Beati gli afflitti,
perché saranno consolati
(Mt.5,4)

Parlare dell’amore di Dio quando tutto va bene è molto facile. I nostri sensi si guardano intorno, riscoprono la creazione e dicono "grazie Signore!"

Ringraziare Dio che mi fa incontrare un amico o la persona amata è facile, anche se non tutti arrivano a questo.

Rimanere nell’amore di Dio quando tutto l’orizzonte si annuvola e il temporale della sofferenza si scatena intorno a noi, è davvero difficile.

"Beati gli afflitti" sembra essere un grido nella notte di ogni uomo, un momento in cui la luce della fede e la forza della speranza illuminano l’angoscia di chi si confronta con il proprio limite di creatura e cerca una risposta ai suoi perché. L’unica speranza è sentire dentro di noi quelle parole pronunciate da Gesù, che possono placare la nostra sofferenza: "saranno consolati".

 

Tante lacrime sono registrate nella Bibbia. Mi limito ad alcune citazioni dei Salmi:

"Per il pianto si consumano i miei occhi" (31,7)

"Ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio" (6,7)"

"Le lacrime sono il mio pane giorno e notte" (?,?)

"Fiumi di lacrime mi scendono dagli occhi

perché non osservano la tua legge" (118,136)

Stupenda soprattutto questa espressione:

"Le mie lacrime nell’otre tuo raccogli; non sono forse scritte nel tuo libro?" (56,9)

Due immagini suggestive per dire che nessuna lacrima va perduta, Dio le custodisce tutte, anche le più segrete, come un tesoro prezioso.

 

Gesù non ha esitato a piangere in determinate circostanze.

Ricordiamo il suo atteggiamento dinanzi al sepolcro dell’amico Lazzaro: "...Gesù scoppio in pianto " (Gv.11,33-35).

E poi il pianto su Gerusalemme: "Quando fu vicino, alla vista della città pianse su di essa " (Lc.19,41).

Particolare rilievo assumono queste espressioni della Lettera agli Ebrei: "Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte ... " (Eb.5,7). Cristo non affronta la morte come un eroe imperturbabile, ma si abbandona alla debolezza delle lacrime.

Più volte il Vangelo ci presenta Gesù sconvolto, e perfino sdegnato, di fronte alla malattia e al dolore degli uomini. Quindi l’immagine che ne viene fuori non è certo quella di un personaggio impassibile, che invita alla compostezza.

Agli occhi di Gesù lamentarsi e piangere non è affatto qualcosa di sconveniente o di incompatibile con la fede.

Il dolore e il pianto sono più che giustificati, anche in una prospettiva cristiana. Prendiamo il caso di uno che è nell’afflizione per la morte di una persona cara. Manifesta il proprio dolore prima di tutto perché è a una creatura è stata sottratta la vita. Ma anche perché viene tolto qualcosa pure alla propria vita, che risulta così irrimediabilmente impoverita.

Si piange (o si dovrebbe piangere) per i peccati. Propri e altrui.

La beatitudine evangelica riguarda anche questo tipo di lacrime. Ricordiamo a tale proposito, le lacrime della donna peccatrice (Lc.7,38), espressione sia di pentimento che di amore. In quella scena assistiamo a una stupefacente "liturgia delle lacrime", che non ha nulla di banalmente "lacrimoso".

Un cristiano, poi, non può rimanere indifferente, non sentirsi turbato, di fronte al male che vede presente e perfino imperversante nel mondo. Non può non sentirsi amareggiato per il rifiuto che molti oppongono al Vangelo, e per il modo con cui lo vivono (meglio, non lo vivono) coloro che pur dicono di averlo accolto.

"Possono forse gli invitati a nozze affliggersi (Mc. e Lc. hanno digiunare) mentre lo sposo è con loro?"

Questa beatitudine allora si applica in modo particolare a coloro che si affliggono del fatto che, nelle nostre società, il Cristo e Dio fanno la figura dei grandi assenti. Possiamo anche dire: quelli che si affliggono che il nostro mondo sia così poco aperto ai valori spirituali, ai valori del Regno.

C’è anche uno sconvolgimento profondo per le ingiustizie di cui sono regolarmente vittime i deboli, i piccoli, gli ultimi. In questo senso la beatitudine si apparenta a quella degli affamati e assetati per causa della giustizia (5,6).

Il credente scorge la possibilità di un mondo nuovo, ma avverte anche i ritardi, l’assenza, il silenzio inquietante di Dio. E ne soffre intimamente.

Francesco versa lacrime copiose "perché l’Amore non è amato". L’elenco potrebbe continuare ... Quanti genitori, oggi, si sentono amareggiati perché constatano che i loro figli voltano le spalle a una certa visione dell’esistenza, e calpestano disinvoltamente quei valori che essi si sono sforzati di inculcare loro. Si crucciano di fronte al fallimento della loro opera educativa.

 

Gli afflitti, coloro che piangono

Matteo, mentre nella prima beatitudine specifica: poveri in spirito, qui riporta una sola parola: gli afflitti, coloro che si lamentano, che sono tristi.. Luca, nel suo linguaggio più espressivo e meno tradizionale, dice: "quelli che piangono".

Sembra dunque che il Signore non abbia voluto far molta distinzione fra lacrime e lacrime, quasi a dirci che ogni specie di dolore ci può aprire il regno dei cieli, perché il Messia è venuto a "consolare tutti gli afflitti" (Is.61,2).

A stagliare ancora più nettamente la categoria degli afflitti vi è poi in Luca l’antitesi della maledizione: "Guai a voi che ora ridete, perché sarete nel dolore e nel pianto" (Lc.6,25). Gli ulteriori avvenimenti e gli altri discorsi di Gesù ci spiegheranno quali nuove insospettate dimensioni abbiano il dolore e la consolazione.

 

Saranno consolati

"Perché saranno consolati". Tutto il Vangelo è un annuncio di consolazione. Il vero consolatore è lui solo: Gesù. Le guarigioni dei ciechi e dei lebbrosi, la risurrezione di Lazzaro e quella di Naim, tutte e ognuna le parole dette da Gesù sono, in sé stesse, fonte di consolazione, perché sono sempre accompagnate da una prova sia concreta e esterna, che intima e spirituale, del suo amore verso gli uomini. E quando sta per morire, prevedendo le ore di angoscia e di tristezza che passeranno i suoi, riprende il tema della beatitudine e promette loro che non li lascerà orfani, che la loro tristezza sarà mutata in gaudio, come quella della donna che sta per dare alla luce un figlio (Gv.16,21).

Ma gli avvenimenti che si susseguiranno dopo l’ultima cena non sembrano contraddire a tutto il Vangelo e in particolare alla promessa delle beatitudini?

Gesù è piombato in un abisso di pene quali nessun uomo ha mai provato, né mai proverà. Ha vissuto l’assenza della consolazione, come aveva detto il salmista: "Ho atteso compassione, ma invano, consolatori, ma non ne ho trovati" (Sal.69,31).

Perché tutto questo? E quale relazione v’è con le promesse del discorso delle beatitudini? La risposta ce la dà S. Paolo, il quale, interprete e imitatore di Gesù, ci assicura che, attraverso una prova terribile come la morte, ha scoperto la consolazione che scaturisce dalla stessa desolazione, quando è unita alla sofferenze del Cristo (2Cor.1,8 ss.).

Gesù si è fatto perciò "assenza di consolazione" perché tutti gli afflitti siano in lui consolati.

La vita umana non sarà più una alternativa tra dolore e gioia; sarà piuttosto una coesistenza, un nuovo composto di questi due elementi umani. Gli afflitti, quelli che piangono, uniti al Cristo sofferente, sperimentano un inizio della beatitudine celeste fin da questa vita, e la loro consolazione porta i segni delle ferite. L’Agnello, ci dice l’Apocalisse, sta in mezzo al trono, ma "come sgozzato" (Ap.5,6).

Il cristiano, altro Cristo, regna con lui nella gioia perché è passato e passa continuamente per l’afflizione, è consolato con Cristo, perché con lui è stato tribolato.

 

Un altro consolatore - presenza materna dello Spirito

Gesù, durante il pasto d’addio, assicura: "Io pregherò il Padre, ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi sempre ..." (Gv.14,16). Teniamo presente che si tratta della prima domanda rivolta dal Figlio al Padre che viene portata a nostra conoscenza. Gesù chiede qualcosa che sia come il risultato della sua missione: che qualcuno rimanga presso gli uomini per sempre, e non solo occasionalmente o a intermittenza.

Lui ha fatto delle esperienze mentre stava sulla terra. Ora, il primo dato ricavato da tale esperienza è questo: l’uomo non può vivere senza un consolatore. Cristo si mostra preoccupato per il futuro dei propri amici. Non vuole che soffrano la solitudine, si sentano abbandonati, si dibattano nello sconforto. Perciò dopo essere rimasto in mezzo a noi assicurando la sua presenza "di consolazione", promette che, non appena farà ritorno al Padre, gli presenterà la lista delle cose più urgenti di cui abbiamo bisogno. Sarà una specie di "rapporto" (rapporto sulle nostre povertà), e verrà stilato, non in base alle nostre richieste e denunce (di certe necessità neppure ci rendiamo conto), ma verrà ricavato dalla sua osservazione diretta.

Con la sua preghiera, Cristo intende risparmiarci la prova, che ai suoi occhi appare disumana. Non può, ovviamente, dispensarci dalla sofferenza, dalla croce (non l’ha risparmiata neppure alla propria Madre). Ma chiede al Padre che l’esperienza amara del dolore sia sempre accompagnata dalla consolazione. Comunque, secondo Gesù, risulta impossibile vivere sulla terra senza una presenza consolatrice. Morire nella fede è facile e difficile al tempo stesso. Ma morire nell’abbandono è atroce.

Consolazione, dunque, come espressione di speranza, antidoto contro la disperazione, lo sconforto, lo smarrimento.

Per riferirci ancora alla beatitudine evangelica, bisogna considerare che si tratta di una beatitudine al femminile. Nella nostra cultura, il pianto è cosa di donne e bambini. L’uomo, il maschio, deve mostrarsi forte, razionale (specialmente quando non viene toccato nella propria pelle), non può permettersi queste debolezze (semmai se ne concede numerose altre, assai poco nobili). Gesù, invece, come abbiamo già rilevato, dichiara felici coloro che non sono insensibili e impassibili, duri, e che esprimono nel pianto il loro attaccamento a una vita minacciata, il loro turbamento per una vita perduta.

Il Dio consolatore è un Dio femminile. Il libro dell’Apocalisse ci presenta Dio che, con un gesto tipicamente materno, asciuga le lacrime dai nostri occhi (21,4; cfr. Anche Is.25,8), per cui noi saremo degli eterni consolati.

La consolazione, in senso attivo, è presenza femminile, sensibilità e tenerezza femminili. Non dimentichiamo che lo Spirito (ruah), nella lingua ebraica, è femminile., e svolgendo il suo ruolo di Consolatore compie un’azione tipicamente femminile.

 

La consolatrice consolata - Consolati per consolare

Particolarmente adatta alla Madre, perciò, è quell’invocazione contenuta nelle Litanie, in cui la imploriamo quale "Consolatrice degli afflitti".

Il santuario simbolico della nostra città di Torino è la Consolata ("la Cunsulà", come si dice in piemontese). Si vuole sottolineare il fatto che la Madonna è stata consolata da Dio. E proprio perché ha sperimentato personalmente la consolazione da parte di Dio, Maria è grado a sua volta di dare consolazione.

S. Paolo ci fa intravedere di questa beatitudine, la dimensione sociale. Il conforto divino nei dolori non è dato al singolo per il singolo, ma "il Dio di ogni consolazione ci consola in ogni nostra afflizione, affinché anche noi, per mezzo di quella consolazione che riceviamo da Dio, possiamo consolare gli altri che si trovano in qualsiasi genere di afflizioni" (2 Cor.1, 3 ss).

Qui, come negli Atti degli Apostoli, la beatitudine è passata sul piano ecclesiale, è vissuta dalla Chiesa. L’esperienza della consolazione è un elemento che contraddistingue la prima comunità cristiana, la quale "in tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria aveva pace ... ed era piena della consolazione dello Spirito Santo" (Atti 9,31). Nelle persecuzioni e nelle vessazioni di ogni sorta, la Chiesa riceve dallo Spirito Santo la consolazione promessa e, mediante questa, consola i sofferenti di ogni tempo. È anzi un segno inconfondibile della consolazione che viene da Dio, che essa trabocchi, per la carità, in consolazione per i fratelli.

Ciascuno di noi qui sulla terra può rivivere la funzione materna di Maria, immagine della Chiesa, se riversando sugli altri la consolazione che trae dall’amore alla croce, contribuisce a costruire la Chiesa, che è anticipo delle Gerusalemme Celeste, "tenda di Dio fra gli uomini", dove "asciugherà ogni lacrima dai loro occhi" (Ap.21,3).

 

La consolazione dell'amicizia

Questa beatitudine può essere applicata a un aspetto fondamentale della vita di ogni persona: l’amicizia. Perché una delle consolazioni più grandi è avere degli amici. E anche perché l’amicizia tradita è motivo di grande afflizione.

Nella storia della salvezza il vero amico per eccellenza dell’uomo è Dio. Fin dalla creazione vediamo scene d’autentica amicizia: "Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza, maschio e femmina li creò" (Gn.1,27). E li stabilì subito nella sua amicizia.

La nostra società ha generato un po’ di confusione riguardo all’amicizia e a tanti altri valori. Truppe di giovani ogni sabato sera si incontrano e parlano di amicizia vivendo questa dimensione a volte come sinonimo di "insieme", di aggregazione.

L’importanza di un amico o di un’amica con cui condividere la nostra vita è alla base di ogni sereno sviluppo sia personale che sociale.

Un pensiero di Confrico per aiutare a capire meglio: "Ci sono tre amicizie che tornano di vantaggio tre a detrimento: l’amicizia con i sinceri, con i costanti, con gli esperti sono amicizie vantaggiose; l’amicizia con i falsi, con gli adulatori, con i chiacchieroni sono amicizie dannose".

L’esperienza meravigliosa della reciprocità è quella che in ogni cuore viene desiderata. Il poter condividere la propria vita, le proprie idee in ogni evento, forma un nuovo individuo. Aristotele sintetizza questa profondità dicendo: "L’amicizia è una sola anima in due corpi".

La superficialità uccide l’amicizia svuotando di contenuto ogni rapporto, la calunnia e il tradimento gridano la parola fine di ogni amicizia e di ogni amore.

Anche il signore Gesù ha bevuto il calice amaro del tradimento di uno dei suoi amici più cari: Giuda.

Fortunatamente Gesù sulla croce ha vinto il male, anche se è apparso sconfitto.

L’amicizia che sgorga da lui produce ruscelli di acqua fresca che inondano l’umanità che si muove nel deserto.

La sintesi del programma di amore di Gesù ne è la conferma: "Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici".

"Nella vita non vi è che un modo per essere felici: vivere per gli altri" (L. Tolstoi)

Per interiorizzare

Fiducia nella storia.

Il primo fondamento della nostra fiducia nella storia
è la fede nella Provvidenza di Dio
e nel suo amore.
La sua mano onnipotente e misericordiosa
sostiene, invisibile, lo svolgersi del tempo
dal primo giorno della sua creazione.
Anche quando il male si diffonde
e sembra prevalere, non è lecito disperare.
Se la storia ci appare nel suo aspetto sinistro
come luogo di sofferenza, di disgrazie,
di sconfitte e di morte,
ricordiamoci che la Scrittura
ci assicura ripetutamente che verrà il giorno
in cui Dio asciugherà le lacrime su ogni volto.
                                            Giovanni Paolo

Inno alla vita

La vita è un dono meraviglioso di Dio
e nessuno ne è padrone.
L’aborto e l’eutanasia sono tremendi crimini
contro la dignità dell’uomo,
la droga è rinuncia irresponsabile
alla bellezza della vita,
la pornografia è impoverimento
e inaridimento del cuore.
La malattia e la sofferenza non sono castighi
ma occasioni per entrare nel cuore del mistero dell’uomo;
nel malato, nell’handicappato,
nel bambino e nell’anziano,
nell’adolescente e nel giovane,
nell’adulto e in ogni persona, brilla l’immagine di Dio.
La vita è un dono delicato, degno di rispetto assoluto:
Dio non guarda all’apparenza ma al cuore;
la via segnata dalla croce e dalla sofferenza
merita ancora più attenzione, cura e tenerezza.
Ecco la vera giovinezza: è fuoco che separa
le scorie del male e della bellezza
e della dignità delle cose e delle persone;
è fuoco che riscalda di entusiasmo l’aridità del mondo;
è fuoco d’amore che infonde fiducia ed invita alla gioia.
                                                          Giovanni Paolo II

La storia di Tina

L’8 settembre del 1986 le Missionarie di Carità aprirono il Dono della Pace (una casa per malati di aids) a Washington. Si tratta d’una delle sette comunità per malati di aids dirette dalle Figlie di Madre Teresa di Calcutta negli Stati Uniti. In queste case, le sorelle prodigano cure e conforto a coloro che sono afflitti da questa malattia ad esito mortale. Una Sorella mi ha fatto partecipe della storia di Tina, una giovane vittima dell’aids. Ne riassumo qui di seguito la storia.

Tina è la prima ragazza che abbiamo avuto nella nostra casa Dino della Pace. Arrivò da noi il giorno dei S. Innocenti, il 28 dicembre; mancava poco al suo nono compleanno. Entrambi i genitori erano tossicodipendenti. Tina andava molto orgogliosa di sua madre, ch’era solita venire a farle visita di domenica pomeriggio, e diceva alle nostre Sorelle: "Oggi c’è la mia mamma".

Tutto il corpo di Tina andò coprendosi di piaghe, ma lei distesa nel suo lettino cantava spesso:

"Gesù mi ama, io lo so È la Bibbia a dirmelo. I piccoli son suoi. Son deboli, ma è forte Lui. Sì, Gesù mi ama".

Allorché la malattia di Tina andò peggiorando, quasi non la si poteva toccare, perché ogni contatto le causava terribili sofferenze. Era una bimba affettuosa, ch’era capace di chiederti: "Sorella, posso darti un bacio?".

Meditammo su Tina come vittima; Tina condannata fin dagli albori della sua coscienza a una morte per aids; le mani di Tina, fatte per il gioco, costrette dai lacci del peccato d’un mondo adulto che non aveva conosciuto; Tina, crocifissa sul suo lettino, assetata, nell’ultima sua ora, desiderosa d’una tazza d’acqua fresca, Tina che rendeva la sua anima a Dio all’età di nove anni.

Dio ci ha dato la grazia di far la conoscenza con Tina e di soffrire con lei. Gesù, perché ci ama così tanto, ha voluto che vedessimo Tina, non come una bimba sventurata, ma che vedessimo la gloria di Dio rivelata in lei. Potevamo scorgere in lei Gesù, il santo Innocente., Gesù l’Agnello sacrificale, Gesù trasfigurato in gloria.

La Madonna, che vide il sangue prezioso di Gesù zampillare al suolo, vide la gloria di Gesù nell’istante prezioso nel quale gli altri non scorgevano che tristezza e disperazione. Ella può esserci di guida nel mantenerci fedeli quando saremmo tentati di fuggire dai piedi della croce, dal povero e dal sofferente che ci stanno dinanzi.

La leggenda di Sorella Clara

A proposito della necessità di una legittimazione a svolgere il ruolo di consolatore, nello stile e nello spirito della relativa beatitudine evangelica, vorrei riferire un racconto leggendario (le leggende, si sa, sono assai più vicine alla realtà di tante pagine di storia "documentata").

Dunque, c’era un antico monastero in Normandia, retto da una badessa di grande sapienza. Più di cento monache pregavano, lavoravano, e servivano il Signore conducendo una vita austera, nel silenzio e nell’osservanza più rigorosa (il che non guasterebbe neppure oggi).

Un giorno, il vescovo del luogo si presentò alla porta del monastero per chiedere alla badessa di destinare una delle monache alla predicazione nel suo territorio, che aveva urgente bisogno di essere rievangelizzato. La badessa riunì il Consiglio e , dopo avere ascoltato i vari pareri espressi da religiose di lungo corso e naturalmente dopo matura riflessione, decise di preparare per tale missione la sorella Clara, una giovane novizia assai promettente, equipaggiata di virtù, intelligenza e numerose qualità.

Sorella Clara trascorse parecchi anni nella biblioteca del convento, decifrando vecchi codici e impadronendosi di tutti i segreti della scienza. Venne messa alla scuola di anziani monaci e monache di altri conventi.

Quando ebbe terminati gli studi, conosceva i classici, era in grado di leggere le Scritture nelle lingue originali, aveva la massima familiarità con la patristica e la tradizione teologica medioevale. Diede anche una pubblica dimostrazione del suo sapere predicando in refettorio sulle "processioni" infratrinitarie, e lasciando tutte le consorelle, anche le più scettiche ed esigenti, sbalordite per la sua erudizione.

Si presentò davanti alla badessa e, ponendosi in ginocchio, domando: "Posso andare, ora , reverenda Madre?".

La risposta fu: "Non ancora, figlia mia, non ancora ..."

Sorella Clara venne mandata nell’orto, dove lavorò duro per svariate stagioni, da mattino a sera, con qualsiasi tempo, sperimentando il gelo e il caldo torrido. Le sue mani delicate ben presto apparvero decorate di calli. Liberò il terreno dai rovi e sassi. Imparò a coltivare la vigna. Osservò il crescere delle sementi, lo sviluppo dei germogli. Sapeva riconoscere ormai, con occhio sicuro, il momento della potatura degli alberi. Insomma, acquistò un altro tipo di sapienza, legato alla terra.

Ma anche dopo questa e numerose altre esperienze, la Madre rimaneva ferma nel suo diniego:

"Non è ancora tempo, figlia mia ...".

Si aggregò a una sbrindellata famiglia di saltimbanchi, conducendo la loro stessa esistenza randagia. Girava per i paesi su una carretta sgangherata, trascinata da un asinello strapelato, allestiva sulle piazze il palco per lo spettacolo. Sovente dormiva all’aperto, sotto le stelle.

Condusse anche vita eremitica sul monte, e tornò trasfigurata dal silenzio e dalla contemplazione.

Ogni volta si intrecciava la solita litania:

"Posso andare a predicare , Madre?".

"Non ancora, figlia mia. Non è ancora venuto il momento".

Si scatenò una terribile epidemia nel paese. Sorella Clara venne mandata a curare gli appestati. Vegliò intere notti al capezzale di malati, provvide con le sue stesse mani a seppellire i numerosi cadaveri.

Lei stessa, quando ormai la pestilenza stava regredendo, crollò per sfinitezza. Venne anche colpita da una grave forma di depressione, che in certi momenti rasentava la disperazione, a motivo soprattutto degli spettacoli atroci cui aveva dovuto assistere in quei mesi. Dovette essere curata presso una famiglia del villaggio. Imparò cosa vuol dire debolezza, sentirsi piccoli e dover dipendere tutto dagli altri.

Quando finalmente riuscì a reggersi nuovamente in piedi, rientrò in monastero, dove venne accolta a braccia aperte dalla badessa che la osservò con particolare intensità: la trovò più umana, meno sicura di sé, più vulnerabile. Era scomparsa ogni traccia di orgoglio intellettuale. Aveva un’aria serena, lo sguardo popolato di volti e il cuore pieno di nomi.

"Adesso sì, figlia mia, adesso sì!", sentenziò gravemente la Madre.

La accompagno fino al grande portone del monastero, e lì la benedisse imponendole le mani.

E mentre si sentivano i rintocchi delle campane nell’ora dell’Angelus della sera. Sorella Clara uscì per scendere nella valle ad annunciare il Santo Vangelo e le relative Beatitudini.