Beati i miti,
perché erediteranno la terra

(Mt.5,5)

 

 

RICHIESTA DI GESÙ

Una delle poche volte che Gesù si propone come maestro ("imparate da me"), è per proclamare la sua mitezza e umiltà di cuore (Mt.11,29).

Tutto il Vangelo, del resto, è pervaso da questa dolcezza di Cristo: nei confronti della folla, dei peccatori, dei bambini.

Ma è soprattutto in occasione della Passione che Gesù presenta questo comportamento sorprendente, che finisce per sconcertare i detentori del potere: davanti al sommo sacerdote, a Pilato, ad Erode, tace. Non reagisce quando diventa trastullo della soldataglia e bersaglio dei giochi più volgari. Sulla croce: "Padre, perdona loro ..." (Lc.23,34).

Dietro alla dolcezza di Gesù c’è un elemento fondamentale: un amore disarmato.

Dio appare nel Figlio e si manifesta non nella potenza, ma nella debolezza. Viene come un bambino, un mendicante, a proporci una comunione. Chiama, sollecita, invita, ma non impone. Bussa, ma non sfonda la porta. Rifiutato se ne va: basti pensare all’episodio che ha quali protagonisti gli abitanti di Gerasa, dopo che il loro branco di porci è andato alla malora (Mc.5,1-20).

"Se vuoi": questo è il suo linguaggio abituale (Mt.19,21; Lc.9,23; Lc.14,25).

Imparate da me: noi siamo gli imitatori di Cristo e Gesù ha insistito su questo punto più che sugli altri. Se siamo chiamati a testimoniare, non possiamo farlo semplicemente con la parola se poi la nostra vita non è essa stessa una predicazione. Anzi direi di più, se il nostro sguardo, il nostro volto, il nostro sorriso non è una predicazione, le nostre parole allora non avranno nessuna forza. Il ladrone sulla croce non si è convertito a partire da una parola del Cristo, ma ha cambiato totalmente la sua vita ed è entrato nel Regno dei cieli, come viene proclamato nella prima beatitudine, a partire da uno sguardo di Gesù, da un’estrema dolcezza colta in un estremo dolore. È la vita divina di Gesù, che assume la sua umanità terribilmente sollecitata, che fa sì che la sua dolcezza ha convertito il ladrone.

Essere dolci, secondo san Paolo, significa vincere il male con il bene (Rm.12,21). Il che non impedisce di chiamare il male col suo vero nome.

Non si tratta di nascondere il male, e neppure di minimizzarlo, fare finta che non esista. Lo si scopre e poi si cerca di sconfiggerlo con una forza più grande, ossia la dolcezza e la misericordia, che vengono da Dio.

 

COME SI FA AD ESSERE MITI

La mitezza comporta un insieme di qualità, è la risultante di atteggiamenti diversi, che si possono riassumere in quello chiamato abitualmente "dominio di sé".

La dolcezza, oltre che la forza, presuppone la libertà. I miti sono beati perché liberi da tutto ciò che non è essenziale.

Troppe persone si mostrano violente perché si fermano a cose marginali, si attestano alla superficie delle cose, alla crosta, alle apparenze. I miti vanno più lontano, si spingono più in profondità.

La mitezza presuppone un certo distacco, una distanza, una valutazione esatta, lucida, dei valori, delle cose, degli avvenimenti, delle persone. Ed è proprio questo che li distingue dagli individui chiusi in se stessi, nei propri schemi, nei propri interessi, nei propri punti di vista.

La mitezza presuppone una certa magnanimità: "... A chi vuol portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a camminare per un miglio, tu fanne due con lui" (Mt.5,40-41).

Ci vuole lungimiranza. Il problema cui si confronta il mite è: dove sta l’essenziale.

Chi guarda solo all’immediato non potrà mai essere mite. La mitezza è come un itinerario da percorrere verso la terra promessa. Si passerà il deserto e l’incerto, si attraverseranno le notti oscure e sembrerà che l’alba sia lontana.

Il mite, forse, non potrà godere del risultato bramato. Proprio come Mosè, che si consumò per la causa del popolo, ma non entrò con il popolo nello spazio della promessa.

C’è veramente da domandarsi spesso, all’interno delle esperienze di tentazione sulla linea della violenza: per chi lavoriamo anzitutto? Per noi stessi o per la causa, che avrà i passi lunghi della conquista della libertà?

Il mite è proiettato al di là delle strettoie del presente. È l’esperto del futuro. È l’uomo della speranza.

L’avidità del tutto e subito, tipica del consumismo materialistico, è la tentazione sottile, quando ci si impegna sui sentieri stretti della mitezza. La fretta (patologia mentale prima che organizzativa) dell’uomo d’oggi è un miraggio di successo. Si tratta di scegliere tra successo a tutti i costi ed efficacia autentica. "La firma di Dio non si chiama successo", ammonisce Jacques Maritain. Il successo sa di effimero. L’efficacia è incisione perdurante.

Gesù di Nazareth, inchiodato sulla croce in quel mezzogiorno di tenebra, se avesse voluto osservare i risultati immediati, avrebbe dovuto rinunciare al suo progetto di mitezza per la salvezza, facendo accorrere miriadi di angeli per sterminare i malvagi. Vi accennò lui stesso, nell’orto della cattura: "Credi che io non possa pregare il Padre mio che mandi subito in mia difesa più di dodici legioni di angeli?" (Mt.26,53). Egli resta, invece, nell’atteggiamento dell’agnello immolato, mansueto e immobilizzato sul legno.

"Padre, io so che tu sai questo e mi basta": è la preghiera di ogni discepolo che si sia incamminato sugli impervi ma, a lungo andare, unicamente fecondi campi, seminati a mitezza. Ed è tanto più forte nell’ora della tentazione di abbandonarli, abbandonandosi alla logica della violenza che è più immediatamente appagante.

Quando il discepolo cede, è perché la sua carne debole non ha resistito, con il cuore del fanciullo fiducioso nella parola del Maestro: Beato sarai tu, se sarai mite. Vedrai, ti darò la terra promessa. Fidati di me: conquisterai i cuori. Sarai vincitore.

Come sempre, qui in maniera privilegiata si avvera la sua Parola che "il chicco di frumento se non marcisce non fiorisce" (Gv.12,24). E dice anche che chi perde la vita nel suo nome, la ritrova. Chi invece la conserva, con le logiche del possesso anziché del dono, la perde (cfr. Lc.17,33).

Un’altra caratteristica dell’autentico mite: l’altruismo. Il mite non è ripiegato su stesso. Non è rinunciatario per comodo. È invece colui che ha messo la sua vita in regime di esodo. E varca le frontiere del suo "particolare" e del suo tempo, per disporre le arcate della civiltà a venire, di cui forse non potrà fruire. L’importante è collaborare alla loro costruzione.

Il mite è un proiettato al di là di sé. E solo così costruisce il vero sé. La crescita dell’uomo segue sempre la legge del boomerang, nel male e poi nel bene. Io mi faccio uomo nella misura in cui aiuto l’altro a farsi uomo. Domenico Savio, in un colloquio con Don Bosco, traduceva immaginificamente il messaggio del maestro sulla santità con al centro l’amore, in questi termini: "Ho capito: devo essere come il frutto maturo, che ha il nocciolo dentro e la polpa fuori. Devo essere duro con me stesso, tenero con gli altri". Il giovane discepolo aveva appreso, alla scuola del Vangelo, che la mitezza è il frutto di un patto interiore: essere esigenti con se stessi per essere dolci con gli altri. E così, poterli nutrire della polpa carica di vitamine, maturata al sole di Dio.

La dolcezza va praticata, prima di tutto, con se stessi. Bisogna che impariamo ad accettarci, a trattarci con pazienza, così come Dio ci accetta e ci tratta con infinita pazienza. Non dobbiamo irrigidirci neppure dinanzi ai nostri limiti, ma riconoscere la nostra vulnerabilità.

E poi la mitezza va esercitata nei confronti degli altri. A imitazione del Padre che fa sorgere il sole e cadere la pioggia sui buoni e sui cattivi. La dolcezza sopprime le barriere, favorisce i contatti. Rende accoglienti (anche delle idee, dei punti di vista altrui).

 

LE RADICI

Tentiamo di scoprire la radice dell’atteggiamento della mitezza. Sta nel riconoscimento della sacralità di ogni essere: nel vedere, al di là delle apparenze, l’orma di Dio in ogni creatura.

Senza una religiosità di base, non è possibile la mitezza. Ci può essere, al limite, solo la tranquillità temperamentale che, lasciata a se stessa, si presenta passiva ed inerte.

Così Gandhi, grazie alla sua coscienza sostanziata di religiosità, si è proposto come segno di una dolcezza forte e di una mitezza dinamica, capace di trasformare una massa colonizzata in un popolo che si è messo in marcia.

Prima ancora, Francesco d’Assisi è stato il cantore del creato, nella sua indefinita policromia di spiegamento. Si è avvicinato a fratello Sole, a sorella Luna, a frate Focu, a sora Acqua, a frate Lupo, a sora Pecora, con il rispetto di chi ha scoperto l’orma del passaggio della creazione. Egli sentiva il caldo del gesto creatore in ogni creatura. Era come se la vedesse uscire in quel momento dalle mani di Dio e recare ancora l’alito della sua potenza. Davanti all’uomo, poi, Francesco si poneva in venerazione nello spirito, perché vi respirava il profumo della figliolanza divina e della connaturalità con il suo bene-amato Signore della vita. L’incanto di Francesco, il credente, non era il tratto dell’ingenuo, ma lo stupore dell’innamorato. Egli era un uomo carico di meraviglia.

Ora, se la mitezza comporta necessariamente il rispetto sacrale di ogni essere e se questo esige il dono esercitato dello stupore, dunque la radice della mitezza si trova nella capacità dello stupore.

Ancora, esso include l’esperienza della bellezza, la familiarità con questo secondo nome di Dio e di ogni creatura di Dio. Dio è bellezza infinita. "Bellezza sempre antica e sempre nuova", così la chiama sant’Agostino. Essa si riflette in ogni sua orma. Si condensa in ogni sua immagine. Si comunica a ogni suo figlio.

Il mondo oggi è così piatto, pur moltiplicando continuamente tanti surrogati di bellezza, proprio perché vanno diminuendo i livelli dello stupore. E, perciò, della speranza. Dostoevskij avverte che "solo la bellezza salverà il mondo".

L’esperienza della bellezza suscita lo stupore come vibrazione profonda. E questo alimenta la mitezza, questo rispetto di tutto quello che esiste. Solo il mite è il vero ecologista.

Attenzione il carattere non c’entra. Non bisogna considerare la dolcezza come un dato di carattere o di temperamento. Qualcosa, insomma, che uno possiede o non possiede a seconda dei propri cromosomi o del DNA che si ritrova. No. La mitezza è una conquista, non un patrimonio acquisito.

Basterà un esempio. Mosè, in occasione del contrasto con il fratello Aronne e la sorella Myriam, viene presentato così: "Era molto più mansueto di ogni uomo che è sulla terra" (Nm.12,3).

Ora noi sappiamo che Mosè ha iniziato la sua carriera con un assassinio. Alla vista di un’ingiustizia palese, gli era montato il sangue alla testa, e non aveva esitato ad accoppare il prepotente: "... Vide un Egiziano che colpiva un Ebreo, uno dei suoi fratelli. Voltatosi attorno e visto che non c’era nessuno, colpì a morte l’Egiziano e lo seppellì nella sabbia" (Es.2,11-12). Quindi Mosè era tutt’altro che mansueto di natura. Come temperamento era impulsivo, irascibile, manesco, violento.

Come dire che non si nasce miti. Si diventa tali.

Gesù, il Messia, pur essendo re, giunge sotto vesti umili e dimesse, "mansueto e seduto sopra un’asina e un asinello" (Mt.21,5), secondo la profezia.

Ed è proprio dal discorso sul monte che, dopo l’annuncio delle Beatitudini, con la liquidazione del vecchio detto "occhio per occhio, dente per dente", nasce, per così dire, la mitezza cristiana, la virtù che ci insegna a dominare l’ira, trasformando il sentimento del rancore e della vendetta in un atteggiamento forte e calmo di rispetto degli altri.

Ad evitare subito gli equivoci sul significato di questa mitezza evangelica, bisogna ricordare che Gesù ha usato la sferza contro i venditori del tempio e ha pronunciato dei terribili "guai", che fanno fremere i farisei di ogni tempo. L’"ira" di Gesù sembra contraddire alla mansuetudine, al tratto dolce e buono che egli ha sempre usato con tutti e inculcato nei suoi discepoli.

No, la mitezza è una virtù, e cioè la conquista, l’imbrigliamento di una passione, è "ira trasformata" e tutta convertita in dolcezza e affabilità. E quando la causa di Dio e della salvezza delle anime lo richiede, si verifica quella che, con termine moderno, potremmo chiamare l’"esplosione controllata" di un potenziale umano, a fini pacifici e soprannaturali. Lo zelo che divora le anime dei santi, come quella di Gesù, scoppia a volte in rimproveri violenti. Ma queste manifestazioni di forza portano con sé una tale carica di dolcezza, da colpire senza fare del male, senza quel timbro di violenza e quell’acredine caratteristica di chi riprende per un impulso puramente umano o addirittura irrazionale.

Gesù non è venuto a beatificare l’insipidezza, l’insulsaggine, o la mollezza. Il cristianesimo non svirilizza l’uomo, non gli pone una mentalità di eterno sconfitto. Il cristiano non è un essere passivo, inerte, sprovvisto di spina dorsale. La morale del Vangelo è fatta di "superamento", e perciò esige vigore.

Non può esserci, infatti, dolcezza senza forza. La dolcezza è una forza dominata. Anche se disarmata, la dolcezza resta sempre una grande forza, e presuppone una grande energia.

Dal lato opposto vi è quella che san Bernardino da Siena chiama: "mansuetudine criminale", tanto lontano dalla vera mitezza, quanto l’ira stessa. Essa è sinonimo di debolezza e di acquiescenza al male, di omertà, di paura. È comodo a volte rifugiarsi sotto il mantello di una falsa quiete, per tacere contro le ingiustizie in una distaccata indifferenza per il male che ci circonda. Tutti possiamo cadere in tale deformazione della virtù; ma, a togliere l’illusione di essere dei veri miti, basta una minima contraddizione, basta che qualcuno ci provochi o che qualcosa non ci vada a genio, per accorgersi subito, dal risentimento che ribolle dentro e che si manifesta in atti esteriori, quanto la nostra "mansuetudine" sia tutt’al più un dato costituzionale, fisico, senza alcunché di soprannaturale.

Nella virtù cristiana non v’è soltanto un nobile sforzo personale per conquistarsi l’"abito" della mitezza, ma interviene in modo particolare Dio a farci raggiungere ciò che da soli non riusciremmo mai a possedere. San Paolo infatti annovera la mansuetudine tra i frutti dello Spirito, assieme alla carità, alla gioia, alla pazienza (Gal.5,23).

In Gesù la perfezione dell’umanità e la pienezza dei doni soprannaturali non hanno creato un superuomo, ma l’essere semplice e remissivo che si è dato nelle mani di chi lo tradiva e lo maltrattava ingiustamente.

Mite nella sua infanzia sottomessa, come nella sua passione e morte, egli ci fa capire che l’intimo senso di questa mansuetudine è la totale docilità al volere del padre. Di tale umile e incondizionata sottomissione, la mitezza è l’aspetto umano, dolce e attraente per le folle di ogni tempo.

POSSEDERE LA TERRA

"Perché possederanno la terra". Possedere o, più letteralmente, ereditare la terra promessa, era un’espressione che, anche ai tempi di Gesù, risvegliava nell’animo degli ebrei, compresi gli apostoli, illusioni di dominio temporale. Ma Gesù ne definisce definitivamente il senso: il nuovo Regno non avrà dimensioni territoriali, né frontiere. Per questo egli si sottrae alle folle che vogliono farlo re.

La terra di Canaan è un’immagine della città celeste. Naturalmente, questa vita è fatta di realtà materiali, terrene ed è in questa vita, che dobbiamo conquistarci quell’altra; è di questa città terrena che dobbiamo fare l’immagine della città celeste. Il popolo nuovo che Cristo si è formato non ha perso le sue radici terrene: esso "regna sulla terra", come dice l’Apocalisse (Ap.5,10), perché gli appartiene di diritto.

Ma quale relazione vi è fra mitezza e possesso della terra? Perché proprio i mansueti erediteranno questo Regno del Messia?

Bisogna dire intanto che la beatitudine dei miti è strettamente legata a quella dei poveri. Mitezza e povertà sono, nella Scrittura, due diverse note della stessa condizione sociale e morale. Ciò che caratterizza i miti è che essi non usano la violenza, l’arroganza. Essi non sono dei "duri", come diremmo oggi, perché la loro stessa condizione li rende più socievoli e abbordabili, più alla "mano".

Questa assenza di durezza nei riguardi di Dio, della sua voce, e nei riguardi del prossimo, ci spiega già qualcosa della relazione fra mitezza e possesso della terra. Dobbiamo accogliere "con dolcezza la parola di Dio che è stata piantata in noi", dice san Giacomo (Giac.1,21). Questa docilità alla grazia, alla voce di Dio, che ci parla in mille modi, ci salva l’anima, ci assicura il possesso della terra e cioè il paradiso.

Tutti, credo, abbiamo fatto l’esperienza di come facilmente ci si indurisca alla voce di Dio, divenendo rigidi burocrati della religione, incalliti e schematici, incapaci cioè di consentire alle esigenze sempre nuove della carità.

E poiché la mansuetudine è il "fiore della carità", essa diviene, fin dai tempi apostolici, una nota dominante nei rapporti del cristiano con i suoi prossimi, persecutori o compagni di fede, superiori o sudditi. San Paolo non si stanca di raccomandarla ai Galati, agli Efesini, ai Colossesi, ai pastori di anime, che, a somiglianza di Gesù, non devono spadroneggiare o riprendere con durezza, "ma essere mansueti con tutti ... e correggere con dolcezza gli avversari, nella speranza che Dio conceda loro il pentimento per giungere alla conoscenza della verità" (2Tim.2,24).

San Francesco di Sales, il santo della dolcezza e della carità, che aveva convertito migliaia di uomini ostili alla Chiesa, ripeteva spesso che "si prendono più mosche con un cucchiaio di miele che con cento barili di aceto".

Poi, dietro le anime, vengono anche i beni di questo mondo, perché sono il "centuplo" promesso in questa vita a chi cerca solo il Regno di Dio. Ma la diffusione del suo Regno non avviene mediante la violenza degli argomenti o delle armi, e neanche per l’abbondanza di mezzi umani di apostolato. I primi secoli del cristianesimo ne sono una conferma. E, senza andare tanto lontano, basti ricordare l’esempio di Papa Giovanni XXIII. La sua bontà, il suo tratto affabile e cordiale, in una parola, la sua mitezza evangelica hanno conquistato il mondo cristiano e non cristiano. Un’eco particolare della mansuetudine di Gesù è giunta, attraverso di lui, fino agli estremi confini della terra, a dimostrare l’enorme forza apostolica che è racchiusa in questa virtù.

Miti, dice sant’Agostino, sono coloro che non resistono con la cattiveria, ma vincono il male con la bontà. E la vittoria è proprio qui: la conquista del mondo a Cristo, l’espansione del Regno di Dio che è la Chiesa.

Di che terra si tratta? La prima beatitudine dice che il Regno dei cieli appartiene ai poveri. E bisogna notare come il Regno dei cieli sia disceso un poco, come vi sia una parte del Regno dei cieli che è sulla terra e che è nostro compito manifestare. I santi rivelano che il Regno dei cieli è già sulla terra, laddove tutto il mondo non vede che problemi, che bruttezza. I santi invece vivono nella gioia e la comunicano agli altri ristabilendo così la sovranità dell’uomo sul mondo animale e su quello vegetale. È per questo che si vedono dei santi dare ordini ai lupi, per esempio. I santi esercitano un certo potere sul mondo creato per il fatto che essi restaurano questa sovranità. Dire che avremo in possesso la terra è dire che ci sarà di nuovo reso ciò che abbiamo perduto a causa del peccato.

Padre Nazareno Fabbretti confessava: "Facevo fatica ad ammettere che i miti possedessero la terra. Poi è venuto un Papa di nome Giovanni e ho dovuto convincermi che la beatitudine era vera".

Concludiamo con le parole di un Salmo:

"I miti invece possederanno la terra
e godranno di una grande pace"

(Sal.37,11)