Mio Dio, no!

Era un giorno come i mille precedenti, niente di speciale. Come tutti i giorni mi sono alzato e dopo aver ordinato i libri, Ho fatto colazione e sono uscito di casa per prendere il tram delle 8.00 che, come tutte le mattine, mi porta a scuola. Il tram ha la fermata, abbastanza, vicino alla mia abitazione, pochi minuti: in effetti, la fermata, è proprio sotto casa, non fosse per una lunga gradinata, il tram, verrebbe a fermarsi di fronte il mio portone d'ingresso. Quante volte ho fantasticato su questo: avrei dormito 10 minuti di più a notte, 1 ora di più a settimana, 4 ore di più al mese e così via; vi pare poco, il sonno è importante alla mia età. Non avete mai sentito parlare dell'uguaglianza: più riposo maggior rendimento. Già faccio una tal fatica la mattina evitando di fare movimenti bruschi: sapete com'è, non voglio svegliarmi di soprassalto; e così, serenamente, esco di casa, scendo la gradinata e salgo in tram che ancora ancora sonnecchio.

E anche quel giorno, di cui voglio raccontarvi, è stato così: tale e quale; niente faceva presaggire il dramma che di lì a qualche istante avrei vissuto. in vero, appena sceso dal tram e dunque, non ancora entrato a scuola, qualcosa avevo sentito: un dolorino da poco, ma pur sempre un dolore; purtuttavia, lungi da me l'idea che quella cosina di malessere, potesse preludere alla devastante tragedia di cui dirò.
A scuola, il dolorino si faceva sempre più grande, un male indefinibile si era impossessato di me: mi prendeva dalla punta dei capelli fino ai piedi, era co- me un brivido sù tutto il corpo, una scossa elettrica. E quando non ho più potuto sopportare le terribili ed incomprensibili, fitte. Ho detto al prof. "Mi lascia uscire, non mi sento bene".
La risposta non era quella che desideravo.
"non mi è permesso farti uscire".
Ma probabilmente, il professore, impietosito dalla mia espressione concluse.
"Però se chiedi il permesso al preside forse...".
Non c'era ragione che ascoltassi ulteriormente il discorso del professore e molto prima che giungesse alla conclusione della frase, mi trovavo dinanzi alla saletta del preside. Il dialogo in se, non fù importante, ciò che ha valore è che ottenni di poter andar via da scuola, con la promessa, ovviamente, che la meta fosse la mia casa. Uscito da scuola, atteso il tram, con crescente apprensione, per via di quel malore che si andava precisando come un 'pungoloso' mal di pancia, alla fermata, avevo scorto, conquistato e difeso un posto a sedere. Tra il mormorio delle donne e il borbottio del mio stomaco.
Per fortuna: il primo sovrastava e annullava, il secondo.
mi domandavo quale fosse la causa di quel qualcosa e cosa potesse essere. Furono, ne sono certo, queste riflessioni che attenuarono il mio disaggio in tram, lenirono il mio dolore, distrassero la mia mente: sollevandola da pericolose preoccupazioni. Giunto a destinazione e ridisceso dal mezzo pubblico, dovetti attendere un momento: un'attimo di tranquillità; ormai non avevo dubbi, il dolore aumentava col movimento e dunque avrei avuto dei problemi per raggiungere casa. C'erano i gradini e...

Davanti a me si mostrò quella enormità, una montagna infinita, uno, due, dieci, mille gradini: in vero, non mi parevano così tanti, non sono, mai, stati così tanti; li percorrevo tutti i giorni, più volte al giorno, e adesso, somigliavano ad una infinita costruzione architettonica. Il mio sguardo implorava pietà. Era tutta colpa del mio stato: l'immagine 'trasformata' della gradinata era legata indisolubilmente al mio sentire, che non era indefinito o indefinibile, come falsamente ho detto prima, era chiaro, lampante: il sospetto era divenuto dato di fatto inappellabile; la leggera pressione sullo stomaco, il 'dolorino' allo stomaco era cacca, me la stavo facendo addosso: insomma, mi stavo cagando; ed ero disperato perchè nello sforzo... Quella salita, portandomi in alto fisicamente avrebbe, ne ero certo, favorito l'espressione corporale in basso. Oh Signore, al diavolo, subito pensai: "non ottengo un bel niente stando quì, devo stringere i denti e... Sopratutto, le chiappe e salire, giovane e forte come sono, sarò sù prima ancora che le mie funzioni abbiano il tempo di organizzarsi e giocarmi lo scherzetto".
I primi quattro gradini e poi... Ecco, già ci siamo. I piedi si irrigidiscono, confermano la spinta laggiù in basso.
c'è una valanga che vuole tracimare ed un eroico baluardo che impedisce la furia naturale... Iiih,
mamma mia... No, nooo, non voglio far la figura di un merdoso che si scioglie e naufraga nella merda,
mio Dio, ti prego...
Stringo, stringo... E in- tanto salgo, salgoooo...
No, no e no... San botafogo aiutami tu...
Oh Signore benedetto. No, no, NO. Non è niente, resisti, resisti.
Dai ti prego, dammi la forza.
E intanto salgo, sono già a meta, anche di più, dai, dai, sei un mito - sei un mito [canto per distrarre quella forza brutta che spinge] e con un movimento violento, una piroetta rapida e veloce eccomi seduto che mi concedo un pò di relax, dopo lo sforzo,
l'intestina lotta... E se poi mi vede qualcuno, e chì se ne frega della gente, magari questi ultimi gradini li posso fare culo_culo, dai che ci riesco, sono sù ormai, non mi ferma più nessuno, ancora tre, coraggio: in piedi... Stò per ruzzolare giù, provo una tale stizza che quasi dimentico il problema...
Quasi.

Una immane, schifosa valanga, è del tutto superfluo dire di che, cerca di forzare il blocco: làddove c'è il passaggio la 'roba' scappa, ma in questo momento la battuta non fà ridere.
In piedi mio eroe, sei giunto alla tanto sospirata meta, ai scalato la montagna, è lì la cima, hai vinto, oh valoroso. Sarebbe cosa indegna se ti cacassi proprio adesso e dunque, slanciati vittorioso verso il trionfo perchè la tua mente anela la negazione di ciò che il tuo culo brama, orsù vinci, impugna la bandiera della gloria, nella tua mente un solo pensiero, l'idea che può prolungare il supplizio e alimentare la speranza.
Così, alfin dei gradini, mi slancio sulla prima panchina, abbattendomi con tanta forza su di essa da rintuzzare l'attacco merdifero dell'iniquo orifizio.
Urra è fatta... Cioè... Voglio dire, non Ho fatto niente, eppure son contento [non posso dire: 'sono gaio'; perchè ciò comporterebbe un richiamo al fondo schiena 'parte lesa nonchè lenitrice'...],naturalmente, come si dice: la lingua batte dove il dente duole; certo, non è il caso di parlare di lingua: non bisogna mescolare il sacro col profano; siamo all'opposto, ma com'è che a volte proprio gli opposti, i contrari si somigliano, anche il mio didietro aveva iniziato a parlare, la sua lingua perlappunto.
Così che, il mio invito a non unire il sacro col profano, può e deve essere inteso come un non voler parlare di corda in casa dell'impiccato.
"E' necessario non svegliare il can che dorme, pensa tu, se per cane s'intende un ssaannn...Ti numi, mi stò cagandooo, nooo, non voglioo".
Urca, è passata; senti un pò, alza pure la voce. Prima poco, poi via via, sempre di più; menomale non c'era nessuno. Battevo forte il sedere sulla panchina e...
"Via di corsa verso casa".

Superare la montagna di gradini, voleva dire: vincere l'ostacolo più grande, la battaglia più ardua, ma la guerra era tutta un'altra cosa e richiedeva un ulteriore sforzo. Inoltre è bene tenere a mente le mie condizioni, valutare le energie spese, collegare il tutto al tempo che trascorre; tenendo presente tutto questo, diviene logico pensare che qualsiasi sforzo da parte mia avrebbe comportato il massimo impegno e che persino un piccolissimo 'attacco basso' sarebbe stato terribile. E dunque, non avendo tempo da perdere, ignorai le voci [eufemismo: mi sà che urlava proprio] di Giulia, bella e dolce, ne ero innamorato pazzo:
ma mi stavo cacando e... Capirai, non potevo star lì a... Cinguettare;
oltre tutto, di tanto in tanto un silenzioso presaggio odorifero, mi rammentava - suvvia non c'era bisogno - il mio attuale problema.

Stremato giunsi a casa, la stanchezza fisica si mescolava allo sfinimento mentale ed insieme mi davano un'aria strana, in effetti mi sentivo un tantino rintronato ed inebetito. Fù tutt'uno, suonare alla porta di casa ed invocare uno spirito pietoso affinche mia madre venisse ad aprirmi in fretta, così avvenne e ora che scrivo mi rendo conto di non aver ringraziato; si ha che sul momento avevo da affrontare altre incombenze. Dicevo: mia madre mi aprì. Io, senza motivare la mia presenza: lì in quel momento; mi lanciai verso la tanto agognata meta: la tazza del cesso; pochi metri del corridoio furono più che sufficienti per sentire che il mio desiderio non era il solo, c'era anche una valanga puzzolente che voleva uscire e untuosamente legarsi ai miei vestiti. E allora, nel corridoio, ebbe inizio una spasmodica lotta tra me che cercavo di raggiungere l'ambito posto a sedere [mai indicazione è stata più esatta], e la forza della natura che soleva liberarsi in una rumorosa, giubilante esplosione. correvo o meglio, cercavo di correre, in vero, quell'atteggiamento che bonariamente ho definito corsa; somigliava ad un gioco (la corsa dei sacchi, credo si chiami così;) con l'unica variante che io correvo fingendo d'avere un sacco di stoffa addosso, mentre ad onor del vero, avevo un sacco di merda dentro. Cadevo mi rialzavo e cadevo di nuovo, incurante degli urli di mia madre che ignara del mio sentire, chiedeva chiarimento.
Finalmente, intatta la mia dignità, raggiunsi il bagno e... Ormai ero salvo, in piedi avanti la tazza, mi accingevo, con fare frettoloso e tuttaltro che disinvolto ad aprire la chiusura_lampo e dopo aver calato braghe e slip, adagiarmi soave e rasserenato in quel posto che, per me in quell'istante, era il meraviglioso e mitico giardino delle delizie.
"E... Però che succede... La lampo si è bloccata, noooo! Non è possibile";
il mio daffare frettoloso diviene febbricitante, tremuloso, impaziente, rabbioso:
"un coltello, ci vuole un coltello";
con un urlo bestiale mi proietto in cucina e dopo aver sradicato dal mobile il cassetto, pazzo furioso per l'inaspettato disguido, prendo il coltello più grande che, brandendo come arma, livido di rabbia e accompagnato dall'urlo, divenuto ormai grido di battaglia, porto con me in bagno, e... In piedi d'avanti alla tazza del cesso, mi accingevo, coltello alla mano ad infilzare i pantaloni:
"quì all'altezza dello zip, in modo da raggiungere al più presto quello che voglio, calarmi, in fretta e furia i blue-jeans e...".
durante la mia delirante, escursione in cucina, non avevo dimenticato la forma: preso e irritato, come ero, a seguito dell'inciampo nella chiusura_lampo; avevo adoperato, quasi meccanicamente, credo, tutti gli accorgimento del tipo: stringi le chiappe, corri a balzelloni. Fù così che evitai la tremenda valanga, la temuta forza della natura che ormai al culmine della voglia voleva esplodere con un roboante ruggito [e tante 'r' ancora].

Quando, ormai stremato, privo di forza, grondante sudore, libero dalla prigione dei pantaloni, mi sedetti sullo straordinario, meraviglioso, sublime trono sentii erompere, precipitare, slavinare, inondare una immensità di puzzolente mmmmateria.

Sfinito dall'ardua lotta e forse, anche dalla soddisfazione del grande trionfo, mi addormentai.

Giancarlo Fenu

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