LA CONCRETEZZA DELL'AMORE

Come costruire la comunità

Se il fratello e la sorella sono il sacramento per l'incontro con Cristo, se l'amore è la via del cristiano, se nella reciprocità dell'amore vi è la possibilità dell'esperienza del Dio trinitario, la comunità è il luogo privilegiato per vivere in pienezza la vocazione cristiana.

Ma come amare? Qual è l'esercizio concreto che è richiesto ai membri di una comunità religiosa perché questa giunga ad essere ciò che è chiamata ad essere? Piuttosto che affrontare in modo esauriente la pedagogia della carità, vorremmo indicare soltanto alcune piste che possono essere percorse cercando di guardare alla fonte stessa dell'agape. Se siamo figli di un Dio che è Amore, dovremmo necessariamente somigliare a lui anche e soprattutto nell'esercizio dell'amore.

L'ESERCIZIO DELLA CARITÀ

Puntando lo sguardo su Dio Amore, ciascun membro della comunità si sente chiamato a quell'atteggiamento fondamentale che è l'uscita da sé verso l'altro. Si tratta, come abbiamo visto, della pasqua dall'individuo alla persona, ossia dell'esodo dall'egocentrismo alla donazione, del passaggio dall'essere per sé all'essere per l'altro. Nato per la comunione, l'uomo si trova infatti bloccato nei rapporti a causa del peccato. Il diavolo, per definizione, è divisione e la sua opera è rottura di rapporti. La redenzione, invece, è l'opera che Cristo compie per liberare l'uomo dalle molteplici divisioni e rotture che l'uomo vive nei confronti di Dio, dei fratelli, della natura, di se stesso, così da restituirgli la libertà nella piena comunione d'amore.

Gli iniziatori delle differenti comunità religiose hanno sempre sentito la resistenza della natura umana, segnata dal peccato, alla costruzione di rapporti autentici nell'amore. Abbiamo visto con quanta forza si scagliano contro gli operatori di divisioni all'interno della comunità La rottura dell'unità è infatti il peccato più grande, quello che più rende simile al diavolo, così come la costruzione dell'unità più avvicina al Dio dell'unità e dell'amore. I costruttori di pace saranno infatti chiamati figli di Dio! (cf. Mt 5, 9). I fondatori e le fondatrici, quando vogliono mettere in guardia contro la disunità all'interno della comunità, attingono a piene mani dagli elenchi di peccati che troviamo negli scritti paolini. Sono liste che denunciano l'egoismo umano, il ripiegamento su se stessi e tutti gli atteggiamenti negativi che impediscono l'edificazione della vita di comunione. È stato raccolto l'elenco di questi peccati in ordine alfabetico, così come emergono nelle lettere di Paolo: ambizione egoistica, arroganza, assassinio, bestemmia, collera, contese, cupidigia, diffamazione, discordia, disubbidienza, dissolutezza, disamore, furto, frode, gelosia, gozzoviglie, idolatria, inclemenza, immoralità, infedeltà, inganno, ingegno nel male, inimicizia verso Dio, insubordinazione, libidine, magia, maldicenza, malignità, malvagità, omosessualità, oscenità, pederastia, perversione, settarismo, stoltezza, stupidità, superbia, ubriachezza, vanità. È impressionante vedere come tutti i peccati elencati da Paolo hanno a che fare con i rapporti all'interno della comunità: sono d'impedimento alla comunione e insieme il frutto della disunità.

Entrando a far parte di una comunità, si dovrà essere coscienti di provenire da questa sponda di peccato e che nel cuore di ognuno si annidano i mali che corrodono la comunione. Le nostre sono comunità di peccatori, così come la Chiesa è santa ma composta da peccatori. È chiaro allora che per arrivare alla koinonia occorre passare per la metanoia.

Non a caso nel monachesimo, spesso la conversione, il battesimo e l'entrata in comunità coincidevano in un unico atto. Da qui anche il tema ricorrente della professione monastica come secondo battesimo, Non si può accedere alla vita in comune senza conversione, senza aver purificato il cuore dall'egoismo che vi si annida nelle forme e manifestazioni più diverse.

Queste parole, metanoia, conversione, vanno prese nel loro significato originario. Metanoia significa cambiamento di mentalità, ossia ragionare con una logica nuova, superiore. Si tratta di arrivare a pensare secondo Dio e non secondo gli uomini (cf. Mc 8, 33). Dio pensa sempre pensieri di pace (cf. Ger 29, 11). Si tratta di entrare nella logica evangelica dell'amore al nemico, del dare il mantello a chi chiede la tunica, di porgere l'altra guancia, di donare gratuitamente senza aspettare il ritorno. Conversione etimologicamente significa inversione di rotta: dalla direzione egocentrica a quella altruistica, dal vedere tutto in funzione propria al vivere per l'altro, dalla bramosia del possesso alla generosità verso tutti.

È lo stesso Paolo che, dopo aver elencato i frutti della carne, elenca i frutti dello Spirito, che nascono nell'uomo nuovo come conseguenza della conversione. Come quelli erano per la distruzione dei rapporti, questi sono tutti in funzione della comunione: «Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé (...). Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» (Gal 5, 22-25). Dopo aver esposto un elenco di peccati contro l'unità, scrive ancora: «Siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati dal Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio!» (1 Cor 6, 11).

«Ora - scrive sempre in un contesto di contrapposizione tra prima e dopo la conversione - deponete anche voi tutte queste cose (. . . ). Vi siete infatti spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo». Quindi Paolo descrive ancora una volta le caratteristiche che contraddistinguono l'uomo nuovo: «Rivestitevi dunque, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E siate riconoscenti! La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali. E tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre» (Col 3, 12-17). Le caratteristiche dell'uomo nuovo si identificano con gli strumenti necessari per la costruzione della comunità: l'uomo nuovo è colui che è capace di creare la comunione.

Può essere pericoloso guardare alla comunità nel suo aspetto mistico senza tenere conto della tendenza egoistica presente in ognuno dei suoi membri e senza considerare la necessità di un continuo doveroso cammino di conversione. Il confronto diretto tra i modelli di comunità e la concreta situazione della propria comunità particolare potrebbe ingenerare frustrazioni e delusioni. Da una parte una visione di luce, dall'altra la constatazione di una realtà cruda, nella quale si possono sperimentare freddezza, incomprensioni, fallimenti, divisioni. Per questo non si sottolineerà mai abbastanza l'intrinseca unità del mistero pasquale nella duplice dimensione di morte e risurrezione. Non si può vivere il mistero di vita se non sul mistero di morte, così come una morte per amore non può non condurre alla pienezza della vita.

La metanoia, ossia l'intima profonda conversione operata in ciascuno da Cristo e dal suo Spirito nel battesimo, ratificata nella professione religiosa, richiede di essere rinnovata costantemente, ogni giorno.

Assieme a questo atteggiamento di conversione permanente, la costruzione della comunità richiede un particolare atteggiamento di fede, ossia la capacità di vedere l'altro sempre con occhi nuovi. Si tratta di un autentico atteggiamento di fede, perché nelle persone che Dio ci pone accanto nel cammino della sequela occorre riconoscere la presenza stessa di Cristo. È una delle espressioni della metanoia, intesa come cambiamento del modo di vedere e di pensare. È questa fede che fa andare al di là di una valutazione puramente umana dei membri della comunità, che è tentata di fermarsi agli aspetti negativi che inevitabilmente emergono. La prolungata convivenza porta a scoprire, oltre alle doti, anche i difetti dell'altro. Inoltre, poiché i membri della comunità non si scelgono, possono esserci antipatie, anche immotivate. Può subentrare allora, con il passare del tempo, una visione negativa dell'altro, che non tiene più conto del divino che vive in lui e della sua vocazione a figlio di Dio. Ecco allora spuntare la sfiducia, ossia la convinzione che l'altro non potrà mai cambiare. Non si ha più stima di lui, non si crede più nella possibilità di una sua risurrezione. E come se un velo si calasse sui nostri occhi. Ecco perché si richiede un atteggiamento di fede, che sa guardare sempre con occhi nuovi, che sa credere sempre nell'altro, che dà costantemente fiducia all'altro. Più che sentirsi giudicata, ogni persona ha bisogno di sentirsi accolta così com'è ed amata. Ed è questo calore da cui è circondata che addolcirà una particolare angolosità, che darà luce per capire quanto c'è da cambiare nella propria vita, e così via.

Quando il fratello o la sorella sono visti costantemente in questa luce soprannaturale e colti come sacramento dell'incontro con Dio, ne segue una modalità di rapporto che si esprime in un amore concreto. La metanoia si traduce in diakonia, e si avvia così la costruzione della comunità dal basso, in una linea ascendente.

Le connotazioni di questo amore sono le più varie. L'amore è infatti come un diamante: ha mille sfaccettature. Proprio per essere tale, l'amore deve potersi manifestare nelle forme più svariate. L'inno alla carità (cf. 1 Cor 13) ci mostra come l'amore debba rivestirsi, a seconda del- le circostanze, di pazienza, benignità, benevolenza, nascondimento, umiltà, rispetto, disinteresse, mansuetudine, perdono, giustizia, verità, misericordia, fiducia, speranza, sopportazione. La carità è pienezza della legge, racchiude in sé tutte le altre virtù e si esprime attraverso di esse.

Queste molteplici espressioni dell'amore devono manifestarsi non tanto e non solo nei momenti o nelle occasioni solenni della vita, quanto nella semplicità di una vita fraterna quotidiana, ricca di umanità e fatta di piccole cose. La via per una rapida e solida costruzione della comunità passa attraverso il vissuto di quelle parole del Vangelo che pongono immediatamente in un concreto atteggiamento di servizio verso il fratello e la sorella che il Signore ci ha posto accanto: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25, 40); «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22, 39); e così via. Si tratta di parole che mettono in un esercizio immediato e concreto di donazione, che spingono a uscire fuori di sé per porsi in costante servizio dell'altro, in un positivo atteggiamento di oblatività, impedendo il ripiegamento su di sé.

Seguendo la Parola di Dio, vengono in rilievo alcune modalità concrete del dono di sé caratteristico dell'amore.

Servire, anzitutto. È questo il primo insegnamento sul modo di amare che Gesù stesso ha impartito. Lui è «venuto non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt 20, 28) consumando sulla croce l'estremo suo amore. Poco prima di morire, aveva espresso plasticamente la concretezza del modo di amare lavando i piedi ai discepoli e invitandoli a fare altrettanto: «Anche voi dovete lavare i piedi gli uni degli altri» (Gv 13,14).

Il servizio esige un atteggiamento di umiltà. «Siate umili», raccomanda la lettera di Pietro parlando di come vivere l'amore scambievole (cf. 1 Pt 3, 8). Si tratta di mettersi all'ultimo posto, secondo l'insegnamento costante del Signore. Ai figli di Zebedeo che chiedevano i primi posti, il Maestro risponde: «I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra di voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si faccia vostro schiavo» (Mt 20, 25-27). Ai discepoli che ambiscono al primato, Gesù dichiara: «Se uno vuol essere il primo sia l'ultimo di tutti e il servo di tutti» (Lc 9, 35).

L'atteggiamento di umiltà e di concreto servizio è il modo evangelico di porsi davanti all'altro. Una comunità può crescere nell'amore a condizione che ognuno lavi i piedi all'altro, nel duro della vita quotidiana, nella ferialità dei piccoli gesti, nel silenzio nascosto che non aspetta riconoscimenti: «non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra» (Mt 6, 3). Servire il fratello, non servirsi del fratello! Siamo nella linea del puro dono, che si sbriciola nei più comuni atti comunitari, in quelli più ordinari che vanno dal tenere pulita la casa, al creare il clima di festa in un momento di ricreazione, dall'essere creativi nell'animare la preghiera comunitaria, al comunicare per primi la propria esperienza durante un incontro. Dire servizio è dire qualcosa di concreto, di fattivo, che costa. Viene immediatamente alla mente la mamma che non si risparmia, che si dona dalla mattina alla sera come fosse la cosa più normale del mondo. Anche ai figli, anche al marito sembra un atteggiamento normale, quasi fosse un servizio loro dovuto. E così che si ama, anche nella comunità, dove ognuno è chiamato a essere madre dell'altro in un costante e reale servizio quotidiano e concreto. Il servizio non pretende, non è un do ut des; è una gratuita sollecitudine per l'altro, per la comunità. Il servo, lo schiavo, svolgono il loro compito perché costretti dalla necessità o dalla sorte. Il cristiano serve, sull'esempio di Cristo, non perché costretto, ma perché spinto e motivato dall'amore.

Un secondo aspetto dell'amore è quello dell'accoglienza che porta ad accettare l'altro e ad immedesimarsi con lui, fino a far proprie le sue ansietà, i suoi dolori, le sue gioie, le sue preoccupazioni, i suoi successi. L'amore è dimentico di sé e tutto proteso verso l'altro. L'altro va accolto e amato così come è, non come vorremmo che fosse. Occorre rinunciare alla tentazione di volere l'altro a propria immagine e somiglianza o secondo i propri gusti. Si tratta piuttosto di saper gioire della diversità, della ricchezza della complementarità dei doni, così come ci hanno insegnato i fondatori delle comunità richiamandosi all'immagine paolina dell'unico corpo e delle differenti membra.

Per capire l'altro e accoglierlo nella sua individualità, come un dono, occorre entrare nel suo stesso mondo interiore e vedere con i suoi occhi, sentire con i suoi sentimenti, condividere la sua stessa vita condividere tutto di lui. È l'invito di Paolo a farsi greco con i greci giudeo con i giudei, debole con i deboli, l'invito a farsi tutto a tutti (cf. 1 Cor 9,19-23). È gioire con chi gioisce e piangere con chi piange e avere i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri (cf. Rm 12, 5). Si tratta, anche in questo, di una dimensione tipicamente pasquale. Sulla croce Gesù ha portato all'estremo il «farsi tutto a tutti~>, condividendo tutto di noi: Lui che non conosceva peccato, si è fatto peccato per noi (cf. 2 Cor 5, 21), ha provato la nostra separazione dal Padre (cf. Mc 15, 34), si è sottoposto alla nostra stessa morte (cf. Fil 2, 6-8). La nostra condivisione, sul modello di quella di Cristo, non è data da un semplice sentire-con, ma da un reale «portare i pesi gli uni degli altri» (cf. Gal 6, 2).

Accogliere significa non pretendere, avere pazienza, «ricorrere a compromesso provvisorio pur di non rompere il cammino comune» convinti che è meglio il meno perfetto in unità che il più perfetto in disunità. Significa saper attendere l'altro quando ha un ritmo di maturazione più lento del nostro o quando non cresce con la speditezza che noi vorremmo imporre al cammino comunitario.

Accogliere significa anche saper amare col cuore. L'amore per il fratello non è infatti un amore platonico. Pietro invita ad amarci gli uni gli altri «sinceramente come fratelli», «intensamente, di vero cuore» (1 Pt 1, 22). Un amore intero, capace di rendere «partecipi delle gioie e dei dolori degli altri» e di essere animati «da affetto fraterno» (1 Pt 38-9). L'amore tra membri di una stessa comunità religiosa non può esprimersi in un rapporto spersonalizzato di rarefatta cortesia. Il dono di sé e la sequela di Cristo non mortificano l'affettività, la fanno piuttosto sbocciare nella sua pienezza, purificata dalle ambiguità e dagli egoismi, avvalorando tutte le doti della persona.

Accogliere implica ancora capacità di ascolto, perché l'altro possa sentirsi capito fino in fondo. L'amore sa farsi silenzio e ascolto. Sapere ascoltare non è facile. Mentre l'altro parla verrebbe spesso la tentazione di interrompere perché si è già capito, oppure si pensa alla risposta da dare o a quello che dovremo dire quando sarà il nostro turno di parlare. Sapere ascoltare è invece capacità di silenzio, di vuoto interiore, di ricettività che è tutta amore. Solo così l'altro potrà sentirsi accolto pienamente e potrà esprimere fino in fondo le proprie esigenze esporre i dubbi o i progetti. La capacità di ascolto è la più elementare e la più alta forma di maieutica. Ed è anche uno dei doni più belli che si possa fare all'altro. In una comunità occorre saper perdere tempo per ascoltare. Accogliere vuol dire anche lasciarsi accogliere, poiché amare significa saper lasciarsi amare.

Un terzo atteggiamento tipico dell'amore che troviamo ancora una volta nel mistero pasquale quale luogo di spiegazione dell'amore, è quello della gratuità. Siamo infatti figli di un Padre che ha amato per primo (cf. 1 Gv 4, 19). «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. (...) Quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo» (Rm 5, 8-10). L'amore prende sempre per primo l'iniziativa d'amare, sull'esempio dell'agape divina. In una comunità occorre che qualcuno si muova per primo, ami per primo, decida di ricominciare i rapporti quando si fossero incrinati, senza pretendere nulla dagli altri. Per amare non si può aspettare che sia l'altro ad amare. Il primo passo spetta sempre a ciascuno di noi! Si potrebbe parafrasare 1 Gv 4, 10 e dire: in questo sta l'amore: non sono gli altri ad amare noi, ma noi ad amare gli altri.

Questa è forse la forma d'amore più pura, perché la più disinteressata. E un amore che non cerca se stesso, ma unicamente il bene dell'altro; un amore che non pone condizioni previe: «ti amo se...», ma che ama perché tale è la natura dell'amore. E un amore che sa subire anche l'eventuale incomprensione all'interno della comunità, forse persino l'ingiuria o la derisione. Chi ha capito il valore della koinonia, tutto tenta per conseguirla e ha di mira solo l'edificazione comune, non il proprio interesse; guarda all'altro, non a se stesso. La tentazione, nella vita comunitaria, è infatti quella di esigere di essere amati, di aspettare che sia l'altro a risolvere le situazioni, di pretendere che sia l'altro a muovere il primo passo per ricostruire i rapporti quando fossero stati compromessi. L'amore invece ama gratuitamente, ama per primo, senza pretesa alcuna. Trova nell'amore stesso la motivazione del suo amare.

Un ulteriore tratto dell'amore indispensabile per la costruzione della comunità è l'universalità. L'amore ama tutti, senza esclusioni o preferenze. Tutti! È una parola più volte ripetuta da Gesù proprio nel contesto dell'evento pasquale: «Io quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me» (Gv 12, 32). «Padre... che tutti siano una cosa sola» (Gv 17, 21). Il religioso dovrà esercitarsi nel servire, accogliere, amare gratuitamente ciascuno dei propri fratelli di comunità, a prescindere dalle inevitabili preferenze o antipatie.

L'amore, ancora, è pieno di sollecitudine, di attenzione per l'altro. È benevolo, ossia vuole il bene dell'altro, si interessa all'altro come a se stesso, in tutte le manifestazioni della sua vita: dalla salute fisica alla sua santificazione. A Dio che chiederà conto degli altri membri della comunità, domandando: «dov'è tuo fratello?», non si potrà rispondere: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gn 4, 9). Sì, siamo proprio noi i custodi dei nostri fratelli e delle nostre sorelle. Proprio perché membri dello stesso Corpo, non possiamo prescindere dal fratello neppure per il cammino di santità.

GLI STRUMENTI PEDAGOGICI PER LA VITA DI UNITÀ

Questi e altri simili atteggiamenti dell'amore sono fondamentali per la nascita e lo sviluppo di ogni forma di comunione. La comunione esige infatti che ognuno sia capace di amare concretamente, a fatti, per primo, pronto sempre a ricominciare. Esige che ognuno viva nell'amore, senza dipendenze. Se ci si appoggia l'uno all'altro, quando cade l'uno cade anche l'altro! Occorre piuttosto, nella vita comunitaria, che quando uno cade l'altro sia pronto a sostenerlo e rialzarlo. La piena comunione presuppone l'identità e maturità di ciascuno così come, contemporaneamente, la vita di comunione consente a ciascuno di maturare nella propria personalità.

Tuttavia, questi aspetti dell'amore, così come li abbiamo fin qui enunciati, a rigore non costituiscono ancora la vita di unità. La comunità nasce solo quando l'amore è reciproco, ossia quando l'amore che ognuno offre all'altro è corrisposto e l'amore risponde all'amore. La koinonia trinitaria è infatti reciprocità d'amore. Se l'amore di una delle divine Persone non fosse corrisposto dalle altre, non vi sarebbe l'Uni-Trinità. Similmente, Gesù ha espresso il comandamento nuovo non con la regola aurea del non fare all'altro ciò che non si vuole fatto a noi, o con l'invito ad amare l'altro come se stesso. Il comandamento nuovo implica la reciprocità: amatevi l'un l'altro. Perché la comunità religiosa sia comunità cristiana, deve necessariamente vivere il comandamento nuovo: l'amore da cui è animata deve essere reciproco.

La reciprocità dell'amore, al pari dell'esercizio dell'amore di cui abbiamo appena parlato, esige un suo cammino e particolari strumenti.

Credo che anzitutto occorra dichiararsi esplicitamente l'un l'altro la comune volontà di camminare insieme alla sequela dell'identico Maestro. Spesso lo supponiamo per il fatto di trovarci tutti nella stessa comunità. Tuttavia, a volte si rischia di affidarci a delle semplici supposizioni, con la possibilità di illudersi. Una certa timidità o pudore nei riguardi delle cose soprannaturali, il rispetto umano, l'educazione al riserbo per la vita interiore impediscono spesso di ricordarci il perché del nostro vivere assieme. Si può rischiare di camminare dietro lo stesso Maestro per anni e anni, nella stessa comunità, senza mai essersi scambiati una parola su questo nostro cammino.

Quando hanno iniziato la vita comune, i fondatori e i loro compagni si sono esplicitamente accordati su un comune cammino di sequela. Anche i membri di una comunità, come seguaci dei fondatori, sono chiamati a manifestarsi l'un l'altro la comune volontà di sequela. Occorre dirsi e ridirsi il comune progetto che a tutti e ad ognuno è stato comunicato dallo Spirito, così da approfondire insieme tale vocazione, approfittando soprattutto di momenti particolari quali i ritiri, gli incontri comunitari, i tempi di preghiera, ma forse anche determinati momenti di distensione vissuti assieme. Bisogna imparare a guardarsi e dirsi con semplicità e verità: «Stiamo camminando insieme con la stessa Persona. Condividiamo lo stesso ideale. Viviamo per la stessa causa. Insieme vogliamo attuare il comando di Gesù: non possiamo infatti viverlo da soli, perché per amarsi l'un l'altro è necessario e l'uno e l'altro, siamo necessari tutti e due, anzi indispensabili. Allora io ti amo come Cristo ti ha amato. Anch'io, risponde l'altro - ed ecco la reciprocità -, ti amo come Cristo ti ha amato».

Quali sono, possiamo ora chiederci, gli strumenti pedagogici per tenere sempre vivo questo amore reciproco e quindi l'unità, così da avere sempre viva e palpabile la presenza del Signore nella comunità?

In linea con quanto abbiamo appena detto, la comunione delle proprie esperienze è uno di questi elementi fondamentali. Si tratta di riuscire a donare quanto Dio va operando dentro e attorno a ciascuno di noi: i passi avanti fatti, i frutti dell'apostolato, come pure i dubbi, le difficoltà. Niente è nostro e tutto va comunicato perché tutto circoli. Siamo invitati dalla Parola di Dio a mettere a servizio degli altri i propri doni con generosità (cf. 1 Pt 4, 10). «Poiché tra fratelli non ci si sceglie, ma ci si accetta, non c'è vera fraternità se non si accetta di entrare nella vita del nostro fratello e se non si consente a lui di entrare nella nostra. Senza questa comunione di vita, la fraternità rimarrà soltanto un'indicazione di appartenenza genealogica, senza interesse per nessuno» .

Una persistente tradizione spirituale, per avvalorare l'atteggiamento di riserbo riguardo alle realtà della vita interiore, continua a citare un testo del libro di Tobia in cui si dice che è bene tenere nascoste le cose del re. Tuttavia, queste parole, nello stile letterario ebraico, sono solo un rafforzativo della seconda parte del versetto, sistematicamente e inspiegabilmente passato sotto silenzio, che invita invece a comunicare i doni ricevuti: «È bene nascondere il segreto del re, ma è cosa gloriosa rivelare e manifestare le opere di Dio» (Tb 12, 7).

Vanno eliminate false concezioni che confondono comunione di esperienze con esibizionismo, sfogo, sterile parlare di sé. Per comprendere con esattezza e profondità il senso della comunione del proprio cammino spirituale e delle esperienze di vita evangelica, occorrerebbe guardare al Padre che dice il Verbo, a Maria che canta il Magnificat, a Paolo che si apre costantemente con i destinatari delle sue lettere. Maria sa narrare le grandi cose fatte in lei dall'Onnipotente. Paolo comunica tutto di sé: la conversione, il cammino di apostolo, perfino le esperienze più profonde, come il rapimento al terzo cielo, il rapporto mistico con Cristo, ma anche le angosce che lo attanagliano al pensiero del suo popolo che non accetta la rivelazione di Cristo, oppure le proprie debolezze, le prove, la spina nella carne. Paolo invita poi i suoi fedeli a fare altrettanto, in vista dell'aiuto e dell'edificazione reciproca: «Tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti» (2 Cor 13, 11); «ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza» (Col 3,16). La lettera agli Ebrei non è meno esplicita: «Cerchiamo di stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone (...) esortandoci a vicenda» (Eb 10, 24-25).

La comunione favorisce il raggiungimento di quell'unità d'anima e di pensiero a cui Paolo invita le sue comunità. Dai suoi fedeli egli esige un solo pensiero, i medesimi sentimenti, l'accordo, la concordia, la comunanza di spirito (cf. Fil 1, 27; 2, 2; 4, 2; 2 Cor 13, 11; 12, 16, 15,5). «Pensare la stessa cosa non significa che i cristiani debbono avere tutti le stesse idee, le stesse opinioni. Lo vediamo bene in Rm 15, 5-6, dove Paolo non chiede ai "forti" o ai "deboli" di rinunciare ai loro modi di vedere, ma di fare in modo che tale legittima pluralità non nuocia all'unità profonda degli spiriti, che risulta dal fatto di condividere una sola fede» . Sarà comunque importante riuscire a capire l'altro fino in fondo, rendendosi conto della sua logica interiore, delle motivazioni che lo spingono ad agire in un determinato modo. A ciò si può pervenire solo attraverso una profonda reciproca apertura.

Quando questo avviene, si può constatare un reciproco arricchimento di tutti i membri della comunità che godono della ricchezza della complementarità dei modi di vedere, come anche delle differenti sensibilità. La complementarità è avvertita anche nella molteplicità dei doni che ognuno apporta al vivere comune. Questo, fra l'altro, fa scomparire gelosie e invidie perché ognuno è portato a godere del bene dell'altro, nella convinzione che, proprio in forza della comunione gli appartiene come proprio. L'altro non è più visto come antagonista se il suo dono è partecipato. Ci si libera così dei piccoli compensi che ogni uomo porta con sé, verso un'apertura serena all'altro fino alla piena libertà interiore.

La comunione elimina il sospetto e il giudizio negativo. Il fatto di non sentirsi giudicati e valutati in base agli eventuali sbagli, favorisce la comunione. Ciò è possibile solo nella misura in cui vi è un clima di semplicità e sincerità. Occorre la reciproca fiducia. Si rivela qui indispensabile un ulteriore elemento: il perdono reciproco. Occorre mettere in preventivo gli sbagli dell'altro e quindi essere pronti, secondo la norma data da Gesù alla sua comunità, a perdonare settanta volte sette (cf. Mt 10, 21). Il perdono implica anche la rinuncia a imbrigliare l'altro in propri schemi rigidi. L'amore crede nella possibilità di rinnovarsi dell'altro, spera nella sua risurrezione, perché l'amore «tutto copre, tutto crede, tutto spera» (1 Cor 13, 7), ridona fiducia.

La capacità di vedere ogni giorno con occhi nuovi - di cui parlavamo precedentemente, con quello sguardo di fede che fa scorgere nella persona accanto un figlio di Dio, nasce sulla base di questo reciproco perdono. «Non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4, 26) è un imperativo che tutta la comunità deve far suo. Ognuno deve poter contare sul perdono degli altri. Quando nella comunità circola la reciprocità del perdono, viene consentito ai singoli membri di esprimersi con naturalezza e spontaneità. L'amore non giudica. Il fatto stesso di ricominciare una giornata sapendo che non si è valutati in base allo sbaglio di ieri infonde in ognuno nuovo slancio e una nuova speranza. La persona, non sentendosi giudicata, può muoversi liberamente, acquista maggiore fiducia in sé, perché sa che se anche sbaglia non verrà additata e ostracizzata. La comunità anzi incoraggia, apprezza e ognuno può fiorire pienamente, secondo la propria personalità: tutto il contrario dell'uniformità e dell'appiattimento.

L'atteggiamento di mutua misericordia non va confuso con un irenismo in cerca del quieto vivere, frutto del tacito compromesso oppure originato dal timore di risvegliare la suscettibilità dell'altro e quindi dal timore della conflittualità. «Nei conventi - è stato scritto - i membri possono non confrontarsi a certe verità, e per risparmiarsi a vicenda si sceglie spesso la via del silenzio complice, del compromesso o di una "prudenza" e "mansuetudine" ambigue» 6, Comunione di esperienza e mutua accoglienza nella misericordia vanno allora integrate con un terzo strumento pedagogico, indispensabile stimolo al dinamismo di crescita: il confronto sia personale che comunitario.

Il confronto personale, sotto forma di colloquio, di guida o direzione spirituale, è una componente acquisita del cammino spirituale. Esso continua a conservare un'estrema importanza perché vi si ritrova la dinamica di unità a cui prima si accennava, con i frutti di luce tipici della presenza di Gesù tra persone unite nel suo nome. Nel colloquio personale, a differenza della comunione tra tutti i membri della comunità, si possono condividere determinate prove o momenti particolari del cammino spirituale che non è opportuno comunicare a tutti. A questo livello è più facile rimuovere difficoltà, verificare l'itinerario interiore, confrontarsi a fondo sullo stato della vita spirituale.

La tradizione ci offre anche un confronto comunitario, con il Capitolo delle colpe o strutture analoghe. Oggi c'è forse bisogno di una struttura più ampia e articolata. Tutta la comunità, ad esempio, sotto la guida sapiente del responsabile, in tempi stabiliti e con modalità adeguate, può compiere un'opera serena e positiva di verifica su ciascun membro per metterne in evidenza luci e ombre. Vengono così rilevati gli eventuali aspetti negativi delle persone e insieme si suggeriscono o si cercano le vie di soluzione. Ugualmente, si evidenziano gli aspetti positivi perché siano incrementati. Non invita forse Paolo ad ammaestrarci e ammonirci l'un l'altro con ogni sapienza (cf. Col 3, 16)? Si tratta di reinventare gli strumenti della correzione fraterna e del sostegno reciproco. Siamo infatti chiamati a cercare ognuno il bene dell'altro, ad aver cura dell'altro come di sé. L'esercizio dell'amore vicendevole richiede la capacità di spronarci a una costante tensione alla santità senza acconsentire ad accomodamenti o soste o rilassamenti. Quando nella comunità l'amore reciproco raggiunge questa concretezza, il cammino formativo è assicurato.

Allora la comunità, seguendo l'invito di Paolo («Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno»: Rm 12,10), si rivelerà una vera comunità di fratelli. La comunità religiosa deve giungere a rispecchiare la vita di una famiglia dove ci si ama «sinceramente come fratelli», «intensamente, di vero cuore», gli uni gli altri. Si tratta però di una famiglia tutta particolare, unita non da motivi umani, ma da legami soprannaturali, «essendo stati generati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna» (1 Pt 1, 22-23) 7.

Possiamo così accogliere l'esortazione della lettera di Pietro: «E finalmente siate tutti concordi, partecipi delle gioie e dei dolori degli altri, animati da affetto fraterno, misericordiosi, umili; non rispondete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma, al contrario, rispondete benedicendo» (1 Pt 3, 8-9).

LA MISURA DELL'AMORE

La reciprocità dell'amore, lo abbiamo già intravisto, richiede la radicalità dell'amore. L'amore nella comunità deve possedere la misura di quello di Cristo: implica il dono completo di sé che giunge fino a dare la vita. Se Gesù ci ha amato fino alla morte, «anche noi dobbiamo dare la nostra vita per i fratelli» (1 Gv 3, 16). La koinonia è un'utopia se non è formata da persone che sanno innalzarsi per esser uno.

Qui dobbiamo trarre tutte le conseguenze del concetto di persona, che è se stessa (enstasi) nell'estasi verso l'altro. «La perfezione della persona - ha scritto Losskij - consiste nell'abbandono. (...) In quanto se stessa, la persona si esprime nella rinunzia all'essere per se stessa» 8, Per comprendere a fondo la persona, sappiamo che dobbiamo risalire fino alla Trinità e trarre le conseguenze della sua dinamica di vita, che è tutta nella capacità che le Persone hanno di non-essere nel dono, come estasi d'amore.

Gesù, nel suo mistero di abbandono sulla croce e di morte, ha rivelato la dinamica trinitaria dell'amore mostrando la radicalità dell'amore. Lì egli si espropria di tutto nella massima generosità. Il suo mistero di annientamento è mistero di donazione. Il suo è un amore oblativo, dono totale. Cristo è pane dato, sangue versato: «prendete e mangiate, questo è il mio corpo dato per voi»; «prendete e bevete, questo è il mio sangue che viene sparso per voi». Nel suo mistero di croce, anticipato nell'Eucaristia, si inabissa nel non-essere perdonare interamente il suo essere. Continua così il gesto d'amore oblativo del Padre: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3, 16).

L'amore è quindi dono di sé. E uscire da sé per entrare nell'altro, per vivere sempre più nell'amato. L'amore, direbbe Giovanni, si riconosce proprio da questo offrire sé all'amato: «Abbiamo conosciuto l'amore» per il fatto che il Figlio «ha dato la sua vita per noi» (1 Gv 3,16). Percorrendo questa via, Cristo ha creato il popolo nuovo. Egli diventa allora modello per quanti vogliono costruire l'unità con i fratelli.

Alla luce del mistero del suo abbandono e della sua morte in croce, gli stessi voti religiosi acquistano tutta la loro valenza comunitaria. In una comunità religiosa, la castità consacrata è indispensabile per entrare in comunione con gli altri e mantenere l'unità. Essa infatti consente di amare con amore vero, con un cuore puro e intero. Per essa il cuore è purificato dalla bramosia di possedere l'altro e di appropriarsene, come pure di restringere e limitare l'amore. Lo dilata piuttosto a tutti. La purificazione del cuore per una libertà dell'amore, a volte, potrà essere percepita come un autentico morire, una concreta attuazione dell'evangelico «odiare la propria vita» (Gv 12, 25), perché giunge fino a togliere una propria famiglia naturale: «madre, moglie, figli, fratelli, sorelle» (Lc 14, 26), quale via necessaria per la costituzione della comunità in nuova famiglia che non nasce da carne o da sangue, ma da volere di Dio. Gesù sulla croce mostra tutta la radicalità di questo cammino. Egli non si appoggia su alcun aiuto umano, né spirituale, né divino. I discepoli lo hanno lasciato. Stacca da sé la madre dandola a Giovanni. Anche il Padre sembra abbandonarlo. Ecco il modello per chi deve purificare il cuore così da raggiungere un amore dall'abbraccio universale.

Al pari della castità consacrata, la povertà è condizione indispensabile per la vita di comunità. Essa, come atto d'amore, è insieme vuoto di sé e dono di sé che si esprime nel porre in comune i beni materiali e spirituali che la persona possiede. Quando si è ricchi di se stessi, non si può incontrare veramente l'altro. Per amare un altro fratello occorre farsi talmente povero di spirito da non possedere se non amore. E l'amore è vuoto di sé. Perché l'amore sia concreto, fino alla condivisione estrema di tutto quanto si ha e si è, occorre un distacco effettivo ed affettivo da tutto, che si concretizza nel dono sincero e radicale di beni e doti. Gesù sulla croce ci insegna il più assoluto distacco da tutto. È il modello perfetto del povero di spirito. Si spoglia di tutto e dona corpo, sangue, anima, divinità: modello di chi è chiamato al dono estremo di sé, nella piena condivisione di quanto possiede.

Perché nella comunità l'unità sia perfetta occorre, infine, il dono del proprio sentire, dei progetti, del proprio volere, perché assieme si possa raggiungere il volere stesso di Dio che tutti unifica. E il cammino dell'obbedienza che è pronta a rinunciare alla propria volontà per sposare in pieno quella di Dio. Gesù sulla croce accetta e compie il volere del Padre in piena docilità, anche se questo significa spegnere ogni luce, anche se gli costa la vita. Ed è modello di quanti devono vivere l'obbedienza fino a superare la prova dell'assurdità o della mancanza di rapporto con i superiori.

Il cammino verso la koinonia, iniziato in una metanoia che si esprime nella diakonia, deve così passare attraverso la kenosls 9. Seguendo il cammino percorso dal suo Maestro, la comunità non può sottrarsi alla elementare legge evangelica: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (Mt 16, 25). Nelle spiritualità prevalentemente individuali, questa legge evangelica ha dato origine a molte forme di ascesi, quali il silenzio, il ritiro nella solitudine, la penitenza, le veglie, i digiuni... In una spiritualità comunitaria, essa può offrire un'altra gamma di forme ascetiche che nascono dall'esercizio dell'amore reciproco. Nella reciprocità dell'amore, l'uno deve fare spazio all'altro, in un vuoto che è annullamento di sé perché tutto è stato donato in forma estrema e radicale. Si tratta di annullamento di sé per accogliere l'altro con i suoi desideri e i suoi pensieri, i suoi dolori e le sue gioie; di svuotamento che è effetto del dono di sé al fratello ed è disponibilità ricettiva del fratello; di dimenticarsi frutto dell'essere attento all'altro Senza il morire l'uno per l'altro, senza il dar la vita l'uno per l'altro, non può esserci comunione.

Se la struttura del comandamento nuovo ha in sé il sigillo della morte, essa ne possiede pure il frutto, che è appunto la vita nuova, l'unità, la presenza pneumatica del Signore risorto. Si muore a noi stessi per dare vita al Risorto in mezzo alla comunità. Si muore alla molteplicità per dare vita all'unità, e così ritrovare la distinzione e la ricchezza della diversità.

Ancora una volta, si verifica la realtà del come in cielo così in terra. Perché Dio è Uno ed è amore, è Trinità. Perché nella comunità si è consumati in uno, ognuno ritrova la propria intima personalità. Perché si è perduta la propria personalità per rivestirsi, nell'unità, di quella di Cristo, Cristo si riveste della personalità del religioso, fa proprie tutte le componenti della sua persona ora purificata e si esprime con la sua sensibilità, le sue doti, la sua affettività, la sua creatività, le sue ricchezze interiori.

La comunità si propone così come scuola di specializzazione per il perfezionamento della carità, il crogiuolo in cui l'anima si purifica e l'uomo spirituale si affina fino alla piena conformazione a Cristo crocifisso, nella sua massima espressione di amore. Forse, niente meglio del lavorio interiore provocato dal vivere l'amore scambievole può far giungere alla più profonda esperienza di Cristo e far dire con verità: «Non conosco che Cristo e questi crocifisso» (1 Cor 2, 2). Allora e solo allora si potrà dire con verità: «E noi abbiamo creduto all'amore» (1 Gv 4,16).