IL TESORO E LA PERLA

(Mt. 13,44-52)

La Parola di Dio ci converte e ci fa rivivere

Due parabole gemelle, quasi in sovrapposizione. La ripetizione è un accorgimento narrativo molto utile: consente di ribadire l'essenziale e, al tempo stesso, di variare i particolari per meglio definire i contorni. Giustamente l'evangelista ha collegato queste due parabole all'insegnamento che Gesù ha impartito ai discepoli (13,30), non al suo discorso alle folle. Giustamente perché il discepolo corre sempre il rischio di non apprezzare la fortuna che gli è toccata.

Le due parabole mettono in scena due figure diverse: nella prima si parla di un bracciante agricolo che lavora in un campo non suo, nella seconda un ricco mercante che possiede negozi e filiali. Questi due personaggi sembrano i protagonisti dell'avvenimento, sono, infatti, il soggetto di tutti i verbi trovano, vendono, comprano. Ma più in profondità i veri protagonisti sono: il tesoro e la perla, che si impadroniscono dei due uomini. Il contadino e il mercante agiscono, ma solo perché totalmente "afferrati" dal tesoro in cui si sono imbattuti.

Così è l'esperienza dell'incontro con il Vangelo. Colpisce l'immediatezza con cui il contadino e il mercante reagiscono alla scoperta: prendono importanti e radicali decisioni con naturalezza, prontamente, senza esitazioni. Ma in realtà fanno solo ciò che chiunque altro in quel caso avrebbe fatto. Davanti alla scoperta di un tesoro insperato è naturale agire come loro. La lezione delle due parabole, la loro novità sta proprio in questa ovvietà. Un uomo che imbattutosi nel Vangelo, si comportasse come quel contadino e quel mercante non farebbe nulla di straordinario. È semplicemente un uomo a cui è capitata una grande fortuna! Così è il discepolo.

Gesù si serve di diverse immagini' per descriverci la realtà misteriosa del Regno di Dio (seme, lievito, tesoro, perla).

Non viene mai presentato come uno spettacolo da contemplare, un cosa "già fatta" che sta lì a nostra disposizione, soltanto da consumare. Si tratta di cercare, camminare, darsi da fare, scegliere, decidere, sacrificarsi. Precisamente ciò che non vorremmo.

Gesù parla dei Regno in termini di scoperta (tesoro - perla), soltanto che questo colpo di fortuna va pagato a prezzo di distacchi, rinunce. La verità viene offerta a tutti, ma non viene messa a disposizione su un piatto. E non si tratta di una scoperta marginale, ma di qualcosa di essenziale che può cambiare una vita, determinare una svolta imprevista dell'esistenza. Ed è l'occasione unica, il vantaggio inestimabile da non lasciarsi sfuggire. Non si tratta di disprezzare il resto, occorre semplicemente relativizzarlo, avvertirne i limiti, subordinarlo alla scoperta. Impossibile entrare nel Regno senza passare attraverso la rinuncia.

Il contadino vende quello che ha (probabilmente non molto, perché non è ricco), il mercante il molto che possiede (è un facoltoso gioielliere). In ogni caso il tratto comune - e questo importa - è che ambedue vendono tutto. Ma in loro non c'è alcun rimpianto, non si sottopongono ad un sacrificio, ma fanno un affare: un vero colpo di fortuna che nessuno, che abbia un po' di buon senso, si lascerebbe sfuggire.

Il discepolo dì Cristo non è un uomo che ha lasciato, ma uno che ha trovato. La rinuncia costituisce soltanto la condizione per il possesso pieno di quella realtà che appaga le esigenze più profonde del cuore dell'uomo. Il distacco rappresenta semplicemente il primo passo, non il risultato ottenuto, la meta raggiunta.

Cristiano non è uno che tende al sacrificio, alla rinuncia, è uno che tende alla gioia, alla pienezza. E perciò si mostra disposto a pagare il relativo prezzo. Così hanno fatto i discepoli (Mt.4, 16-22): hanno sentito l'appello di Gesù e lasciata la barca e il padre lo seguirono". Ma così non ha fatto il giovane ricco (Mt. 19,16-22) che se ne andò via triste.

Le due parabole insegnano che la conversione nasce dall'aver trovato, dall'esperienza di un dono inaspettato e sorprendente, da un incontro che allarga il cuore. Per questo il vero convertito non dice: "Ho lasciato", ma: "Ho trovato". Non dice: "Ho venduto il campo", ma: "Ho trovato un tesoro". Il vero discepolo non parla molto di ciò che ha lasciato, parla sempre di ciò che ha trovato. E non invidia nessuno e si ritiene fortunato.

La buona notizia evangelica delle due parabole sta qui: la radicalità del distacco è semplicemente il risvolto di una appartenenza che la precede, appena fatta la loro scoperta, il contadino e il gioielliere decidono di appartenere totalmente al tesoro che hanno trovato. La misura del discepolo è l'appartenenza, non il distacco. Si lascia tutto perché si è concentrati su altro.

C'è un aspetto paradossale e tuttavia profondamente vero: il contadino va a vendere tutto ciò che possiede "spinto dalla gioia". Certo la gioia nasce dal ritrovamento e non dalla vendita, ma è tale da trasformare completamente anche la vendita, capovolgendo il modo di considerare e di vivere il distacco che esso comporta. Questo non è più lo spazio del prezzo della fatica, ma è ciò che permette al tesoro di diventare nostro. Occorre quindi dilatarlo il più possibile.

Nella prima parabola il Regno era un tesoro che un uomo trova, nella seconda dovrebbe essere la perla, invece è il mercante.

In altri termini: là il Regno era ciò che l'uomo trovava, qui è anche l'uomo che cerca. Il particolare è tutt'altro che trascurabile. Se la seconda parabola ricalcasse la prima si potrebbe essere indotti a credere che il Regno di Dio come una "cosa" che si può prendere o lasciare, che si può possedere o abbandonare, che si può guadagnare o perdere, come qualsiasi altra cosa.

Ed è praticamente ciò che pensano quelle persone che dicono di aver perduto la fede, come si smarriscono gli occhiali o il portafoglio. La parabola della perla serve a disilluderci. No, il Regno non è una cosa, implica l'uomo e non soltanto l'uomo che ha trovato, bensì anche l'uomo che cerca.

Una deformazione piuttosto frequente è quella di chi ha rinunciato, ma pare abbia trovato una faccia da funerale, l'aria di uno che ha combinato un pessimo affare o addirittura è stato clamorosamente imbrogliato. A osservare certi comportamenti pare che alcuni che seguono Gesù intendano far pagare agli altri il prezzo di ciò che hanno abbandonato, vendicarsi di ciò che hanno trovato (meglio dire: noni hanno trovato).

Dio ci salvi dai frustrati, dagli insoddisfatti che si accaniscono a far pagare caro agli altri i loro rimpianti segreti su le cose che non hanno lasciato veramente.

Dio ci liberi dal pessimi affaristi che, dopo aver venduto tutto, non sanno più indicare dove si trova il tesoro, la perla e si trovano con le mani ingombre di tante cose e il cuore vuoto di amore e passione per il Regno.

Il cristiano dovrebbe ottenere come grazia inestimabile un volto "pieno di gioia" che .... tradisca il segreto

Ma la parabola può avere un risvolto poco esaltante. Una volta conquistata la perla preziosa noi corriamo il rischio di farci l'abitudine e di non apprezzarla più in tutto il suo valore. Ricerchiamo allora istintivamente qualcosa che luccichi (la polvere dei giorni feriali ha offuscato lo splendore originario), barattando la perla preziosa per delle quisquilie. Offrendo una perla autentica, in cambio di pezzetti di vetro colorati. Baratti umilianti. Per esempio: la sincerità con il calcolo furbastro, la dignità per una serie di vantaggi economici, l'approvazione della coscienza per l'applauso, la pulizia interiore per la facciata, la coerenza per la preoccupazione di non avere grane, la preghiera con le devozioni, la testimonianza coraggiosa con un avanzamento di carriera.

Un capovolgimento del significato della parabola può essere quello per cui il tesoro e la perla non sono l'affare cui si sacrifica tutto, ma diventano il mezzo per combinare ottimi affari: affari alla rovescia. L'essere cristiani rappresenta la copertura necessaria per assicurarsi privilegi, vantaggi, carriere, posti ben remunerati, avere successo ...

Ciò che dovrebbe essere fine, viene ridotto a mezzo furbastro per conseguire obiettivi assai meschini. Si utilizza la perla quale carta di credito per assicurasi vantaggi economici, per soddisfare ambizioni e vanità.

Il Regno è sempre un tesoro, un bene inestimabile, ma non è a vista d'occhio, in superficie, bensì nascosto come si faceva una volta con gli scrigni, i depositi di denaro. Trovarli non era facile, spesso avveniva per pura casualità. Bisognava essere sempre all'erta, vigilanti, non cullarsi sui successi conseguiti, ma cercare ancora. Il sentirsi ricchi o sicuri non è il migliore presupposto per accorgersi del vero tesoro che ancora manca per essere felici.

Il Regno rappresenta un'alternativa che può mettere in discussione tutto un sistema di vita. "Quello a cui avevo annesso un gran valore - afferma Paolo - lo reputai un nulla" (Fil. 3,7). Tutto ciò che il protagonista della parabola aveva accumulato era anch'esso un tesoro vado per trascorrere giorni felici, ma lo sacrifica per entrare in possesso di un altro bene di per sé invisibile e indimostrabile, ma capace di ricolmarlo di gioia. Si tratta in ultima analisi di scegliere tra Dio e mammona (Mt.6,24).

Sì, il Regno dei cieli o è intuito come tesoro o non è intuito affatto. Qui Gesù affronta, con didattica semplice ma estremamente efficace, quella che noi abbiamo chiamata la questione dei valori.

Non è questione secondaria, e consiste nel far coincidere, pensando e vivendo, ciò che è importante in sé (ossia, quand'anche non ci fossimo) con ciò che è importante per noi. Se solo si riflette sulla scissione quasi permanente che si trova fra "esistenza" e "moralità", o fra "spontaneità" e "impegno", ci si accorge che qualche cosa è rotto in noi. S'è staccato il bene dalla sua evidenza, o anche dal fascino che porta in sé, non possediamo più la unità morale, ossia la scioltezza delle nostre scelte verso il bene.

Sul termine stesso "bene" le idee sono disparate.

Sì che, nella vita vissuta, i nostri impulsi sono svariati e non di rado contraddittori, e siamo tutti toccati dal lamento di Paolo: "Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio". In queste condizioni le nostre scelte sono anche esposte a molte provocazioni, siamo liberi eppure poveri nella libertà, e ogni emozione, passione, sentimento ha in qualche modo diritto di dire la sua nell'elaborazione delle decisioni che prendiamo.

In questa condizione instabile e anche angosciante, giunge la parola di Gesù sul Regno, definito "tesoro". Non è semplice paragone, è rivelazione di grande portata, vuole comunicarci infatti che solo comprendendolo come valore massimo il Regno compare ai nostri occhi e lo vediamo.

Ma questo che cosa vuol dire in realtà?

Vuol dire che i nostri occhi sono male abituati dalla loro stessa ansia di trovare e a tutto ciò che vedono di gradevole regalano ampie ammirazioni. Essi inventano appunto tesori anche dove non ce ne sono.

Quest'è il più ingenuo e rapido metodo per bruciare le tappe senza mai arrivare al fine, Infatti non è illimitata la nostra capacità di degustazione delle cose, e alla fine giunge la noia, quella che, dice Heidegger, "come nebbia silenziosa, si raccoglie negli abissi del nostro esserci e accomuna uomini e cose in una singolare indifferenza, rivelandoci l'esistente nella sua totalità". Come a dire che, spariti i fuochi fatui degli entusiasmi, ci avviene di non stupirci più, piacevolmente, di nulla. Kierkegaard chiama ciò la "infinità della malinconia", la quale, si noti, non è specialità esclusiva di filosofi e poeti, ma s'annida altrettanto bene in cuore al manager e alla star.

E quando i nostri occhi sono così appannati, più niente sembra aver luccichio per loro. Neanche ciò che splende come il sole. Non per nulla Teresa d'Avila diceva alle sue buone monachelle: "Non state a dirvi tra voi: cara e tesoro, altrimenti non saprete più dirlo quando vi troverete davanti al vostro Signore".

Il Regno dei cieli è fatto per spezzarla, la noia.

Per esplodere dentro le assuefazioni e provocare un nuovissimo consenso di tutta l'anima. Se appare così, lo chiameremo veramente Regno: se no resterà una regione nota e non attraente, un luogo come un altro o inferiore a un altro,

 

PROVOCAZIONI

Ricordo che una mia vicina di casa, nella lodevole intenzione di pungolare il marito sempre riluttante a imboccare la strada della chiesa per la messa festiva, ricorreva sovente a questo argomento decisivo:

- Che cosa ci perdi? Dopo tutto, puoi sempre portare a casa qualcosa di buono ... Mica come quando vai all'osteria.

Oppure, più spicciativamente:

- Male certo non ti fa ...

E a me veniva in mente qualcuno che manifestava una certa diffidenza sull'efficacia di una medicina e viene incoraggiato: " Dopo tutto, male non ti fa .... Non si sa mai, può darsi perfino che provochi qualche risultato positivo .... ".

Questa visione minimalista della pratica religiosa mi pare non si accordi granché con le immagini dominanti nelle parabole che abbiamo illustrato

Troppi di noi considerano l'incontro con il Signore come "qualcosa di buono" - nella migliore delle ipotesi - da cacciare alla rinfusa insieme ad altre cose più o meno buone. Potrebbe tornare utile, in qualche occasione, non si può mai sapere. Una medicina amara da ingoiare: "Tanto male non fa di certo ".

Il Regno non è un'aggiunta a tutto ciò che già possediamo, e che vogliamo tenere ben stretto. Il Regno è tutto, è l'unica cosa necessaria, che ci fa mollare altre prese, ci fa lasciare, senza alcun rimpianto, il resto,

Non si arriva all'uno sommando, ma sottraendo.

Mettiamo le cose in chiaro. Il contadino, il mercante, si ritengono più che appagati del campo col tesoro incorporato, della perla. Non risulta, almeno dal Vangelo, che pretendano altro, dopo. Non hanno bisogno di altro. Tutto ciò che potrebbero ottenere, sarebbe riduttivo, derisorio rispetto a ciò che hanno conseguito.

Il Regno, per loro, non è stata una perdita, per la quale avrebbero avvertito successivamente il bisogno di risarcirsi con ogni sorta di compensazioni.

Vogliamo convincerci, una buona volta, che l'incontro con Cristo non ci fa guadagnare nulla, dal momento che Lui stesso è il massimo guadagno?

 

IL REGNO NASCOSTO NEL GRANDE CAMPO DEL MONDO

E cosi il Regno di Dio è ormai nascosto nel grande campo dei mondo. Possiamo avvertirne la presenza, ma senza mai riuscire a toccarlo. Piuttosto che rammaricarcene, dovremmo rallegrarcene. In questo campo sconvolto dalle bombe, divorato dal napalm, annientato dagli aerei, e che la follia umana minaccia di trasformare in un deserto, non è consolante sapere che c'è un tesoro che niente può raggiungere, un tesoro che ci garantisce che colui che ce l'ha messo, proteggerà il campo?

Certo, il mondo in sé non è il campo. Tuttavia non esiste più un mondo in sé, bensì un mondo-che-contiene-un-tesoro. In seguito al Natale, il Regno vi è nascosto dentro. Non è più possibile separarli, ma nemmeno confonderli. Non è possibile ottenere il Regno senza "acquistare" il recipiente; ossia, senza accettare il mondo, senza assumerlo così come Dio ce l'ha donato. Ossia, senza riconciliarci con esso e senza agire all'interno di esso. La speranza nascosta obbliga, per essere essa stessa salvaguardata, a prendere ciò che la racchiude e la nasconde.

Lo stesso avviene per il tesoro della Parola di Dio che è nascosto nella Bibbia. La Parola di Dio ci costringe ad acquistare e ad accettare tutto il campo. Non è possibile isolare e prelevare ciò che ci sembra parola di Dio, e tralasciare ciò che ci appare come parola umana.

Ma succede la stessa cosa, e ancora a maggior ragione per la Chiesa. Essa pure e prima di tutto un campo con quello che ciò comporta di rovi, ortiche, sassi, e talvolta perfino vipere.

Ma essa contiene il tesoro di essere la sposa di Cristo. E non è possibile ottenere l'uno senza l'altra. Probabilmente abbiamo qui una delle più grandi miserie dei cristiani: quell'amore della purezza che pretenderebbe di isolare il tesoro e ricusare il campo.

Con ciò non voglio dire che non ci sia niente da cambiare, e che tutta proceda per il meglio nella migliore delle Chiese possibili, con i migliori parrocchiani che si possano desiderare, dotati dei migliori pastori o preti possibili.

Ma gli amanti dell'ideale sono nemici del Regno.

 

QUALCHE VOLTA SUCCEDE CASUALMENTE

Sottolineiamo la fortuna di quest'uomo: lui non cercava, faceva il suo lavoro d'uomo, ed è nel bel mezzo del suo lavoro profano che trova il Regno, o più esattamente il Regno trova lui. Come Simone di Cirene che tornava dai campi il Venerdì santo.

Il che sta ad indicare che l'incontro dell'uomo con il Regno può verificarsi talvolta in maniera dei tutto inattesa. Può succedere non importa dove, non importa quando. Nel bel mezzo delle occupazioni profane.

 

ATTUALIZZAZIONE

Gesù annuncia coi cuore pieno di gioia la grandezza dei dono che sta offrendo. Da povera gente, quali noi uomini siamo, da gente che si accontenta, di troppo poco, egli vuole farci diventare padroni di un Regno, dei suo steso Regno. Si sforza di scuotere l'immaginazione e il cuore dei suoi ascoltatori con questi paragoni incisivi. Dio viene così incontro alla ricerca instancabile del nostro cuore e cerca di ricondurre questa sete alla sorgente giusta. Dio non è contento quando la nostra ricerca si accontenta di cose che non ci potranno fare felici.

Egli ci ha regalato il mondo, ma non vuole che noi consumiamo la vita nel cercare soltanto ciò che si trova nel mondo, ingannandoci e fermandoci troppo presto. E anche, quando ci pare per una specie di fugace illusione di aver già trovato, dobbiamo essere così saggi da ricordare che quello che cercavamo non l'abbiamo ancora mai pienamente trovato (Dio non l'abbiamo ancora visto in faccia per cui viviamo di fede, speranza e amore).

Queste parabole sono capaci di mettere in questione la nostra fiacchezza di spirito, la nostra pericolosa facilità di accontentarci di quello che siamo o sappiamo. Vendere tutto per non perdere quel pezzo di Regno di Dio è il senso di un gesto, non soltanto compiuto una volta, ma dei gesto di sempre. E la liberazione progressiva della nostra vita da tutto ciò che ci sembra già conquista e sazietà.

Ci sono due atteggiamenti oggi molto diffusi tra la gente. Il primo è l'ansia dei guadagno. Non parlo della preoccupazione legittima, quella del lavoratore che deve far quadrare il bilancio famigliare con il suo unico stipendio: rendiamoci conto, infatti, che sebbene la maggior parte delle famiglie stia bene, alcune devono usare la calcolatrice, e non per determinare le entrate, quanto per misurare le spese. È realtà che tocca molti nuclei famigliari: gli stipendi al giorno d'oggi sembrano buoni, ma il costo della vita aumenta in modo preoccupante.

Al di là di questa legittima preoccupazione, notiamo pero' in molti l'ansia, il desiderio di accumulare denaro: si guarda al conto in banca con avidità, si cerca di far rendere i soldi al massimo. In tanta gente la sete dell'avere porta a mortificare perfino sentimenti d'amicizia e di fraternità. L'avidità di denaro a volte logora anche i rapporti tra coniugi, o tra genitori e figli: il quattrino infatti - si dice - è un buon servo, ma un cattivo padrone. Ad ogni modo, oggi, la tendenza generalizzata è a riporre la propria felicità nella ricchezza: diverse inchieste, condotte tra i giovani, rilevano che ì soldi si trovano al primo posto nella loro scala di valori.

Ma il denaro dà veramente significato alla vita? Consente l'accesso alla felicità? È una domanda aperta. Anche Gesù, probabilmente, notava tra i suoi contemporanei questo fatto: cercare l'isola del tesoro è sempre stato passione e tormento dell'uomo.

Un secondo atteggiamento da richiamare riguarda la religione. E ci riferiamo alla nostra, perché non conosciamo in maniera approfondita e non vogliamo giudicare quella degli altri. La religione è percepita spesso come rinuncia: se vuoi essere cristiano, devi sacrificarti. Ci sono leggi da osservare, prescrizioni cui obbedire, autorità cui sottostare: la libertà della persona ne risulta limitata, o perfino mutilata. Qui si trova, a mio parere, la radice profonda dell'ateismo e di molta indifferenza religiosa. Quando gli adolescenti, dopo la Cresima, lasciano la Chiesa e spesso anche la fede, perché lo fanno? Soprattutto, credo, perché sono alla ricerca della propria libertà. Quella che vivono è l'età dell'indipendenza, della necessità d'autonomia: sono portati a guardare alla Chiesa come ad un luogo di schiavitù, o in cui comunque si esercita un'antipatica sorveglianza.

Ma è veramente questo la religione?

Vediamo Gesù: egli vuole dargli un nuovo volto. Si era accorto anche lui che molti la sperimentavano come un dovere da rispettare e non come una festa da gustare e da condividere: nelle pagine del Vangelo troviamo molti episodi che delineano, attraverso parole e gesti di farisei e scribi, una religione vissuta quasi come una tassa da pagare e non come rapporto amoroso e gioioso con Dio. Forse troviamo la rappresentazione migliore di questo abito mentale nella parabola del figliol prodigo. In essa, il figlio maggiore, simbolo di chi governava allora Israele, asserisce: " .... io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici"(Lc. 15,29). Quell'inciso, "io ti servo", indica la schiavitù davanti a Dio, la dipendenza legalistica dai suoi comandi.

Ma tale concezione della religione è diffusa anche oggi: l'uomo pensa a Dio come ad un padrone di cui avere paura, e per questo obbedisce ai suoi desideri. Gesù, invece, ci parla di un Dio diverso, e ce ne parla attraverso due inequivocabili parabole.

La prima : chi trova Dio trova un tesoro, ossia, Dio arricchisce l'uomo, lo apre al senso della vita, al gusto della scelta, lo guida sulla strada che lo realizzerà. Non è contro l'uomo, non vuole limitarlo, e desidera anzi renderlo libero, creativo, estroso, compiuto. Chi trova Dio trova la radice di se stesso: non si tratta, allora, di obbedirgli come ad un padrone, ma di incontrare uno sposo che ama la felicità della sua sposa, e la sollecita a rendersi ancora più felice e più libera

La seconda parabola: chi trova una perla di grande valore vende tutti i suoi beni per comperarla. La fede esige certamente delle scelte, ma vivere la fede è di più, è acquistare una perla più preziosa, è diventare più è uomini, è ricevere ed accedere ad una relazione più gratificante. Questa perla preziosa s'identifica con l'amore. Il saper amare è dono importante ed inestimabile. La persona si fa nell'amore, in esso si immedesima, si riconosce, si dispiega. Dio insegna ad amare perché è amore. Cercare il Regno di Dio, allora, equivale a cercare la profondità dell'amore e perciò del proprio essere.

 

PAROLA CHE SI FA VITA E VITA CHE SI FA PAROLA (Scrivere il Vangelo con la vita)

"La situazione è gravissima - aveva detto il medico a mio padre - deve scegliere o salviamo il bambino o salviamo sua moglie."

Papà aveva scelto mia madre, ma lei si era opposta e aveva deciso di dare la sua vita per farmi nascere, Così è stato e la, mamma è morta durante il parto.

Da quell'istante mio padre mi ha sempre rifiutato. Sono rimasto per sei anni in ospedale. Quando, finalmente, sono andato a casa, mi sono trovato in una bella villa ma non in una famiglia.

Per un mese non ho mai visto mio padre. Veniva a casa la sera molto tardi e ripartiva la mattina presto. Una sera l'ho aspettato: è rientrato alle due di notte. Io ero felice dei suo ritorno: gli ho aperto la porta e l'ho accolto festante, ma lui mi ha respinto con uno schiaffo violento. Per me è stato un colpo durissimo, mi sono chiuso in me stesso e non ho più voluto vederlo.

Poi papà si è risposato e ho avuto la seconda mamma, che mi ha voluto bene e mi ha aiutato a superare i traumi della fanciullezza.

A dodici anni sono entrato in seminario: sentivo la vocazione al sacerdozio.

Al termine degli studi del seminario minore sono risultato il migliore della classe e mio fratello è arrivato secondo nel suo corso. Alla cerimonia di consegna delle medaglie, però, papà ha messo la medaglia al collo di mio fratello ma non ha voluto farlo con me. È stato un vero shock, un nuovo rifiuto.

La mancanza di affetti veri nella mia vita di ragazzo mi spingeva ad impegnarmi sempre di più nello studio, l'unica fonte di gratificazione che avevo. Al seminario maggiore seguivo gli studi di filosofia e contemporaneamente frequentavo corsi di musica all'università. Dopo la laurea, l'università mi ha offerto una borsa di studio per il dottorato in pianoforte e direzione d'orchestra presso l'Accademia di Salisburgo, in Austria.

La prospettiva mi attirava, tanto più che avvertivo la chiamata al sacerdozio un episodio ormai lontano e i motivi di quella scelta mi apparivano, alla distanza, vaghi e confusi, ben poco convincenti.

Ho lasciato il seminario contro la volontà dei miei genitori e sono partito per l'Europa. Era la prima volta che facevo qualcosa di mia iniziativa, ma sentivo che la musica era la mia vera passione. Per inserirmi nel corso intensivo, di un solo anno invece dei cinque normali, dovevo affrontare un esame di otto ore. L'ho superato brillantemente e sono risultato secondo.

Mi mancava solo l'esame finale che consisteva in una prova molto impegnativa ma anche molto bella: dovevo dirigere il concerto di Natale con l'Orchestra sinfonica di Vienna, i cori delle Cinquecento Voci di Vienna e dei Ragazzi di Vienna.

Ma due settimane prima del concerto sono stato colpito ad una terribile malattia che mi ha paralizzato. La musica, l'ideale della mia vita, ciò per cui mi ero impegnato con tutte le mie forze e contro la mia famiglia, crollava in un attimo, non c'era più.

Ero a letto, accudito da una suora di ottant'anni un po' gobba. Mi ribellavo a tutto, e soprattutto alla presenza di quella vecchietta, ma lei continuava ad essere gentile, disponibile, sorridente con me, come io non avevo mai sperimentato da parte di nessuna persona.

"Perché continui a sorridere? ", le ho chiesto un giorno. Mi ha risposto che mi assisteva e si occupava di me solo per amore. In quel momento, forse per la prima volta nella mia vita, ho sentito l'amore di Dio per me. Ho chiesto un sacerdote per confessarmi. In un colloquio intimo con Gesù gli ho chiesto la possibilità di terminare il corso di musica e di ritornare nelle Filippine, L'amore di Dio è grande: dopo una settimana stavo molto meglio e ho ripreso le prove con l'orchestra e i cori.

Durante i concerti, soprattutto quello eseguito nella cattedrale di Vienna, ho sentito un profondo rapporto con Dio. Gli ho offerto il talento musicale che lui mi aveva donato e che era stato fino ad allora l'unico mio bene: è stato un momento di straordinaria gioia soprannaturale.

All'esame ho ricevuto il massimo riconoscimento e una medaglia d'oro.

Con questo rapporto nuovo con Dio, al ritorno nelle Filippine ho cercato di capire cosa Lui volesse da me. Poco tempo dopo, sono stato invitato ad un incontro per seminaristi che si svolgeva all Scuola di Tagaytay, un centro dei Movimento dei Focolari poco lontano da Manila.

E lì ho trovato la risposta!

Dopo un mese sono ritornato a Tagaytay per rimanervi. A quel punto, si trattava di scegliere: o Dio o la musica. Ho deciso di non toccare il pianoforte per sei anni. Mi è costato molto, all'inizio, poi ho compreso l'importanza di lasciare tutto, anche la musica, per Dio, l'unico ideale che non crolla.

Avendo scelto Dio Amore, era logico donare tutto il resto, se necessario anche la vita stessa, agli altri. Ho preso tutti i miei soldi, depositati dalla mia famiglia per me in varie banche, e li ho consegnati alla comunione dei beni della comunità. Ho messo in comune anche i vestiti, ne avevo troppi. Ora mi sentivo finalmente parte di una vera famiglia dove tutti i beni, spirituali e materiali, circolavano e l'amore legava tutti.

Uno dei compiti che mi erano stati assegnati nella cittadella di Tagaytay era la pulizia dei bagni. Un compagno, per cui provavo una profonda stima e amicizia, mi ha detto: "Per amare Gesù presente nel fratelli potresti far diventare questi bagni come nuovi ". Per me era un modo rivoluzionarlo e incredibile di fare le cose. Ho offerto a Dio ogni piastrella che pulivo, pregando per qualche persona che avevo incontrato o offeso nella mia vita, e anche per mio padre,

Un giorno, si è presentata, la possibilità di andare a casa: poteva essere l'occasione per riconciliarmi con mio padre. Al cancello mi ha accolto lui stesso. L'ho baciato per la prima volta e lui ne è rimasto molto sorpreso. Poi mi sono offerto di preparare il pranzo per lui e per la mamma. Durante il pranzo ho raccontato l'esperienza che vivevo alla Scuola di Tagaytay. Appena finito di mangiare, ho invitato mio padre a fare una partita a scacchi, un gioco che lo ha sempre appassionato. Dopo cinque mosse ci siamo fermati e ci siamo fissati negli occhi. Guardandolo ho rivisto tutta la mia vita, compresa la fanciullezza, senza provare per luì sentimenti di odio. Sentivo solo amore. Papà ha pianto e mi ha abbracciato per la prima volta. Da tanti anni sognavo quel momento.

Ho concluso gli studi di teologia a Tagaytay e, dopo cinque anni di servizio nella mia diocesi, il vescovo mi ha permesso di trasferirmi per un periodo in Italia, alla Scuola sacerdotale di Loppiano, per andare più in profondità nella spiritualità dell'unità. Una nuova, intensa luce di Dio è entrata con questa esperienza nella mia vita. Ho capito che Dio mi è padre e mi ama immensamente, e che qualsiasi cosa io faccia, la musica o i lavori più semplici, ha valore se lo faccio con amore.

                                                                                                                    (Redi L. Filippine)

PAROLE DEL CUORE

"Non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi"

(Antoine de Saint-Exupéry)