si
arriva ai centri di potere da occupare perché nessuno opera
meglio dell'Opus Dei. Anche in Italia, in modo strisciante e
minaccioso, stanno occupando tutti i centri di potere. La stessa
curia vaticana è in mano alla prelatura ed è lecito pensare che
lo stesso Pontefice sia spesso uno strumento passivo, solo a
tratti autonomo.
Un solo dato di fatto ci consola: questa istituzione ecclesiastica
non è la chiesa che - per virtù di molti uomini e forse per
grazia di Dio - vive nel mondo, a servizio di tutti e con capacità
di riflessione e di azione sorprendente e feconda. Esiste come
segno di speranza anche se viene ignobilmente usata dalla
struttura ecclesiastica. I dati del bilancio consuntivo dell' 8
per mille, diffusi dalla CEI, dicono che il 90% delle entrate è
speso per il sostentamento del clero. Quindi solo una minima parte
viene spesa per quelle opere di carità, costruite dalla fatica di
una chiesa che vive nel mondo, e spudoratamente esibite alla
televisione negli spot pubblicitari dell'istituzione
ecclesiastica.
*dottore in teologia
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Da 'Jesus' N. 5 - maggio 2001 : http://www.sanpaolo.org/jesus/0105je/0105je48.htm
Il cardinale Franz König
Una
Chiesa a porte aperte
di Vittoria Prisciandaro
La collegialità? È lo stile di Chiesa del futuro. E passa attraverso un maggior potere delle Conferenze episcopali. Ma la Curia romana frena, afferma l’arcivescovo emerito di Vienna. Che critica i metodi dell’ex Sant’Uffizio: i "vecchi sistemi" rischiano di fare danni alla causa ecumenica.
«No, non ho paura del futuro»: testimone della Chiesa del XX secolo, il cardinale Franz König, arcivescovo emerito di Vienna, è un giovanotto di 95 anni che mantiene intatta la sua curiosità per l’oggi. «Nonostante il gran numero di giorni che ho sulle spalle, la vita resta interessante. Mi interrogo molto sulle domande dei giovani, su come annunciare loro il Vangelo».
Ha partecipato a tre conclavi. È stato protagonista della Ostpolitik vaticana e artefice del dialogo tra la Russia sovietica, l’Est ortodosso e la Chiesa di Roma. Ha dato un contributo fondamentale alla stesura dei maggiori testi del Concilio. Per trent’anni ha guidato l’arcidiocesi di Vienna, terra di frontiera ai confini con "il muro". Eppure – racconta – la domanda che da giovane seminarista lo mise in marcia sulle strade impervie del dialogo ancora lo interpella: «Cosa vuol dire essere cattolico tra altri che hanno una fede diversa?». Sì, il gusto della ricerca e del confronto restano il metodo di una vita, ancorata alla sostanza del Vangelo e del Vaticano II.
Il sottile lavoro da mediatore oltre cortina in passato gli valse il soprannome malevolo di "monsignore comunista". E in tempi recenti alcune sue dichiarazioni in materia di ricerca teologica e dialogo interreligioso, non sempre allineate con le posizioni vaticane, lo hanno confermato nella fama di prelato progressista e illuminato. Eppure non è uomo che ricerchi i riflettori o la polemica gratuita. Misura le parole, smorza i tentativi di contrapposizione. Con un’agilità sorprendente balza in piedi dalla sedia per recuperare pubblicazioni, testi magisteriali e verificare citazioni e indicazioni bibliografiche a sostegno del suo pensiero.
Libri, icone, piante, ricordi: l’appartamento del cardinale è all’ultimo piano di un istituto di accoglienza tenuto da religiose, in una stradina tranquilla, decentrata rispetto al cuore di Vienna. Qui riceve i suoi ospiti. Qui si riposa di ritorno da interventi e conferenze, che ancora lo portano in giro per il mondo. Proprio per questa sua conoscenza profonda della Chiesa a 360 gradi, il cardinale König è oggi uno degli interlocutori privilegiati per tentare di tracciare un quadro delle sfide che attendono la Chiesa del terzo millennio.
«Fino al secolo passato la Chiesa si difendeva dalla scienza, dal progresso e dai liberi pensatori. Anche il dibattito ecclesiale era visto con sospetto. Imperava la paura di disperdere l’eredità religiosa. Così si chiudevano porte e finestre. Ma Giovanni XXIII fece il contrario, aprì le finestre. Mi disse che quando gli venne l’idea di convocare il Concilio pensò arrivasse dal maligno e tentò di scacciarla. Poi ci pregò su, e capì che doveva andare avanti. Ricordo che compresi l’universalità della Chiesa nella sua diversità all’apertura del Concilio, il 12 ottobre. Fino a quel momento avevo pensato la Chiesa come europea: lì ascoltammo lingue diverse e vedemmo i vescovi di tutto il mondo. Il Concilio ha discusso molto su una "collegialità" che permettesse ai vescovi di cooperare gli uni a vantaggio degli altri, e al Papa di collaborare con loro. Ma ciò non è accaduto. Paolo VI aveva pensato di prolungare il Concilio con un "Sinodo" che avrebbe dovuto assistere il Papa. Ma con i limiti che hanno, i Sinodi che sono seguiti non hanno potuto svolgere questa funzione. Insomma, mentre nel passato si concentrava tutto sul Vaticano e il centralismo era anche uno strumento per difendere la Chiesa stessa, dopo il Concilio di tutto questo non c’è più bisogno. Eppure ancora oggi un monsignore, in una qualunque parte del mondo, è nominato da Roma. La Chiesa universale ha bisogno di unità, ma anche di diversità. E questo è possibile se le Conferenze episcopali non si limitano ad ascoltare, ma hanno un maggior potere decisionale e la possibilità di influire sul centro. Penso che il Papa lo voglia, ma l’apparato pone forti resistenze al cambiamento. Il prossimo Pontefice farà tutto questo».
«Ci sono diverse idee, non mi pronuncio per nessuna. Dico solo che si deve trovare una soluzione in cui l’unità lasci spazio alla diversità, su base nazionale, regionale, continentale».
«Secondo la Chiesa cattolica, il Papa è il successore di Pietro, il quale ha la responsabilità per l’unità della Chiesa, nient’altro. Vale a dire che, di per sé, questo non è un posto di comando centrale. Anche in questo campo, come per la collegialità, dobbiamo ammettere un pluralismo grande, senza distruggere l’unità. Il primato è una struttura giuridica, finalizzata ad assicurare che non ci siano le divisioni. Ciò che si deve comprendere è che le diversità possono rispettare l’unità nelle questioni essenziali. Certo, teoricamente è facile. Lo stesso Papa, nella Ut unum sint, al n. 95, ha ammesso che il suo posto è una grande difficoltà per l’ecumenismo. Ha invitato le Chiese cristiane a discutere. Ma finora la reazione è stata debole».
«Non sono pessimista. Lo stesso Papa Wojtyla, al n. 3 della Ut unum sint, ha indicato l’ecumenismo tra le priorità della Chiesa. Certo, non mancano le tensioni, per esempio con Mosca. Ma conosco Alessio II, e so che, se non avesse dei problemi interni, sarebbe felice anche lui di incontrare il Papa. Con gli ortodossi abbiamo la stessa fede, ma la tradizione storica e la lingua della liturgia sono diverse, e ciò che crea motivo di divisione dal punto di vista degli ortodossi sono soprattutto gli "uniati". Con i protestanti penso che le cose vadano avanti abbastanza bene; il Consiglio ecumenico delle Chiese da circa 50 anni svolge un ottimo lavoro e i contatti con la Chiesa cattolica sono molteplici. Quanto alla Dominus Jesus, lo scopo principale del documento è di mettere in guardia dalle difficoltà che possono nascere dal dialogo interreligioso, non ecumenico. C’è però un passaggio dove si dice che la Chiesa di Gesù Cristo è realizzata soltanto nella Chiesa cattolica: è stato scelto un linguaggio sbagliato. I teologi capiscono, ma la gente no. L’ho detto anche al cardinale Ratzinger, quel passaggio è terribile. La Congregazione per la dottrina della fede deve fare attenzione, altrimenti rischia di fare danni alle relazioni ecumeniche. Non bisogna andare indietro, si deve avanzare su questa strada, come dice il Papa. Forse la discussione resta su un piano intellettuale, mentre la base non fa molto».
«Bisogna interrogarsi a partire dal paragrafo n. 1 di Nostra aetate, dove si dice che la Chiesa cattolica considera con grande attenzione la relazione con le religioni non cristiane. Insomma non si limita a considerare che siamo diversi, ma dice qualcosa in più. Anche il Papa a proposito del dialogo interreligioso afferma che dobbiamo continuare, perché il pluralismo culturale è in aumento. Perciò i teologi hanno l’obbligo di discutere e di approfondire queste relazioni. Il Concilio ha aperto il dialogo, ma dei tanti contributi che sono seguiti, il più importante di parte cattolica è quello di padre Dupuis. Ebbene, la Dominus Jesus non cita un libro o un autore, ma di fatto è stato pubblicato mentre si preparava la notificazione contro il volume di padre Dupuis. Insomma: sembra che il pluralismo religioso per il Papa sia positivo e per la Congregazione per la dottrina della fede sia invece problematico. C’è anche un altro fatto che mi ha lasciato perplesso. Della notificazione contro Dupuis sono state fatte tre stesure, tutte già con la firma del Papa. Cosa vuol dire il fatto che il Papa firmi per tre volte un testo diverso? A mio parere questa storia rende visibile le difficoltà in cui si trova la procedura della Congregazione. Quanto alla ricerca teologica, la mia opinione è che bisogna lasciare il campo aperto alla discussione. Comprendo che non è facile il compito della Congregazione, ma bisogna stare attenti a non tornare a vecchi sistemi».
«Da sempre molti dicono di essere battezzati, ma non hanno una vita cristiana. Certo, questo oggi è più evidente di prima. Ma laddove la Chiesa riesce a mettere insieme la testa e il cuore, ci sono delle esperienze bellissime di fede. E spesso questo si verifica nelle parrocchie, dove non c’è solo la parola ma l’esempio di vita. Il problema in Europa oggi è che abbiamo una Chiesa troppo intellettuale, una religione di testa. Si fanno bellissimi discorsi con l’idea che, se si parla bene, tutto è a posto. Invece la fede ha bisogno della testa e del cuore, perché ha un aspetto individuale, ma anche uno comunitario. Pascal diceva: "Le coeur a des raisons que la raison ne connaît pas"».
«Conosco bene l’arcivescovo di Milano, lo stimo, è un uomo prudente e forse vede più lontano di me. La sua proposta è interessante, ma non credo che questo sia il tempo adatto. Rimanderei tutto al prossimo pontificato».
Il cardinale Franz König è
nato a Rabenstein, nella diocesi di Sankt Pölten, il 3 agosto
del 1905. È stato ordinato il 29 ottobre del 1933, consacrato
vescovo nel ’52 e creato cardinale da Giovanni XXIII il 15
dicembre 1958. Ha guidato la diocesi di Vienna per 30 anni, a
partire dal 1956. Tra i protagonisti della Ostpolitik, ha
dato un grande contributo ai lavori del Concilio Vaticano II.
Dal 16 settembre dell’85 è arcivescovo emerito. Il dialogo ecumenico, interreligioso e con i non credenti è stato sempre al centro degli interessi del cardinale König. Nel 1964, a Vienna, ha dato vita alla Fondazione Pro Oriente, che ha svolto un lavoro fecondo nei rapporti tra Est e Ovest, tra cattolicesimo e ortodossia. Ha presieduto a lungo il Pontificio consiglio per il dialogo con i non credenti, di cui oggi è presidente emerito. «Il pluralismo religioso attuale mi fa tornare in mente la domanda di Gesù agli apostoli: "E voi chi dite che io sia?"», dice il cardinale König. «Già il Concilio di Nicea e quello di Calcedonia avevano affrontato la questione. Oggi noi diciamo ancora una volta che Gesù Cristo è Dio e uomo, e non un fondatore o un profeta. Ma questo va detto con simpatia, non con durezza». Secondo König, il teologo Jacques Dupuis (nella foto) «ha elaborato lo studio più importante sul pluralismo religioso». Per dare una risposta al movimento referendario "Noi siamo Chiesa" i vescovi hanno promosso "Il dialogo per l’Austria", che è portato avanti da dodici commissioni su alcuni punti specifici. Uno dei gruppi, presieduto da monsignor Alois Kothgasser, vescovo di Innsbruck, riguarda il rapporto tra Roma ed episcopati locali, in particolare le modalità di nomina dei vescovi. |
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di Raniero La Valle*
Berlusconi e i suoi accoliti hanno vinto le
elezioni. Ma l'Italia gli ha resistito, in una misura che gli ha
tolto il sogno in cui aveva investito tutte le sue ricchezze, e gli
ha negato quel plebiscito di consensi che aveva millantato per mesi
e che gli aveva fatto credere che come nuovo sovrano tutto gli
sarebbe stato permesso. L'elettorato non ha fornito la base
materiale al fascismo. Quella cultura resta minoritaria nel Paese,
anche se si impossessa degli strumenti di governo. Ma la partita,
salutarmente, resta aperta.
Purtroppo, questa Italia che resiste, non ha trovato nella classe
dirigente democratica una interprete capace di tradurre la sua
identità spirituale in risultato istituzionale e in rappresentanza
politica; violentato da una legge elettorale perversa, gestita al
peggio dagli stati maggiori del centro-sinistra, da Rifondazione e
dal movimento dipietrista, l'elettorato ha votato in maggioranza
contro Berlusconi, ma gli ha consegnato la maggioranza parlamentare.
Legittimamente, certo, perché questa, si dice, è la politica. Ma
è una politica che ha perso il suo punto d'onore, di essere
determinata da tutti i cittadini, ed è una politica in cui chi fa
le regole del gioco immagina un gioco di burocrazie con sempre meno
giocatori, fino al punto da tagliare di un terzo i seggi elettorali,
anticipando con la fantasia, ammaliata dal modello americano, quella
drastica riduzione dell'affluenza alle urne che invece l'Italia
ancora rifiuta. L'angosciosa notte elettorale ("piove, governo
ladro!") non è stata solo una Caporetto organizzativa, è
stata la Caporetto di una cultura di governo che pensa ormai ad una
alternanza di eguali per fare le stesse cose (le stesse opere
pubbliche, le stesse flessibilità del lavoro, le stesse
privatizzazioni), mentre la gente ancora pensa ad alternative
ideali, e questa volta si è affollata alle urne sapendo di dover
fare una scelta di civiltà.
E l'ultimo motivo glielo ha dato proprio Berlusconi col suo
contratto, che è l'emblema stesso del rapporto privatistico, in cui
si scambiano con denaro beni, merci, servizi, e perfino corpi, ma
mai idee, speranze e progetti di società. Ed è stato un boomerang;
perché se il capo della destra avesse chiesto di governare in base
al Patto, e al patto costituzionale, tutti i cittadini, anche
dissenzienti, sarebbero stati coinvolti e ne sarebbero oggi
vincolati. Ma lo ha chiesto in base a un contratto, nel quale uno
metteva i denari, e gli altri ci mettevano i voti. La cultura
aziendalistica di Berlusconi dovrebbe bastare a fargli sapere che il
contratto obbliga solo chi lo contrae. Nel proporlo non se ne è
curato, perché ha creduto, nella sua infinita presunzione, che a
contrarlo sarebbero stati tutti, o quasi, "gli italiani".
Così non è stato. La maggioranza ha risposto rifiutandosi di
barattare il Patto, che accomuna tutti, col contratto stipulato tra
pochi. E il Patto vuol dire origine e gestione democratica del
potere, controllo di legalità, garanzie giuridiche oggettive e non
dipendenti dalle convenienze personali e politiche, universalità
dei diritti, per cittadini e per stranieri, rimozione delle cause di
diseguaglianza, diritto di asilo, ripudio della guerra, e
quant'altro. Si ricordi dunque ora il leader della parte vincente
che egli governerà non per un'investitura a furor di popolo, né
per un'unzione sacrale, e nemmeno per un contratto aziendale, ma per
una fiducia condizionata e revocabile di una maggioranza
parlamentare e si ricordi (e il popolo lo sa) che la Costituzione
non vale un'autostrada.
(Questo articolo è pubblicato anche sul n. 11/2001 di "Rocca")
*Raniero La Valle è giornalista e scritto