Bomarzo, 26 Febbraio 2000

Intervista a Giovanni Bettini

 

"Il territorio, diviso da vallate e da modeste colline è ricco di sorgenti.

Vi sono boschetti ombrosi, soprattutto di querce verdeggianti, con un fitto sottobosco

oscuro, che ricordano inevitabilmente il "bosco sacro" caro a tanti scrittori latini.

Del resto, l’atmosfera è dovunque latina: tanto che non sorprenderebbe

l’improvvisa comparsa di un satiro."

Pieyre de Mandiargues

 

Si resta sorpresi, una volta raggiunta la stazione di Attigliano, nell’accorgersi dell’inspiegabile assenza di collegamenti con la storica cittadella di Bomarzo, a non più di sette chilometri.

Questo non solo per l’importanza che unanimemente si riconosce al Parco dei Mostri ma anche per le sue stesse testimonianze.

Per fortuna un pur così disarmante impedimento non ha mai scoraggiato i molti visitatori che affluiscono con regolarità al Bosco Sacro. È quanto mi rivela l’interessante colloquio con Giovanni Bettini, nipote e omonimo del vero riscopritore del prezioso giardino rinascimentale.

Ringrazio il rappresentante degli eredi Bettini per l’intervista concessami e la cortese accoglienza nella cornice surreale di un paesaggio così singolare. Nel corso della conversazione ho avuto modo di ricordare la statura morale del suo antenato, il carattere determinato e il suo amore per l’arte che come è noto, sempre si accompagna all’amore stesso per la verità. Come attesta in maniera esemplare sia il testo della sceneggiatura del bel documentario che porta la sua firma, sia il catalogo delle sculture che funge da guida al sito: "Da circa trent’anni lavoro per il restauro e le ricerche storiche, coadiuvato da mia moglie e dai miei figli.

Sono orgoglioso di dichiarare che la famiglia Bettini ha salvato all’Italia un bene culturale unico nel suo genere al mondo, come potrete verificare dai carteggi che troverete in questo libretto. Sono stato insignito dell’Onorificenza di Dott. dell’Accademia Mondiale Artisti e Professionisti.

Ci tengo a dichiarare che tutto il lavoro è stato fatto in mezzo a privazioni familiari senza chiedere un soldo allo Stato."

È evidente a tutti che grande e oneroso dovette essere lo sforzo per sostenere i lavori di restauro e addirittura di disseppellimento di quelle creature lapidee, quei giganti furenti cari al principe Pier Francesco Orsini, occultati al mondo da un’ingiustificabile incuria e dall’inarrestabile proliferazione della macchia che si stende rigogliosa all’estremo confine tra il Lazio e l’Umbria.

Ed è altrettanto comprensibile che i lavori indispensabili alla manutenzione di un così vasto sito naturalistico comportino l’impegno quotidiano degli addetti.

Potevo constatare da me stesso come due giardinieri si prodigassero senza riserve intorno al grande "elefante turrito", intenti a riconfigurare il sentiero rimuovendo quelle siepi che, di fatto, sono state riconosciute dai botanici estranee alla natura originaria del bosco – prevalentemente fiorito di tigli e castagni – e che comunque, non trovavano riscontro nelle intenzioni del committente, rispettoso delle secolari caratteristiche del paesaggio.

L’interessante ritratto del principe, tracciato dal romanziere argentino Manuel Mujica Lainez, sulla scorta di una straordinaria conoscenza dell’archivio storico del Paese, ci delinea come meglio non si potrebbe il profilo dell’uomo che amava riconoscersi nelle sue radici archetipiche: l’"etrusco", come usava definirsi.

E lo fa con la consueta chiarezza della sua scrittura in un passaggio del libro "Bomarzo", che vede tanto più esaltati i legami viscerali con gli strati profondi della sua terra, in aperta antitesi al carattere cosmopolita – senza fisse radici, mezzo italiano e mezzo spagnolo – del Cardinale suo parente, Ippolito d’Este.

"Due concetti si opponevano: quello frivolo cortigianesco e magniloquente del cardinale Ippolito, palese sullo sfondo rumoroso delle sue cascate, e quello feudale, esoterico, conturbante, personalissimo, del duca di Bomarzo, che si profilava sulla prospettiva immobile e muta dei suoi mostri di pietra. Da una parte la vaporosa alterigia, la trasparenza dei getti multicolori che si beffavano del tempo, perché il tempo si dissolve nelle loro bolle aeree; dall’altra la solidità tenace, la forza statica, pietrificata dei secoli."

L’impegno alla conservazione, alla tutela e alla valorizzazione dei "giardini storici", alla luce della moderna sensibilità che ispira la "carta del restauro dei giardini storici", ha un suo chiaro enunciato nel principio che li vede incarnare una delle più preziose testimonianze ed espressioni della cultura nazionale ed europea. Il "giardino" non costituisce in alcun modo un mero "accessorio di monumenti e ville archittetttonicamente pregiate", possedendo in se stesso un autonomo valore estetico. È quanto è dato riscontrare testualmente negli atti del convegno dell’ADSI (Associazione Dimore Storiche Italiane) tenuto a Roma già nel 1984, al quale potremmo affiancare una fruttuosa messe di "colloqui" intrattenuti tra il ‘71 e l’‘81 in tutta Europa da Fontainebleau, Granada, Zeist, Kromerizt, Bruges, Firenze.

L’INCOMOS, il "Consiglio Internazionale de Monumenti e dei Siti" direttamente collegato con l’UNESCO, decise di redigere la specifica "Carta del restauro dei Giardini storici" da affiancare alle varie Carte di restauro dei monumenti già adottate ed operanti in Europa.

 

Giovanni Bettini junior fa presente che contestualmente alle azioni mirate ad educare l’utenza ai valori rappresentati dal paesaggio e dalle testimonianze dei siti d’arte, promuovendo l’interesse pubblico al turismo culturale, le istituzioni preposte alla salvaguardia del patrimonio storico-artistico dovrebbero essere più direttamente presenti ai problemi concreti della conservazione dei beni.

Né d’altro canto, meno che mai giova alla causa della loro tutela , l’annosa sterile polemica sull’inefficienza delle amministrazioni, soprattutto quando portata con la più incondizionata concessione alla retorica propria di certi media, che in maniera maldestra arrivano a spettacolarizzare paradossalmente il degrado, con discutibili azioni atte, a conti fatti, solo a falsificare lo stato reale delle cose agli occhi dell’opinione pubblica.

È, purtroppo il caso del servizio televisivo dedicato da Canale 5, nella rivista L’Angelo, che denuncia, appunto, lo stato di abbandono del Parco di Bomarzo.

"A quattro anni dal 2000", recita lo speaker, esso offriva di sé la vista sconfortante dello scempio perpetrato dal cinismo delle istituzioni e l’inavvedutezza dell’utenza. Il servizio televisivo testimoniava lo stato del Parco dei Mostri nel ’96, tra il primo piano di un gatto, "unico guardiano" al suo ingresso, che un arruginito distributore di bibite rendeva ancor meno accogliente, e le spietate zoomate sugli avanzi di un pic nic, tra montagne di lattine di Coca Cola selvaggiamente disseminate tra le vetuste anfore del giardino.

"Immagini di molti anni prima, rimontate ad arte?" chiedo al mio interlocutore, constatando coi miei occhi che il pur esteso parco si presenta ovunque in perfetto ordine.

Giovanni Bettini ricorda, a proposito, le dimostranze mosse dalla famiglia nei riguardi di quelle immagini che sia pur girate nell’ intenzione di provocare nel pubblico una reazione emotiva d’indignazione contro la sorda indifferenza amministrativa, forniva al contempo, un’informazione comunque distorta, a discapito di chi coi suoi propri mezzi, a costo di impagabili sacrifici, si era prodigato alla manutenzione del sito. Rammenta, ancora, che quelle riprese non furono mai autorizzate e che l’unica ipotesi che poteva addurre a spiegazione di quell’infausto scenario che la televisione aveva finito per dipingere, poteva consistere in un abile montaggio dei pochi edificanti scorci di una pasquetta alquanto allegra – il Parco, in verità, offre ai visitatori un’area pic nic del tutto separata dal giardino storico –. E non è difficile accorgersi come le sequenze a mano amplifichino ulteriormente l’effetto di desolazione, intercalate ad immagini, a onor del vero nemmeno molto leggibili, di alcuni dettagli scultorei che apparivano sgranati, quasi fossero proiettate contro un megascreen.

 

Non nutro alcun dubbio sulla calda accoglienza tributata alle proposte formulato dal Liceo "C. Caminiti" attraverso il progetto "Interactive Media". Nel corso del nostro incontro risultano, infatti, ampiamente condivise le finalità di promozione culturale dei siti d’arte che s’intendono perseguire attraverso ben mirate strategie educative, percorsi didattici nonché una rinnovata progettualità.

Il signor Bettini riscontra peraltro, che dai suoi monitoraggi sull’utenza, emerge inspiegabilmente, il primato delle scuole francesi per l’attenzione particolare concessa dai programmi curricolari, allo studio di questo sito artistico. Non nego che sarebbe per il nostro liceo già sufficiente motivo di soddisfazione, saper di aver contribuito nello spirito più autentico del progetto, ad un’analoga diffusione di questo capolavoro che merita di diritto, un posto di rilievo nella Storia dell’arte, proprio nella scuola nazionale.

Ricordando che solo di recente il parco ha ripreso la sua funzione di polo attrattivo per un certo turismo motivato a forme di svago congiunte a momenti di arricchimento culturale, faccio presente a G. Bettini come il nostro liceo si sia attivato nella ricerca documentale di un sito così appetibile da studiosi, intellettuali o da esteti nei più diversificati tagli interpretativi e nelle molteplici forme espressive. Così, parallelamente alla sistemazione del vasto archivio cartaceo, si è anche giunti alla diretta consultazione della Cineteca Nazionale di Roma e, su indicazione della Dott.ssa Laura Argento, responsabile della Sezione Diffusione Culturale – alla quale va un nostro speciale ringraziamento per la disponibilità mostrata –, si è orientata la ricerca verso i materiali conservati dalla Cineteca del Friuli e di Pordenone.

Mentre hanno dato esito positivo le indagini per il reperimento del cortometraggio girato nel 1950 da Michelangelo Antonioni – suoi sono il soggetto e il montaggio, le musiche di G. Fusco – infruttuoso e problematico risulta invece il reperimento del film documentario del noto artista, Salvador Dalì.

Peraltro il nostro padrone di casa conferma ampiamente, qualora ce ne fosse bisogno, oltre che l’esistenza della pellicola, anche la sensibilità di questo singolare artista per il misterioso paesaggio dello storico giardino di Bomarzo. Nell’Italia del primo e del secondo dopoguerra, quando assai pochi erano i turisti italiani e stranieri che conoscevano il "bosco sacro", Salvador Dalì con il suo cortometraggio tentò di attrarre l’attenzione pubblica sulle Meraviglie del giardino incantato coi suoi "folli enigmi" partoriti dal genio bizzarro del Vicino. Nei riguardi del grande artista spagnolo, Bettini esprime parole di riconoscenza, mostrandomi al contempo con incontestabile evidenza, nelle inquietanti icone di pietra che giganteggiano sulla nostra passeggiata per i sentieri del parco, l’effetto ch’esse dovettero certo sortire sulla delirante fantasia dell’artista surrealista. Come non scorgere, ad esempio, nell’elefante turrito, nato per sortilegio in mezzo al bestiario fantastico, tra un Drago "cinese" dilaniato dai morsi di spietati molossi e la maschera dell’Orco dilatata, con le sue fauci infernali, in una smorfia inquietante, la ricorrente cifra figurativa di tanti quadri di Dalì. Un siffatto delirio nato stranamente e forse per caso, dall’idea messa a punto per un concorso di una nota casa cinematografica americana – che richiedeva il progetto del logo, peraltro vinto da Max Ernst –, fu al centro di reiterate riflessioni dell’artista spagnolo sul delirio di megalomania e di potere in cui spesso l’uomo degenera. Un delirio efficacemente emblematizzato, non solo in pittura ma anche nella sua scultura, dall’immagine del pachiderma con in groppa il monolito tagliato a forma di torre, in prezioso cristallo di rocca, mentre paradossalmente s’inerpica su mostruose zampe di ragno nel tema ossessivo delle Tentazioni di S. Antonio, caro per motivazioni diverse, ai pittori del genere fantastico, da Bosch allo stesso Max Ernst.

Non a caso nel 1949, "a bordo di una vecchia Augusta, un grande enigmista dell’orrido e dell’inconsueto, Mario Praz, si trovò di fronte alla Casa Pendente – del Parco dei Mostri – e non poté non pensare alla torre in cui si era segregato il pittore manierista Jacopo da Pontormo, uomo fantastico e solitario".

E non stupisce che il già ricordato romanzo del Rinascimento italiano scritto da Lainez, "Bomarzo", imbozzola nelle sue pagine un altro, ben più misterioso, "il romanzo misteriosofico e a chiave che tiene dietro alla grande idea del Parco, una delle più suggestive invenzioni esoteriche della storia dell’umanità".

Ne consegue l’interesse dei tanti autori che in quegli enigmi di pietra hanno voluto trovare le testimonianze incontrovertibili di segreti messaggi esoterici ed alchemici da P. de Mandiargues a E. Zolla a H. Bredekamp.

 

Non mancano a riguardo gli autori inclini a riconoscere nel Parco delle Meraviglie di Pier Francesco Orsini un’ennesima perla di antica saggezza iniziatica che va ad aggiungersi al serto delle grandi "Dimore filosofali" di Fulcanelli.

È convinzione di Giovanni Bettini che, nella nascente curiosità del suo tempo per le bizzarrie manieristiche che non mancarono di impressionare i contemporanei – una prima testimonianza del Parco ci perviene da alcune lettere del poeta Annibal Caro datate 1564 –, lo stesso P. F. Orsini potesse ragionevolmente giungere ad una tale supposta complessità concettuale del suo disegno, solo attraverso le dotte consultazioni di intellettuali aperti a forme di conoscenza esoterica. Ipotesi che non mi sembra in alcun modo infondata, stanti i puntuali riscontri di studiosi così accreditati come Zolla, tra il repertorio plastico delle figure di Bomarzo e l’iconologia ermetica.

L’ambiguità delle interpretazioni e delle reazioni critiche è sempre fatalmente compresente nelle opere dell’arte che nascondono una natura duale divisa tra la sfera dei valori estetici ed una valenza per così dire, criptica meno accessibile dei valori simbolici sottesi alle forme. Non meraviglia che puntualmente questa latente, impenetrabile dicotomia, finisca per sospingere il giudizio fino allo smascheramento e alla dissacrazione dell’opera.

È il caso già sottolineato della critica mossa da G. Carlo Argan ai marmi della Cappella San Severo, giudicati su di un piano squisitamente estetico, esercitazioni mirate al più vacuo virtuosismo; alla stessa maniera di come Moravia è indotto a vedere nella stranezza dell’insolito sito di Bomarzo, qualcosa di simile all'atmosfera ben più profana di un parco giochi.

Non mancano letture diametralmente opposte nell’identificazione delle figure mito-ermetiche. Ad esempio, sulla scorta di un’epigrafe irrimediabilmente mutila ed illegibile – TIR GIGANTE…SCEMPIO… ANGLANTE – G. Bettini, nella sua guida, esorta a vedere in un gruppo scultoreo, l’epica lotta tra Ercole e Caco: "se fissate bene il vostro sguardo su Ercole, noterete nell’espressione serena che non è il "bruto"; il gesto, sì, può essere implacabile, ma l’intenzione è morale, è l’atto di un eroe che trionfa sul male." Laddove, invece, agli occhi di Mandiargues, la scena evoca null’altro che un selvaggio stupro ch’egli così commenta: "l’azione nella sua brutalità semplicemente impietosa, impone agli occhi di fermarsi. Se qualcuno volesse dare una rappresentazione concreta a certi traviamenti dei sensi e dello spirito che si sono spesso impadroniti degli uomini, non potrebbe trovare nulla di meglio di questo gruppo colossale scolpito nella roccia e sperduto in un boschetto verdeggiante".

Del resto tra le premesse dalle quali prende le mosse il nostro stesso progetto Interactive Media, emerge la necessità di un concorso di tutti i molteplici criteri di lettura, sempre metodologicamente diversificati e divergenti, al fine di offrire una conoscenza del mondo dell’arte mai conchiusa in se stessa o in contesti elitari e accademici, bensì disponibile all’originalità di nuove interpretazioni sia pur tentate dagli studenti stessi sotto la guida di docenti, esperti e ricercatori.

Segnaliamo a tal proposito, la recente, originalissima tesi universitaria che porta l’intrigante titolo, "Connessioni con l’Oriente", di Claudia Casoriero e Monica Montagna – relatore il Prof. Celestino Soddu – visionabile sul sito del Politecnico di Milano alla pagina http//progenlab2.dest.polimi/tesi/080/prima.htm .

 

Dopo essermi accomiatato, lungo il "viale delle ghiande", dal mio premuroso anfitrione, al quale rinnovo la mia gratitudine per avermi dischiuso oltretutto, un’ulteriore dimensione del Parco, forse più intima, propria di una giornata invernale che scolora l’usuale patinatura oleografica di certi poster d’agenzia turistica, mi soffermo ancora un momento ai piedi del tempietto che con un ultimo salto di quota, sovrasta i dolci declivi del bosco.

Mi tornano in mente le riflessioni di G. Bettini: "Orsini lo paragonava alla cupola di S. Maria del Fiore, a Firenze, il suo stile composito, la sua forma ottagonale, le sue colonne abbinate, il suo portico tetrastilo, fanno pensare più a Ligorio che al Vignola".

E mi accorgo di essere proprio sul punto di lasciarmi dietro i magici sentieri serpeggianti, ad uno snodo imprevedibile eppure obbligato di un invisibile labirinto nel quale, senza accorgermi, inseguendo un sotterraneo filo rosso, sono stato portato per mano fino a quel momento.

Per un’inconscia associazione, l’epigrafe che corre sulla lapide nel mezzo del sacello del tempio, rievoca una memoria familiare: "... dopo circa 400 anni, per un’altra DONNA, l’Italia ha ancora questo tesoro d’arte unico del suo genere al mondo".

Leggo l’intestazione che dedica il sepolcro a Tina Severi Bettini moglie di Giovanni, poco discosta da quella del figlio Giancarlo scomparso esattamente dieci anni dopo, padre del mio gentile padrone di casa.

Non si può uscire dal parco di Bomarzo, senza rammentare la ragion d’essere che regge il mondo del "Sacro Bosco che solo a se stesso e a null’altro assomiglia".

Infatti, in questo "angolo raccolto, lontano dai rumori, sorge il Tempio che rinnova ogni giorno al Cielo il ricordo di un amore perduto, eternando alle generazioni il simbolo di un’unione". Quella del principe con Giulia Farnese della quale il tempietto commemorò pietosamente la scomparsa, stigmatizzando la ragione ultima dell’ispirazione di Pier Francesco Orsini che attese alla sua mirabile creazione "sol per sfogare il core".

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