La comunità come compito e impegno

La dimensione antropologica della comunità

Abbiamo visto come la comunità nasce dall'Alto, quale frutto del dono della koinonia trinitaria comunicato attraverso il mistero pasquale. La Trinità stessa, partecipando la propria vita, si fa presente nella comunità con il Risorto e il suo Spirito e la nutre con la Parola, I'Eucaristia, I'agape, la mediazione del fratello.

La comunità religiosa è tuttavia anche un impegno, un compito, una vocazione. L'amore ricevuto domanda di essere vissuto, anche se la risposta è resa possibile proprio dal dono stesso ricevuto. Raggiunta dall'amore di Dio e trasformata da questa realtà, la comunità religiosa è ora resa capace di percorrere il cammino di ritorno a Dio, divenendo luogo privilegiato per l'esercizio della carità, dove si può Vivere secondo natura, che è quella divina di figli e figlie di Dio. Tutta opera di Dio, la comunità appare in tal modo come opera dei suoi stessi membri, chiamati a vivere attivamente la vita trinitaria loro comunicata, e a costruire, con coerenza, il proprio stare assieme a immagine dell'Uni Trinità.

Accanto alla dimensione teologale, essa possiede una dimensione antropologica: è costruita dall'azione positiva delle persone nuove chiamate da Dio a comporla. I membri della comunità sono chiamati a inverare e manifestare, nella reciprocità dell'amore, la koinonia ricevuta.

Dopo avere contemplato la dimensione teologale della comunità, possiamo quindi passare, in questa quarta parte, a cogliere alcuni aspetti della sua dimensione antropologica. La comunità religiosa ci apparirà come luogo nel quale, in un esercizio attivo di risposta, si vive il dono dell'agape divina per lo sviluppo pieno della persona e il raggiungimento, nella comunione tra tutti i membri, dell'unità trinitaria.

l.A COMUNITÀ LUOGO DI CRESCITA DELLA PERSONA

La comunità religiosa, nella sua dimensione antropologica, appare come opera delle persone che la compongono e in funzione delle persone stesse. Basilio aveva già evidenziato la dimensione sociale dell'uomo quale presupposto naturale per il formarsi della comunità e via per il pieno esercizio della realtà umana dei suoi membri.

L'uomo e la donna sono infatti costituzionalmente chiamati alla comunione. Nel suo magistero pontificio, Giovanni Paolo II ha costantemente sottolineato questa dimensione sociale della persona. Analizzando i racconti della creazione dell'uomo e della donna, il Papa scrive che «umanità significa chiamata alla comunione interpersonale». Commentando il n. 24 della Gaudium et spes, scrive ancora più esplicitamente: «L'uomo - sia uomo che donna è l'unico essere tra tutte le creature del mondo visibile che Dio Creatore "ha voluto per se stesso": è dunque una persona. L'essere persona significa: tendere alla realizzazione di sé (il testo conciliare parla del "ritrovarsi"), che non può compiersi se non "mediante un dono sincero di sé"». Naturalmente, Giovanni Paolo II non può non additare in «Dio stesso come Trinità, come comunione di Persone» la fonte e il modello a cui uomo e donna devono continuamente guardare per l'interpretazione della persona. Ne segue che «dire che l'uomo è creato a immagine e somiglianza di questo Dio vuol dire anche che l'uomo è chiamato ad esistere "per" gli altri, a diventare un dono» (MD 7).

Sappiamo come tale concetto di persona sia tipicamente cristiano e come sia penetrato nel comune patrimonio della cultura mutuando le proprie origini dalla riflessione teologica, avuta nei primi secoli del cristianesimo, sui due grandi misteri della Trinità e dell'incarnazione. La persona, nella tradizione patristica, trascende sia la natura che l'individuo ed è se stessa in quanto è relazione, apertura all'altro e accoglienza di lui: comunione.

La riscoperta del rapporto di comunione con gli altri quale elemento essenziale e insostituibile per la piena realizzazione umana coincide con tutto un filone delle scienze antropologiche e della stessa filosofia. Le scienze umane oggi mettono sempre più in evidenza la dimensione sociale dell'uomo. L'individualismo cartesiano, che vedeva l'uomo come coscienza autosufficiente, ha ceduto il posto a una comprensione più globale dell'uomo colto nella sua struttura dialogale e interpersonale in cui il soggetto si attua nell'incontro con l'altro. Il personalismo, in particolare, ha sviluppato un concetto di persona che offre un valido apporto alla relazione tra dono di sé nella comunione e crescita della persona.

Partendo da una matrice cristiana, il personalismo moderno, ponendosi come alternativa all'individualismo liberale e al collettivismo impersonale marxista, ha riaffermato la dimensione fondamentalmente comunitaria dell'uomo. «La persona - sostiene Emmanuel Mounier - non esiste che verso gli altri, non si conosce che grazie agli altri e non si trova che negli altri», In questa linea, l'allora card. Karol Wojtyla sottolineava l'importanza della relazione per la realizzazione del singolo: «La comunione del "noi" è quella forma di plurale umano in cui la persona si realizza al massimo grado come soggetto». Solo nel rapporto con gli altri l'uomo diventa veramente persona, si realizza cioè pienamente come uomo, raggiungendo la piena vocazione che lo chiama ad essere a immagine e somiglianza di un Dio che per sua natura è rapporto d'amore. Per questo, senza vivere in un rapporto d'amore l'uomo non sarà mai ciò che è chiamato ad essere. «L'amore scrive ancora Mounier non si aggiunge alla persona come un di più, come un lusso: senza l'amore la persona non esiste (...) senza l'amore le persone non arrivano a divenire tali». L'amore è per la persona la possibilità stessa di essere: «Esisto soltanto nella misura in cui esisto per gli altri. (...) Essere significa amare». Il cogito cartesiano viene ribaltato dall'amare come possibilità realizzante dell'essere della persona salvandola dalla condanna a restare ente, individuo atrofizzato perché incapace di trascendersi. Il rapporto io tu si presenta dunque non solo come coessenziale alla formazione reciproca, ma come la possibilità stessa di essere persone e perciò capaci di trascendenza.

Questa linea di pensiero appare coerente con la vocazione dell'uomo, che è chiamata alla comunione con Dio. Essendo Dio Persone-in-comunione, l'uomo è vocazione alla persona, alla persona come comunione. Egli è chiamato a passare da individuo a persona, aprendo l'individualità nel rapporto verso gli altri. Con intuizioni efficaci, G.M. Zanghì ha descritto questo passaggio come la «pasqua» a cui ogni uomo è chiamato: «Se l'individuo è necessità, la persona è libertà. Se l'individuo è disuguaglianza, la persona è uguaglianza, non per livellamento ma per accoglimento della totalità nella diversità. Se l'individuo è analisi, la persona è sintesi. (. . . ) Se l'individuo, dunque, è l'unico in un punto, la persona è la dilatazione (la liberazione!) di questo punto sino a farlo comprensivo, senza disindividuarlo, della totalità dei punti: è la comunione dei punti». Portando questo discorso sul versante più propriamente cristiano, Bulgakov scrive che «l'amore ecclesiale, a immagine della Santissima Trinità, supera l'egocentrismo che singolarizza, con la forza del tutto, e penetra nell'anima quale realtà superiore (...). La persona trova un centro superiore al posto del proprio e invece di essere eccentrica ed egoistica, diventa con-centrica al tutto».

Tale presa di coscienza della dimensione sociale di ogni uomo è fatta propria dal Concilio: «L'uomo - leggiamo nella Gaudivm et spes al n. 12 per sua intima natura è un essere sociale, e senza i rapporti con gli altri non può vivere né esplicare le sue doti». In questo contesto, il Concilio afferma chiaramente l'«indole comunitaria dell'umana vocazione nel piano di Dio» (GS 24), vocazione che trova la sua perfezione e compimento in Gesù, che ha portato la legge dell'amore fraterno (cf. GS 32).

Il comandamento nuovo di Gesù non è allora qualcosa di estrinseco all'umanità, di giustapposto o di imposto dall'alto. Scaturisce dall'intima conformazione del genere umano, ed esplicita potenzialità che gli sono proprie consentendogli la piena realizzazione come umanità e come singoli uomini. Il popolo messianico ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amato (cf. L(ì 9), perché questa è la legge attraverso la quale tutta l'umanità può pervenire alla propria identità originaria. «Il Verbo di Dio - afferma ancora il Concilio - ci rivela che "Dio è carità" (1 Gv 4, 8), e insieme ci insegna che la legge fondamentale dell'umana perfezione, e perciò anche della trasformazione del mondo, è il nuovo comandamento della carità. Coloro pertanto, che credono alla carità divina, sono da lui resi certi, che è aperta a tutti gli uomini la strada della carità e che gli sforzi intesi a realizzare la fraternità universale non sono vani» (GS 38).

Si scorgono immediatamente le implicanze pedagogiche di questa nuova impostazione ecclesiologica. Le scienze umane ci dicono che l'uomo non può giungere a diventare persona se non nel rapporto. La rivelazione, a sua volta, ci fa capire che il cristiano non giungerà ad essere tale se non vivendo con i propri fratelli e sorelle i rapporti trinitari. Membri di una Chiesa che ha la missione di essere «sacramento, segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» (LG 1), i cristiani sono chiamati a essere, per loro natura, uomini di comunione e non potranno diventare tali che in comunione, sperimentando, vivendo la comunione.

La CEI, nel suo documento sulla preparazione al sacerdozio ministeriale, applica questo principio alla formazione dei seminaristi enunciando, come si premura di dire, una «legge generalissima della pedagogia divina», ossia: «La natura ecclesiale della fede esige che sia una comunità ad educare con la sua testimonianza vissuta, in modo che ciascuno dei componenti possa beneficiare, nella testimonianza reciproca, di un clima cristiano di vita» 9. E il documento sulla dimensione contemplativa della vita religiosa, rivolgendosi a tutti i religiosi, ricorda che «la comunità religiosa è in se stessa una realtà teologale, oggetto di contemplazione: come "famiglia unita nel nome del Signore" (PC 15) è, per natura sua, il luogo dove l'esperienza di Dio deve potersi particolarmente raggiungere nella sua pienezza e comunicare agli altri. La reciproca accoglienza fraterna, nella carità, contribuisce a "creare un ambiente atto a formare il progresso di ciascuno" (ET 39)».

La vita di comunione appare come l'ambiente normale, anzi necessario, in cui cresce e matura la chiamata del singolo e dei gruppi alla perfezione della carità. Essa inoltre spinge verso la ricerca di Dio non solo in noi, ma anche tra noi, per cui la comunità religiosa non è solo strumento di santità, ma luogo stesso di santità.

VERSO UNA SPIRITUALITÀ COMUNITARIA

Tutto ciò ha conseguenze immediate sul modo di vivere la vita comunitaria. Non è infatti scontato il fatto che perché si vive in comunità il cammino di crescita umana e spirituale sia comunitario. La vita spirituale può benissimo essere individualistica anche in comunità. La comunità religiosa può essere un luogo dove ognuno cammina da solo. Non sempre, infatti, comunità significa comunione.

Karl Rahner, poco prima della sua morte, parlando della spiritualità nella Chiesa del futuro, individua «la comunione fraterna nello Spirito come elemento peculiare ed essenziale della spiritualità di domani». La novità della spiritualità del futuro sarà infatti «la comunione fraterna in cui sia possibile fare la stessa basilare esperienza dello Spirito». Con profonda umiltà egli riconosce tuttavia che «noi più anziani abbiamo avuto un'esperienza spesso molto marginale di questo fenomeno (...). Noi anziani siamo stati spiritualmente degli individualisti, data la nostra provenienza e la nostra formazione. (...) Se c'è un'esperienza dello Spirito fatta in comune, comunemente ritenuta tale, desiderata e vissuta, essa è chiaramente l'esperienza della prima Pentecoste nella Chiesa, un evento - si deve presumere che non consistette certo nel casuale raduno di una somma di mistici individualistici, ma nell'esperienza dello Spirito fatta dalla comunità (...). Io penso che in una spiritualità del futuro l'elemento della comunione spirituale fraterna, di una spiritualità vissuta insieme, possa giocare un ruolo più determinante, e che lentamente ma decisamente si debba proseguire lungo questa strada».

Se tanti, come Rahner, non sanno quale strada percorrere per un autentico cammino di comunione, è forse perché gran parte della spiritualità è stata intesa e vissuta come cammino individualista verso Dio, La concezione individuale della vita spirituale, predominante nella storia della Chiesa, e accentuatasi con l'avvento dell'Umanesimo e del Rinascimento, nasce prevalentemente dalla contemplazione della Trinità che inabita l'anima redenta e giustificata. Se ci si arresta alla presenza della Trinità nella singola persona, è normale che l'itinerario spirituale consista nel tendere all'unità mistica con le Persone che vivono nell'anima.

Di fatto, pur nella straordinaria molteplicità delle esperienze dei mistici e degli insegnamenti dei maestri di spirito, la tradizione ha fondamentalmente tracciato le linee per un cammino che rimane individuale. La ricerca di Dio porta all'interno dell'uomo. L'antropologia cristiana ha avuto come idea-guida - più o meno coscientemente - la parola di Gesù: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv. 14, 23). L'uomo cristificato è dimora della Trinità. La reciproca immanenza di Cristo e del cristiano si risolve nell'inabitazione di tutta la Trinità nell'anima dell'uomo divinizzato.

La chiamata alla partecipazione alla vita trinitaria ha così portato la tradizione cristiana a centrare quasi esclusivamente il lavoro di santità nell'approfondimento di questo intimo rapporto personale con il Dio che inabita l'anima del giusto. Il cammino verso Dio è allora un cammino verso l'interno e privilegia la solitudine e il silenzio.

Se questo cammino individuale verso l'interno, dimora trinitaria, ha creato i grandi mistici, sappiamo che storicamente ha rischiato anche di far deviare verso posizioni che a stento possiamo chiamare ancora cristiane. Abbiamo già visto come l'indirizzarsi alla ricerca di Dio in interiore homine abbia portato a un graduale allontanamento dal fratello, fino quasi al suo rifiuto. Basterà ricordare ancora il primo dei detti di apa Arsenio dove viene espressa la condizione per la salvezza: «Fuggi gli uomini, e sarai salvo» E in un altro dei suoi detti: «Non posso essere contemporaneamente con Dio e con gli uomini. (...) Non posso lasciare Dio per venire dagli uomini» Si passa dalla fuga mundi alla fuga hominis, fino alla fuga fratris. Anche quando lasciamo il deserto per approdare, ad esempio, all'aureo libro dell'Imitazione di Cristo, troviamo insegnamenti analoghi: «I santi più grandi evitavano, quando potevano, la compagnia degli uomini, e preferivano servire Dio nella solitudine. Disse un saggio: Ogni volta che andai fra gli uomini, me ne tornai meno uomo. (...) È più facile stare ritirati in casa, che riuscire a custodire se stessi andando fuori (...). A chi invero si allontana da amici e conoscenti, si accosta Iddio coi suoi angeli»

Abbiamo avuto modo di cogliere la dimensione positiva di questa concezione della vita spirituale, considerandola come la parabola della scelta radicale di Dio. Sta di fatto che la riflessione teologica e spirituale ha normalmente privilegiato il momento individuale a quello sociale e comunitario. Quando ad esempio cerca l'immagine creata della Trinità, la riflessione teologica si riferisce di preferenza al singolo uomo più che al rapporto sociale ed ecclesiale. Agostino, Bonaventura, Tommaso d'Aquino soprattutto, e tanti altri con loro, vedono l'uomo redento e divinizzato come recante in sé, nel reciproco rapporto delle proprie facoltà spirituali sopraelevate dalla grazia (memoria, intelletto e volontà), la partecipazione della natura divina trinitaria. Trovano quindi l'analogia trinitaria nell'unità delle facoltà interiori della singola persona, piuttosto che tra le persone unite nella comunione ecclesiale. Ultimo rappresentante, in ordine di tempo, di questa ricca tradizione di pensiero, il filosofo cristiano M. Federico Sciacca chiama «l'essere intelligente» «uno-trinitario nel senso che il suo essere uno-trinitario è un'immagine o ha una certa analogia imperfetta con Dio Uni-Trino: l'uomo è un essere, e ciascun uomo è uno, triadico e insieme trinitario per quanto ha di analogo con la divina Trinità, che in sé è mistero rivelato da Dio e, come tale, dono di fede».

Un esempio di una concezione prevalentemente individuale della vita spirituale, conseguente a questa visione teologica, possiamo trovarlo nella lettura figurata, quando non addirittura contraddittoria, di certi testi evangelici, quale quello, ad esempio, in cui Gesù promette una sua presenza tra persone unite nel suo nome. Per alcuni autori antichi, primo tra tutti Origene, ma anche Cassiano, Ambrogio, Girolamo, «due o tre» riuniti nel nome di Gesù (cf. Mt 18, 20) non sono tanto i discepoli, quanto le parti dell'anima oppure del composto umano riunite in una armonia interiore. Una tale interpretazione giunge fino a santa Caterina da Siena che parafrasa le parole di Gesù in questi termini: «Come queste tre virtù e potenze dell'anima (memoria, intelletto, volontà) sono congregate, lo so' nel mezzo di loro per grazia».

Un ulteriore esempio di portata ben più vasta è quello della privatizzazione, nella dinamica spirituale, delle immagini comunitarie quali quella dell'edificio e della piantagione, della crescita dell'uomo nuovo fino alla piena statura di Cristo, dell'unione sponsale con Cristo. Immagini tutte che nella Scrittura sono riferite in primo luogo alla Chiesa. In questi casi, «il progetto collettivo è originario e non può essere analizzato come un ampliamento delle leggi della crescita individuale. Se deve essere confrontata, la relazione sarà inversa: il processo individuale copia, con delle varianti, lo schema della storia della salvezza comunitaria». È la Chiesa il corpo di Cristo in crescita, il popolo di Dio in cammino, la sposa che si unisce allo Sposo. Il cristiano, proprio perché vive e cresce nella Chiesa e con la Chiesa, si troverà a vivere con lei, e in unità con tutte le altre membra, gli stessi dinamismi, le stesse sue tappe di maturazione.

Nonostante la fondamentale tendenza a individualizzare il cammino di santità, la tradizione, come abbiamo avuto modo di vedere ampiamente a proposito della comprensione storica della comunità religiosa, ci offre anche spunti che aprono il cammino di santità a dimensioni comunitarie. Si tratta però di aspetti che, nella storia della spiritualità, non sono stati sufficientemente tematizzati e non hanno generato, di fatto, itinerari spirituali collettivi o comunitari.

Analizzando la storia del pensiero cristiano, von Balthasar ha mostrato tutto il peso che ha avuto la mancata centralità della intersoggettività nella riflessione filosofica. Ancorata al pensiero greco, la teologia Cristiana non ha potuto sviluppare in pienezza tutte le dimensioni che la rivelazione ha offerto riguardo al mistero della carità. Essa è stata colta soprattutto in due caratteristiche fondamentali: la sua origine divina, come partecipazione all'amore trinitario, e il suo carattere unitivo tra Dio e l'uomo. Questo duplice carattere della carità ha consentito alla teologia patristica e scolastica di approfondire l'ontologia dell'essere creato, redento e divinizzato nel suo rapporto verticale con Dio. Così il pensiero cristiano ha sempre visto nell'essere creato un'analogia della Trinità, e ha tentato di costruire su questa base un'antropologia conseguente. Non c'è stato, invece, un approfondimento altrettanto ampio sulle conseguenze che la partecipazione alla vita divina provoca a livello intersoggettivo, anche se non sono mancati del tutto tentativi di sviluppare un'ontologia trinitaria in questa direzione.

Oggi assistiamo al passaggio dall'analogia trinitaria intra-soggettiva a quella inter-soggettiva, anche se, come è stato giustamente osservato, «l'operazione richiede la debita attenzione e un corretto approfondimento dello strumento analogico, e deve innestarsi senza unilateralismi su quanto di positivo ha permesso di scavare la precedente prospettiva. L'analogia trinitaria intra-soggettiva, infatti, è chiamata a dare una dimensione di profondità (in senso ontologico) a quella inter-soggettiva»; L'essere verso l'altro (estasi) rispetta e anzi promuove l'essere in sé (estasi), analogicamente a quanto avviene nelle Persone divine.

I nuovi orizzonti della teologia aprono la via anche a nuove possibilità di intendere il cammino spirituale. Se la riflessione dei primi Concili si incentrò su Cristo, se il Concilio di Trento ha portato il suo interesse sulla giustificazione dell'uomo peccatore, il Vaticano II, orientando la sua attenzione sulla Chiesa come Corpo mistico di Cristo e popolo adunato nel vincolo di amore della Trinità, «modifica l'impostazione della spiritualità e della pastorale in senso ecclesiale. La salvezza e perfezione della propria anima, su cui hanno tanto insistito predicatori e autori spirituali, è liberata dalla preoccupazione individualistica per essere inserita nel contesto più ampio del piano divino (...). Si sente l'esigenza di sviluppare una spiritualità centrata sulla riconciliazione ecumenica e di vivere intensamente i legami di fraternità evangelica fino a formare comunità sul tipo di quella primitiva descritta come ideale dagli Atti degli Apostoli».

Dal cammino individuale verso il centro dell'anima dove dimora la Trinità, lo Spirito Santo sta orientando verso un cammino comunitario che riscopre l'unione tra i fratelli come luogo di presenza della Trinità. Per questa nuova via, il cammino di crescita del singolo trova nel dono di sé all'altro - ricordiamo il citato n. 24 della Gaudium et Spes una sua componente addirittura indispensabile. Dalla fuga dal fratello per andare a Dio si è portati alla ricerca del fratello per andare con lui a Dio, anzi per trovare Dio nella reciproca unità.

La teologia contemporanea, seguendo l'impulso dello Spirito, fa emergere i temi ecclesiologici della koinonia, del Corpo mistico, del popolo di Dio, dell'Ecclesia de Trinitate, così da aprire la strada a nuovi itinerari spirituali comunitari. La dimensione comunitaria sta diventando in tal modo uno dei caratteri più forti e spiccati della spiritualità contemporanea. «I movimenti spirituali contemporanei - è stato scritto al riguardo cercano di attuare una spiritualità vissuta insieme, nella quale viene sottolineata la comunità fraterna nello Spirito come suo elemento essenziale. È un bisogno di vivere insieme i valori del Vangelo, un po' sull'esempio della prima comunità di Gerusalemme, per costruire nella dimensione comunitaria un'autentica vita spirituale, aperta all'esperienza di Dio».

Si possono intravedere le rivoluzionarie implicanze del passaggio da una spiritualità di tipo prevalentemente individuale a una spiritualità comunitaria, o meglio «trinitaria». «La nostra scrive Chiara Lubich offrendoci un tipico esempio di tale nuovo orientamento è una via in cui si va a Dio proprio passando per l'uomo. ( . . . ) Si va a Dio attraverso l'uomo, anzi si va a Dio insieme con l'uomo, insieme con i fratelli. Una via, dunque, spiccatamente collettiva. E in questa via collettiva i singoli trovano anche la perfezione personale. Le persone che in altre spiritualità cercano Dio in se stesse stanno come in un giardino fiorito e guardano ed ammirano un solo fiore: ammirano, amano, adorano Dio in loro. A noi sembra che Dio chieda di guardare a molti fuori, perché anche nelle altre persone è presente il Signore, o lo può essere. E, come devo amare Dio in me - quando sono sola - così lo devo amare nel fratello quand'egli è presso di me. Allora, non amerò tanto la fuga dal mondo, ma la ricerca di Cristo nel mondo; non amerò solo la solitudine, ma anche la compagnia; non solo il silenzio, ma pure la parola. E, quando l'amore verso Cristo nel fratello è reciproco, nell'incontro si vive sul modello della Trinità, dove i due stanno come il Padre e il Figlio e fra essi irrompe lo Spirito Santo con i suoi doni, anima del Corpo mistico. Quando è Gesù il motivo dell'incontro tra fratelli, si diventa uno, come Dio è uno, ma non si è soli, come Dio, pur essendo uno, non è solo, perché è Amore. Quando ci si incontra in questo modo si verifica la Parola di Cristo: "Dove due o tre sono uniti nel mio nome io sono in mezzo ad essi" (Mt 18, 20). Lì è il Risorto. È questo il Cristo che noi dobbiamo sempre possedere, o meglio dal quale dobbiamo essere sempre più posseduti. Egli è la santità del gruppo e di ognuno singolarmente».

ALLA RICERCA DEL FRATELLO

Il fratello, in una spiritualità che fiorisce su una ecclesiologia trinitaria, non è quindi evitato, ma cercato; non è elemento di distrazione, ma di edificazione di quell'unità che contiene Dio. Dato da Dio, diventa allo stesso tempo sacramento per raggiungere Dio. Il rapporto d'amore al fratello diventa mezzo ed espressione dell'amore verso Dio e per l'introduzione nella koinonia trinitaria.

Se è vero che Giovanni, teologo dell'agape, vede l'amore essenzialmente nella linea discendente, è anche vero che egli lo chiama ripetutamente «il precetto». Anzi, nel Vangelo, e più chiaramente nelle lettere, i precetti (entolai) si riducono al precetto (entolè) della carità fraterna. Possiamo ricordare che, nella concezione ebraica, la Legge (i precetti) è ripetutamente vista come «via del [verso il] Signore». Così l'amore fraterno, che è segno dell'essere stati raggiunti dall'amore di Dio, diventa anche espressione di amore a Dio e mezzo per raggiungerlo.

Per Giacomo l'amore fraterno è addirittura visto come culto reso a Dio. «Religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo» (1, 27). Ove, per parlare di religione, l'apostolo usa un termine che, fuori di questo brano, si trova solo altre due volte nel Nuovo Testamento: treskèia, che significa religione nel suo aspetto cultuale e di osservanza (cf. At 26, 5; Co12, 15). L'apostolo afferma quindi che la misericordia verso i fratelli bisognosi è culto (treskèia) gradito a Dio. L'amore fraterno ha un valore cultuale, liturgico. Con questa concezione si ricollega a quei testi di Matteo in cui il Cristo afferma che tutto ciò che è fatto al povero (cf Mt 25, 40-45) o al discepolo (cf Mt 10, 40-42) è fatto a Lui. È significativo che il primo testo faccia dell'amore del povero l'oggetto stesso del giudizio: «venite nel regno; ... andate via». Si è giustificati dall'amore fraterno. Ordinariamente, nelle religioni, si è giusti o meno a seconda dell'osservanza o non osservanza dei riti e delle pratiche della propria religione. Anche nella parabola del fariseo e del pubblicano, il primo si sente giustificato dal fatto che adempie i comandamenti etici e rituali: digiuno e decime (cf. Lc 18, 11 12). Cristo nella sua descrizione del giudizio non cita le osservanze rituali, ma unicamente l'amore fraterno. Il servizio del fratello diventa servizio reso a Cristo.

Tommaso d'Aquino si è fondato su uno di questi testi (Mt 25, 40) per concludere a difesa delle comunità religiose dedite ai ministeri di carità: «obsequia proximis facta, in quantum ad Deum referuntur, dicuntur esse sacrifica quaedam». Gli atti di amore al prossimo fatti per amore di Dio sono, secondo la parola di Cristo, in certo qual modo, atti di culto.

A differenza di altre religioni, nel cristianesimo il rapporto umano diventa il centro della religiosità, in quanto espressione privilegiata del rapporto con Dio. Conseguentemente, il rapporto umano è stato assunto da Cristo come espressione propria del culto reso a Dio. L'Eucaristia stessa, come atto centrale del culto cristiano, consiste in un incontro fraterno ed è nel contesto di tale incontro che si compie la comunione con Cristo. Il Cristo si dà nella Cena ai fratelli che sono insieme. L'Eucaristia come sacramento, con la sua struttura circolare di comunione, diventa comprensibile solo in una religiosità dell'incarnazione, che ha fatto del rapporto umano il sacramento dell'incontro con Dio. Torniamo così all'intima connessione e compenetrazione di agape, koinonia, Ekklesia, Eucaristia.

Abbiamo già rilevato le implicanze del realismo del mistero dell'incarnazione e della sacramentalità di Cristo. Come Dio ci raggiunge in Cristo e Cristo ci raggiunge attraverso la mediazione del fratello, così, inversamente, noi comunichiamo con Cristo attraverso il fratello. A Dio si va attraverso l'umanità del Cristo, ma Cristo ci ha insegnato che si va a lui attraverso i fratelli. Dio non può essere visto direttamente, ci ricorda Giovanni; possiamo però essere in comunione di amore con lui grazie alla comunione di amore con i fratelli e le sorelle (cf. I Gv 4, 12). Giovanni contrappone a una religione della pura trascendenza una religiosità della grazia; alla ricerca solitaria di Dio una esistenza comunitaria, in cui si dà l'esperienza del Dio-amore.

L'agape fraterna non è solo signum, cioè dimostrazione dell'essere stati raggiunti dall'amore di Dio (linea discendente: il fratello come dono di Dio), ma anche sacramentum nel senso di via per accedere a Dio (linea ascendente: il fratello come sacramento per l'incontro con Dio). Il prossimo diventa sacramento, sacramentum proximi: si tratta esattamente del sacramentum Ecclesiae, il segno fondamentale dell'incontro con Cristo.

LA CENTRALITÀ DELL'AMORE

È comprensibile allora l'appello ad amare il fratello costantemente rivolto ai cristiani lungo tutto il Nuovo Testamento. Solo nell'amare si realizza in pienezza la vocazione umana, si portano a compimento le virtualità insite in ogni individuo nella sua pasqua verso la compiutezza della persona. Amare è il modo stesso di essere cristiani, di edificare la Chiesa koinonia, di accedere, in unità, come popolo, al Dio Uni-Trinità.

Inoltre, appare evidente che l'amore si invera e raggiunge la sua pienezza quando raggiunge il fratello e lo coinvolge nella medesima dinamica di amore fino alla reciprocità, che sola rispecchia appieno la natura trinitaria dell'agape: «Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l'amore di lui è perfetto in noi» (I Gv 4, 12). La condizione per raggiungere Dio, possederlo e vivere in pienezza la sua vita agapica è l'amarsi gli uni gli altri.

Il dilemma fra amore di Dio e amore del prossimo è risolto alla radice, come ha ben compreso la grande tradizione cristiana. Per Basilio, la questione del duplice comandamento si risolve in un unico amore, identico nella natura. Per questo «è per mezzo del primo comandamento che si attua anche il secondo: e, mediante il secondo, si risale di nuovo al primo. Chi ama il Signore, ama di conseguenza anche il prossimo. (...) A sua volta, poi, chi ama il prossimo soddisfa all'amore verso Dio, perché il Signore riceve come rivolta a sé quella benevolenza».

Per Agostino, non c'è «nessun gradino più sicuro per giungere all'amore di Dio che la carità dell'uomo verso l'uomo»; Perché se l'amore di Dio è il primo ad essere comandato, l'amore del prossimo è il primo che deve essere eseguito: «L'amore di Dio è il primo che viene comandato, l'amore del prossimo è il primo che si deve praticare. Enunciando i due precetti dell'amore, il Signore non ti comanda prima l'amore del prossimo e poi l'amore di Dio, ma mette prima Dio, e poi il prossimo. Ma siccome Dio ancora non lo vedi, meriterai di vederlo amando il prossimo. Amando il prossimo rendi puro il tuo occhio per poter vedere Dio».

Gregorio Magno, a sua volta, scrive: «Due sono i precetti della carità, cioè l'amore di Dio e l'amore del prossimo. Dall'amore di Dio nasce l'amore del prossimo; e l'amore del prossimo nutre l'amore di Dio. Perché chi trascura l'amore di Dio non è affatto capace di amare il prossimo. E possiamo progredire maggiormente nell'amore di Dio, se prima, nel grembo del suo amore, veniamo allattati con l'amore del prossimo. (. . . ) Così nel terreno del nostro cuore [Dio] ha piantato prima la radice dell'amore verso di Lui e poi si è sviluppato, come chioma, l'amore del fratello. E che l'amore di Dio sia congiunto con l'amore del prossimo lo attesta ancora Giovanni quando dice: "Chi non ama il fratello che vede, non può amare Dio che non vede"».

Tommaso d'Aquino dirà, in sintesi, che l'atto con cui si ama il prossimo e Dio è della medesima specie: «idem specie actus est quo diligitur Deus, et quo diligitur proximus. Et propter hoc habitus caritatis non solum se extendit ad dilectionem Dei, sed etiam ad dilectionem proximi».

Il rapporto interumano diventa lo spazio in cui è dato esistenzialmente il rapporto con Dio. Il rapporto con Dio «è sempre il primo sul piano dell'essere: è sempre e solo in Dio che incontro gli altri, è nella sua apertura verso di me (quella per la quale esisto) che posso aprirmi agli altri; sul piano della realtà esistente, però, esso è il secondo: è nell'apertura all'altro che realizzo l'apertura a Dio, e maturo in questa nell'apertura all'altro».

L'amore al fratello diventa, anche dal punto di vista esistenziale, la strada maestra per la crescita del cristiano. Il fratello si fa via concreta per raggiungere Dio, oltre che strumento di verifica del cammino spirituale (cf. 1 Gv 4, 12.20). La via del cristiano consiste infatti nel «camminare nell'amore» (Ef 5, 2), anzi, sempre al dire di Paolo, l'amore è «la via migliore» (1 Cor 12, 31). Infatti la carità è pieno compimento della legge (cf. Rm 13, 10), vincolo di perfezione (cf. Col 3, 14). Ed è per l'amore al fratello che passiamo dalla morte alla vita (cf. 1 Gv. 3, 14).

Siamo davanti all'abc del Vangelo. Eppure, l'esercizio della carità dilata progressivamente l'anima e conferisce alla persona le connotazioni tipiche dell'amore come le ha descritte Paolo. La persona esercitata nella carità diventa paziente e benigna, «non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1 Cor 13, 4-7).

In questa descrizione di ciò che opera la carità, è descritta la persona ormai giunta alla maturità, al pieno dominio di sé, all'equilibrio, alla magnanimità, che ha ormai superato l'egocentrismo ed è diventata, con Cristo, uomo perfetto, in donazione, che non vive più per se stesso ma per la costruzione della Chiesa, tutto dedito al Regno di Dio. Una persona fatta in tal modo carità rimarrà per sempre, come per sempre rimane la carità (cf. 1 Cor 13, 8).

La comunità religiosa appare ora più chiaramente non tanto come un luogo che consente il raccoglimento e il cammino individuale verso Dio, quanto piuttosto il luogo dell'esercizio della carità, dove è offerta l'occasione di comunione costante con il fratello. Qui è richiesto il dono radicale di sé e la totale apertura che soli consentono la piena maturazione della persona. I fratelli o le sorelle sono direttamente cercati per poter vivere assieme ad essi la reciprocità dell'amore. La comunità diventa allora luogo della presenza di Dio, in cui Dio può essere sperimentato, dove si gode la presenza del Risorto e i frutti del suo Spirito. Essa sarà humus fertile per la continua crescita e maturazione fino a raggiungere, assieme, la statura adulta di Cristo, segno profetico di come si vive la comunione dei santi, centro di irradiazione della vita evangelica .

Possiamo ora leggere per intero la seconda parte del n. 15 del Perfectae caritatis, per coglierne tutta la profondità: «I religiosi, come membri di Cristo, nei loro rapporti fraterni si prevengano gli uni gli altri nel rispetto scambievole, portando i pesi gli uni degli altri. Infatti con la carità di Dio diffusa nei cuori per mezzo dello Spirito Santo, la comunità, come una vera famiglia adunata nel nome del Signore, gode della sua presenza. La carità è poi il pieno compimento della legge e il vincolo della perfezione, e per mezzo di essa sappiamo di essere passati dalla morte alla vita. Anzi, l'unità dei fedeli manifesta la venuta di Cristo, e da essa promana una grande energia per l'apostolato».