Il Padre e i due figli.

Leggere Luca 15, 11-32

MEDITAZIONE:

Questa parabola è senza dubbio la più importante delle tre: si tratta di un racconto di rara bellezza letteraria e di ancor più rara densità teologica. È anche la più articolata e ricca di tratti descrittivi, tuttavia non c’è un solo particolare superfluo. Purtroppo noi ci illudiamo di conoscere e capire bene questa parabola, col rischio di eccessiva superficialità. È necessario rileggerla parola per parola, senza fretta, attardandoci su tutti i particolari.

"Un uomo aveva due figli ....." E non sono per nulla rassomiglianti: uno irrequieto, scavezzacollo, sbandato, l’altro tutto casa e lavoro, sgobbone, ubbidiente (almeno all’apparenza) e un po’ frustrato. Questo padre non riesce a fare due figli perfettamente uguali, non opera in serie. Ciascuno è un esemplare unico, irrepetibile, mai visto prima. Ognuno di noi esiste davanti al padre con il proprio volto, il proprio nome, i propri lineamenti, le proprie differenze. Ciascuno è amato dal Padre di un amore unico, totale.

"Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta ....". Al figlio minore spetta un terzo dei beni, al figlio maggiore il doppio. Molti giovani lasciavano la Palestina ed emigravano. Al tempo dei Gesù gran parte degli ebrei viveva nella diaspora. Molti ascoltatori sicuramente avevano sperimentato il dramma di quel padre che vedeva il figlio partire.

Ma nella parabola c’è qualcosa di più doloroso: il figlio parte non perché ha bisogno di lavoro, ma perché desidera una vita indipendente.

Il vero peccato del figlio non è l’aver chiesto la propria parte di eredità, ma il pensare che la casa paterna sia come una prigione, la presenza del padre mortificante e l’allontanamento una libertà. L’amore non gli basta, non lo soddisfa., non sa che farsene, vuole la "roba", l’amore non gli interessa. È avido d’avere, possedere, consumare, godere. Rifiuta la comunione e sceglie la fuga.

E noi desideriamo sapere perché, ma il figlio non fornisce alcuna giustificazione alle sue pretese. Difficile spiegare l’assurdità di certe scelte.

"E il padre divise tra loro le sostanze...... " Senza dire una parola. Il silenzio del padre è il silenzio dell’amore, rispettoso della libertà del figlio. Accetta il rischio di questa libertà. Senza libertà non c’è amore.

Noi ci domandiamo: perché non l’ha trattenuto? La vera paternità è discrezione, non va confusa con il paternalismo.

Osserva Arturo Paoli: "nel contesto del Vangelo Dio non appare come il padre che spranga le porte perché i figli non escano di notte, ma la luce illuminante, la misteriosa bussola che orienta l’uomo nelle sue scelte, che non l’abbandona nell’esercizio rischioso della libertà, e che crea nuove prospettive di liberazione. Il padre può aiutare solo essendo un modello......"

"Dopo non molti giorni il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto.....". Tutto si svolge in pochi giorni, giusto il tempo di convertire le terre e le altre sostanze in liquidità.

La parabola non precisa quale fosse questo paese lontano. Per il ragazzo deve essere stato il mondo dei suoi sogni. Diventa comunque il luogo della dissolutezza e conseguente sperpero dell’eredità.

La perdita dell’avere determina, in chi punta tutto esclusivamente sull’avere, la perdita dell’essere, il declino della persona stessa.

Il peccato è allontanamento, si scava una distanza in rapporto a Dio, agli altri ( i compagni di gozzoviglie non fanno che accentuare la solitudine ) in rapporto a se stessi. Peccare significa allontanarsi dal proprio essere più vero, non tanto l’infrazione di una norma del codice quanto un farsi del male, rovinarsi.

Peccare è anche sperperare i doni di Dio. Ci ha dato la terra da custodire e coltivare e noi ne facciamo un immondezzaio: deturpiamo, ingiuriamo, bruciamo, saccheggiamo ogni cosa. Nelle nostre mani i doni più belli si degradano. Per non parlare degli altri beni, come per esempio l’interiorità. Preferiamo vivere all’esterno, alla ricerca sempre di nuove emozioni.

"Quando ebbe speso tutto in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci."

Il figlio è costretto ad accettare il mestiere maggiormente spregiato dagli ebrei a motivo del rapporto con animali considerati "impuri". In pratica è costretto a rinnegare anche la propria religione. Dunque il massimo dell’abiezione. E così ciò che è frutto di un lungo amore viene sperperato in breve tempo. Svaniscono i sogni , l’illusione cede il posto alla più amara delusione.

Quello che sembrava un cammino trionfale di liberazione diventa una sosta nella terra della schiavitù. Volevi affermarti ad ogni costo, rivendicando la tua autonomia assoluta e sei andato incontro al più clamoroso fallimento.

"Avrebbe voluto saziarsi con le ghiande che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava....."

Il ragazzo ha veramente toccato il fondo: contendere il cibo ai porci. Da notare quel drammatico nessuno gliene dava. È l’espressione oltre che della solitudine più sconfortante anche della totale mancanza di solidarietà.

"Allora rientrò in se stesso e disse: quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza ed io qui muoio di fame. Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: ho peccato contro il cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni.....".

Il primo pensiero non va tanto al padre, ma ai servi. Non si riconosce più come figlio, si sente inesorabilmente declassato.

"Rientrò in se stesso". È stato portato fuori di sé dal piacere sfrenato, adesso la fame lo porta a rientrare in sé. Il viaggio più lungo non è quello compiuto per tornare a casa, ma quello di rientrare in se stesso, riflettere, riconoscere i propri errori. Diventa cosciente che quella strada non porta da nessuna parte, che quanto più si allontana, tanto più si ritrova schiavo. Con onestà riconosce: mi sono illuso, ho sbagliato strada, non ho soltanto sprecato i beni ricevuti, sto sprecando al vita stessa.

Convertirsi significa prima di tutto riconoscere la propria fame vera. Certo il prodigo, almeno nel suo primo momento, non può essere considerato un modello perfetto di pentimento. Rimpiange semplicemente il pane, paragonandosi alla condizione dei servi di suo padre. Tuttavia si riconosce colpevole.

Bisogna riconoscere che qui si inserisce un elemento nuovo rispetto alle parabole precedenti: la pecora e la dracma smarrite apparivano esclusivamente come oggetto di ricerca, svolgendo un ruolo passivo, si sono limitate a "lasciarsi trovare". Qui il ragazzo assume l’iniziativa, diventa soggetto, anche se non protagonista principale della vicenda.

Tuttavia occorre anche tenere presente che anche il padre agisce: almeno a livello di ricordo, e quindi anche il padre svolge un ruolo essenziale nel recupero del figlio.

"Partì e si incamminò verso suo padre......"

Il Vangelo non dice che ha imboccato la strada verso casa, ma verso "qualcuno", che sta al centro della casa. Viene in mente Pietro, tentato di andarsene, provocato in questo senso da Gesù stesso: "Signore da chi andremo?" (Gv.6,68). non "dove?" ma "da chi?".

Prima aveva considerato il padre come colui che gli impediva di essere libero. Ora intuisce che il padre è il garante della sua libertà, fautore della sua maturazione, che può essere se stesso soltanto nella misura in cui è in comunione con lui.

"Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro...."

Ci troviamo veramente al cuore della parabola, la figura del padre ritorna in primo piano.

"Lo vide .....". Non è azzardato affermare che l’ha visto, prima ancora che con gli occhi, col cuore.

"Commosso...". È un sentimento materno, sofferenza e amore al tempo stesso. Non sarebbe azzardato neppure pensare ai dolori del parto. Qui il padre dà di nuovo alla luce, attraverso l’accoglienza e il perdono, il figlio, lo restituisce alla vita (Era morto...).

Nel Vangelo di Luca i verbo commuoversi (= essere preso nelle viscere) sta sempre in relazione al vedere (Lc.7,13; 10,33). Quasi ad indicare che non può esserci un vedere distaccato, indifferente. Se uno vede bene, necessariamente prova una stretta al cuore.

Chi vede? Non un peccatore, un ingrato, uno che l’ha offeso. Vede esclusivamente il figlio.

"Gli corse incontro.....". È indubbiamente il tratto più umano della parabola. Questo padre che si precipita. Avrebbe potuto limitarsi a vedere, essere sicuro del ritorno e poi aspettare che il prodigo si presenti, magari per rifargli una solenne paternale.

No, questa corsa del padre proprio non ce la saremmo aspettata. Va oltre qualsiasi previsione ragionevole. È pazzo, devono avere esclamato i suoi servi. E poco diverso deve essere stato il primo pensiero del figlio vedendosi piombare addosso, con tanta foga, il padre.

Sembra che il padre sia rimasto semplicemente in casa ad aspettare e invece ha camminato più il padre che il figlio. L’amore non si rassegna alla distanza, alla separazione: è una realtà dinamica, non si identifica con i muri, non sta a custodire la roba oppure a far funzionare l’azienda.

I passi del perdono arrivano molto più lontano della distanza scavata dalla rottura.

"Gli si getto al collo e lo baciò....". Non dice una parola, si affida al linguaggio dei baci: quelle tenerezze più che dire perdono, dicono amore. Addirittura gratitudine: sembra che il padre, invece di dire al figlio ti perdono, gli dica grazie. Che accoglienza! L’abbraccio e i baci inchioderanno d’ora in poi il figlio alle sue responsabilità: la responsabilità di chi si sente amato, nonostante le sciocchezze commesse.

Non basta predicare la conversione. Occorre preparare il ritorno, assicurarsi che la casa risulti accogliente e che sulla mensa ci siano i frutti di amore, fiducia, rispetto.

"Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio.....". Sono le parole che ha preparato prima, anche se la frase viene troncata dal padre. Eppure quelle parole assumono qui una tonalità totalmente diversa. Si ha l’impressione che soltanto adesso siano veramente sentite, sincere, perché solo adesso il figlio è convertito.. convertito da quell’abbraccio: prima era l’esperienza della fame a farlo parlare, adesso è l’esperienza della tenerezza. La confessione nasce dal cuore ed è sollecitata dall’amore, non è determinata semplicemente dalla consapevolezza di avere infranto una legge. Io scopro il mio peccato soltanto quando mi pongo, non davanti a un codice, ma davanti all’amore di Dio. In fondo il prodigo prima piangeva sulle proprie disgrazie ora piange perché scopre di aver calpestato un amore così grande.

"Ma il padre disse ai servi: presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi.......".

Il figlio pensava di dover commuovere il padre, anche per questo aveva preparato un bel discorsetto. Ma il padre lo interrompe subito. Il figlio che si accontenterebbe di essere accolto e riparare i guasti prodotti col lavoro di garzone, scopre che il padre, più che attendere il fratello di ritorno dai campi, attendeva proprio lui, di ritorno dalle sue dissolutezze.

È la più grande, imprevedibile sorpresa: la gioia di essere atteso e che il padre non aveva mai cessato d’amarlo. Quel padre si sente padre non quando può rilasciare certificati di buona condotta, premi d’ubbidienza e di rendimento sul lavoro, ma allorché riesce ritrovare chi era perduto.

Nessun processo, neppure per concedere magari la libertà vigilata, gli arresti domiciliari, o un periodo di prova. Questo padre non tiene in serbo il castigo né il rimprovero, ma il bacio e la festa. L’unica preoccupazione del padre è quella di restituire al prodigo la dignità della sua condizione di figlio.

La triplice consegna (vestito, anello, e sandali) sta ad indicare che il figlio viene accolto con tutti gli onori e così reintegrato nell’ambito famigliare.

Il vitello grasso è quello riservato per le grandi occasioni (sarebbe l’equivalente delle nostre bottiglie di vino d’annata conservato in cantina .....).

C’è da supporre che gli invitati saranno numerosi. Il padre lungi da nascondere il figlio che potrebbe essere una macchia per l’onorabilità della famiglia, non esita ad esibirlo davanti agli amici: bisogna che tutti lo sappiano.

"Facciamo festa, perché questo figlio era morto ed tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa ...".

La rottura col padre significava morte. Ecco perché la festa che viene allestita sembra voler celebrare più che il ritorno la resurrezione del figlio.

I farisei e gli scribi, che stavano ascoltando, non riuscivano a vedere che l’indegnità del figlio. E Gesù non discute con loro della condotta del figlio. Vuole semplicemente illustrare l’amore infinito di quel padre. L’uomo può stancarsi di essere figlio e di comportarsi da figlio. Ma Dio non si stanca di essere Padre, nonostante tutte le delusioni che gli infliggono i figli.

Quando andiamo a confessarci dovremmo ricordare che riceviamo un dono smisurato da parte di Dio ( il figlio che ritorna non ottiene più delle cose. Quelle le ha già avute e le ha dilapidate. Riceve, oltre ai segni della dignità recuperata, anche una notificazione di festa).

Ma dovremmo anche convincerci che restituiamo a Dio qualcosa di cui l’avevamo defraudato, qualcosa che lui attende: la nostra comunione con lui.

Non è esatto dire che portiamo a Dio i nostri peccati. Gli riportiamo la nostra presenza, la possibilità della festa, la possibilità di essere un padre arricchito (o almeno non impoverito) di un figlio.

"Il figlio maggiore si trovava nei campi..."

Sapevamo fin dall’inizio dell’esistenza del figlio maggiore ma finora era rimasto in ombra. Non viene registrata alcuna reazione al momento della partenza del fratello.

Adesso investito dal suono della musica interpella un servo che lo ragguaglia sull’accaduto, con un resoconto essenziale, tutto incentrato sugli atteggiamenti del padre.

"Egli si indignò e non voleva entrare...". Va su tutte le furie, ormai si sentiva l’unico erede legittimo, la sorte del fratello non gli interessava minimamente. Il maggiore pensa esclusivamente a sé (nuovi problemi di eredità, oltre che di convivenza, ingiustizia patita, frustrazione per una fedeltà che non è stata debitamente compensata). Non riesce a mettersi dalla parte del padre, capire i suoi sentimenti.

"Il padre allora uscì a pregarlo...". Potrebbe far valere la propria autorità o magari mettersi a discutere, invece non esita a pregarlo. Preferisce far appello al cuore. Non gli chiede di adeguarsi ai suoi ordini, lo supplica di entrare, ossia di partecipare alla festa, di entrare nella logica dell’amore e del perdono.

Ma il figlio attacca la litania delle proprie benemerenze e virtù. (Corrisponde perfettamente all’ideale religioso di scribi e farisei, basato su un’obbedienza cieca alla legge, scrupolosamente attenti a non trasgredire neppure uno dei suoi precetti).

Manifesta poi tutto il suo disprezzo per il fratello ("questo tuo figlio...") e il suo biasimo per la condotta del padre, accusato velatamente di premiare il vizio e ignorare la virtù.

La risposta del padre è tutta intrisa di dolcezza e affetto. "Tu sei sempre con me...". È come se dicesse: dal momento che tu hai tutto in comune con me, perché non accetti di avere in comune anche la mia gioia, i miei sentimenti, la mia accoglienza?

Il padre oltre non transigere sulla necessità della festa, ristabilisce le posizioni in famiglia. Lui non vuole essere il padre di un figlio e di quell’altro. È il padre di due figli, ugualmente e teneramente amati.

E quindi questi due figli devono considerarsi fratelli.

C’è un unico amore del padre e questo amore dovrebbe avvolgere tra loro anche i due fratelli. Se uno dei due si sottrae all’amore per l’altro, vuol dire che si sottrae all’amore fraterno, lo rifiuta.

Nella parabola manca la conclusione, manca il lieto fine. Ci sarà soltanto allorché si verificherà l’avvenimento sensazionale della conversione del figlio maggiore. Sì, di quello che si ritiene a posto.

Sia che ci riconosciamo in quello che se n’è andato, come nel figlio rimasto a lavorare sodo (ma senza gioia e amore) la parabola ci presenta l’esigenza della conversione. Conversione come capacità di misurare i nostri passi su quelli del Padre, meglio, sul ritmo del cuore del Padre. E di condividere la sua voglia di festa, anzi la necessità della festa.

Non è soltanto il maggiore a rimanere sulla soglia. Sono anche gli scribi e i farisei, primi destinatari della parabola. Siamo anche noi. Allora ci decidiamo a descrivere il lieto fine delle parabola, in modo che la festa bruscamente interrotta possa riprendere?

 

PROVOCAZIONI

Le fortune del prodigo

Possiamo domandarci: il prodigo è stato fortunato? Senza dubbio.

Ma la sua fortuna più grande non è stata soltanto quella di aver concluso l’avventura tra le braccia del padre.

Ha avuto un’altra fortuna colossale: quella di non essersi incontrato, sul cammino del ritorno, col fratello maggiore. Fosse incappato in lui, probabilmente il suo itinerario tormentato avrebbe avuto uno sbocco ben diverso.

Il maggiore entra in scena a cose fatte, quando la festa ormai ha perso l’avvio.

Il prodigo, sulla via del ritorno, deve guardarsi esclusivamente dalle "cattive compagnie", ma non quelle che pensiamo. La cattiva compagnia è soprattutto quella del maggiore, del mediocre e di quelli del suo club di appartenenza. Perché soltanto essa riesce a strozzare la nostalgia della casa paterna.

Se l’avessi incontrato

Che cosa avrei fatto io se avessi incontrato il prodigo?

a) Probabilmente avrei girato al largo. Avrei pensato: irrecuperabile, corrotto, la mela marcia, la rovina della famiglia .... E mi sarei guardato bene dall’accostarlo. L’uomo diventa un’astrazione quando gli appiccico sulla pelle un’etichetta, quando lo classifico. L’etichetta impedisce di vedere l’uomo nella sua realtà più autentica: un fratello.

b) Oppure l’avrei affrontato a muso duro. Avrei schiacciato il tasto della deplorazione sdegnata o delle previsioni più catastrofiche.

c) Oppure avrei tentato di convertirlo. Il prodigo cammina verso la casa, ogni tentativo maldestro di conversione può risultare una barriera, un intoppo.

Quando capiremo che noi non convertiamo nessuno, ma soltanto possiamo favorire la conversione con il dialogo rispettoso, la comprensione, l’ascolto?

d) Oppure l’avrei costretto a sostenere un esame preliminare: l’avrei preparato, mi sarei assicurato che sottoscrivesse determinate condizioni.

Ciò significa ritardare l’abbraccio del padre. Perché preoccuparsi del vestito sbrindellato, delle scarpe scalcagnate, quando a casa ci sono pronti il vestito più bello e i sandali nuovi?

e) Oppure avrei chiesto spiegazioni: perché te ne sei andato?

Non c’è da stupirsi se qualcuno avverte prepotente il bisogno di aria libera, scavalchi il muro di cinta e se ne vada. Oppure, se è già lontano, non senta nessuna voglia di rientrare. Ma la spinta decisiva gliel’ho data io.

Forse più che una pastorale su " come avvicinare i lontani", urge una pastorale "come non fabbricare i lontani".

Ci sono due parole illuminanti di Primo Mazzolari che possono servire rintracciare la soluzione della vicenda del prodigo:

"Basta essere un uomo per essere un pover’uomo". "L’uomo vale per ciò che gli manca".

E U.Vivarelli diceva: "È soltanto accettandoci come poveri che si diventa uomini".

Voglia di fraternità

È piuttosto significativo che il prodigo, nel paese lontano, venga afferrato dal ricordo nostalgico del padre e perfino dei servi, ma non faccia minimo cenno al fratello. Di lui non si ricorda, il suo pensiero non esercita alcuna attrattiva, neppure un senso di gelosia.

Chissà se nella Chiesa fra tutti quelli che se ne sono andati anche "a causa" dei fratelli, ci sarà qualcuno che ritorna perché attratto dal modo di vivere tra fratelli, incoraggiato dal cuore in festa dei fratelli che lo attendono, tormentato da una incontenibile "voglia di fraternità"?

Attenti ai modelli

La più grande disgrazia che posa toccare al prodigo sarebbe quella di diventare, a poco a poco, simile al fratello maggiore "esemplare". Certo dovrà amarlo, ma dovrà anche guardarsi bene dall’imitarlo. Singoli aspetti del suo comportamento sono tutt’altro che disprezzabili, ma è l’atteggiamento di fondo che risulta sbagliato e compromette tutto il resto. È il padre, semmai, ad essere modello.

Anowilh in un libro espone l’idea che si è fatto del giudizio universale:

I giusti stanno alla porta del Paradiso, una massa compatta di gente che ha fretta di entrare, convinta di avere un posto riservato, tesa, impaziente. A un tratto un mormorio si diffonde tra loro: "Sembra che perdoni anche gli altri!". Per un momento restano come paralizzati dalla meraviglia, muti. Poi ecco sgranare sguardi trasecolati, emanare sospiri. Sibilano nell’aria commenti acidi, proteste indignate. "Valeva la pena ...", "avessi saputo..". Esplodono in imprecazioni contro Dio e sono dannati all’istante. Il giudizio è fatto: si sono condannati, si sono scomunicati. L’amore si è manifestato in tutta la sua forza provocatrice e loro hanno rifiutato di riconoscerlo e accettarlo.

Dov’è la madre?

È stato notato che manca la figura della madre. Probabilmente ha ragione D.M. Turoldo quando sostiene che la presenza della mamma sarebbe stata fuorviante. Nel senso che il messaggio avrebbe finito per risultare falsato dal sentimentalismo di cui sono fatalmente malati tanti devoti. La madre comunque è presente, infatti Dio è padre ma anche madre. Se ci fosse stata la figura materna, accanto a quella paterna, saremmo stati indotti a pensare che Dio è "soltanto" padre.

Pare che nella Chiesa più che sull’ingrassamento dei vitelli si punti molto sull’allevamento dei capretti (titoli, onorificenze, cariche, promozioni, bottoni e frange rosse, cappelli....). le feste ormai non contemplano più il vitello ingrassato, ma il capretto. I veri figli fedeli sono quelli che non sentono alcun bisogno di capretto. Considerano la fedeltà e la fatica come premi più che sufficienti e gratificanti, per cui non hanno bisogno di altri riconoscimenti. Unico riconoscimento ambito: la letizia di servire.

Sogniamo una Chiesa che non abbia capretti da offrire, ma che, parafrasando le parole di Pietro (At.3,6) dica chiaramente a chi va a mendicare il fatidico capretto: "Non possiedo titoli e onorificenze, ma quello che ho, te lo do: nel nome di Gesù, mettiti a servire. Qui c’è un catino, un grembiule e un telo per asciugare, lasciati in eredità fin da quella lontana cena...".

Scrive D. M. Turoldo: "Nella parabola l’insegnamento più clamoroso è quello del padre, cioè di Dio. E il suo è precisamente l’insegnamento al sommo della tolleranza. O Dio, quando impareremo a sopportarci, a comprenderci: appunto a tollerarci come tu ci tolleri? Perché poi la vera tolleranza non è l’indifferenza, non è giudizio dovuto alla magnanimità tua verso il tuo fratello; quasi di uno che dica: io sono nel vero, e però mi sento tanto generoso che ti tollero, benché tu sia in errore. Vera tolleranza è di sentire tutti uguali; è sapere che la verità è sempre più grande di noi; che non siamo noi i possessori della verità; tolleranza è ammettere che anche il fratello ha una sua verità; senza con questo cedere a nessun relativismo; solo che tutti e due siamo in movimento, in condizione dinamica, in cammino verso la verità."

 

LE NOSTRE PAROLE: Condivisione di pensieri ed esperienze

(ascoltandoci intravediamo degli elementi di novità nella trama spesso ripetitiva della nostra esperienza quotidiana e la comunicazione di esperienze di Parola vissuta trasforma sempre qualcosa in noi e attorno a noi)

Oltre alle tante provocazioni chiediamoci:

ð La nostra cultura è accogliente?

ð Cosa vuol dire accogliere?

ð Concretamente riesco ad odiare il peccato, ma ad amare il peccatore?

 

PAROLA CHE SI FA VITA..........

Una suora antipatica

Chissà quante volte ci è capitato di incontrare o dover stare vicino a persone che ci sono immediatamente antipatiche. Ci sembra che, per essere veri, si debba manifestare loro la nostra antipatia...... e però ci accorgiamo che non è giusto. Anche santa Teresa di Lisieux ha fatto questa esperienza: Così la racconta nella sua autobiografia (Storia di un’anima):

"C’è in comunità una consorella la quale ha il talento di dispiacermi in tutte le cose, le sue maniere, le sue parole, il suo carattere mi sembrano molto sgradevoli. Tuttavia è una santa religiosa che deve essere graditissima al Signore, perciò io, non volendo cedere all’antipatia naturale che provavo, mi sono detta che la carità non deve consistere nei sentimenti, bensì nelle opere; allora mi sono dedicata a fare per questa consorella ciò che avrei fatto per la persona più cara. Ogni volta che la incontravo, pregavo il buon Dio per lei, offrendogli tutte le sue virtù e i suoi meriti. Sentivo che ciò era ben accetto a Gesù, perché non c’è artista al quale non piaccia ricevere lodi per le sue opere, e Gesù, l’artista delle anime, è felice quando non ci si ferma all’esterno, e invece, penetrando sino al santuario intimo che egli si è scelto come dimora, se ne ammira la bellezza. Non mi contentavo di pregare molto per la sorella che mi suscitava tanti conflitti interni, cercavo di farle tutti i favori possibili, e quando avevo la tentazione di risponderle sgarbatamente, mi limitavo a farle il più amabile dei miei sorrisi.

Poiché ignorava assolutamente quello che sentivo per lei, mai ha supposto i motivi della mia condotta, e rimane persuasa che il suo carattere mi è piacevole. Un giorno in ricreazione mi ha detto press’a poco queste parole, tutta contenta: "Mi potrebbe dire, suor Teresa di Gesù Bambino, che cosa l’attira verso di me, perché ogni volta che mi guarda, la vedo sorridere?" Ah, quello che mi attirava era Gesù nascosto in fondo all’anima sua".

Testo tratto dal Manoscritto C di Storia di un’anima.

PAROLE DEL CUORE:

"L’amore è un miracolo sempre possibile"

(Friedrich Dürrenmatt )