italiacuba.jpg (23268 byte) Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba Cubaband.gif (7566 byte)
   America Latina 1999 ] America Latina 2000 ]

Associazione Nazionale
Su
Argentina
Bolivia
Brasile
Cile
Colombia
Costa Rica
Dominicana
El Salvador
Ecuador
Guatemala
Honduras
Messico
Nicaragua
Panama
Paraguay
Perù
Porto Rico
Uruguay
Venezuela
America Latina
Altri Paesi

Nuestra America


 

Un posto attraente, solo questo?
Torna a inizio pagina
novembre 2002 – I Caraibi tentano di dar corpo al Mercato Unico ed Economia Caraibica (MUEC), per cui recentemente il Ministro degli Esteri giamaicano, Kenneth Knight, ha promosso di fronte alla Comunità dei Caraibi (CARICOM) la conformazione di questo strumento, "necessario di fronte alle sfide della globalizzazione".
Previsto per dicembre 2005, il MUEC ha tra le sue aspirazioni quella di essere un istituzione solida in vista dell’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA), promossa dall’Amministrazione statunitense, dove i meno sviluppati resteranno in svantaggio rispetto a prosperi sviluppi come il Canada e gli stessi Stati Uniti.
"L’intenzione del MUEC, ha detto Knight, è quella di rafforzare la zona con una rete di accordi di libero commercio e di associazioni con paesi vicini e con organizzazioni internazionali di fronte a quello che si intravede con l’inizio della creazione dell’ALCA".
Allo stesso modo, i paesi caraibici hanno realizzato passi comuni nei sistematici incontri dei 16 paesi membri del Forum del Caribe (CARIFORUM) e nel suo processo di ristrutturazione, che prevede la creazione di una segreteria tecnica con la comunità anglofona (CARICOM).
Il CARIFORUM è un elemento fondamentale della cooperazione tra le nazioni integranti e contribuisce abbondantemente a rafforzare il potere di negoziato di piccole economie.
Una delle preoccupazioni latenti di questa organizzazione è nella riduzione dell’aiuto dell’Unione Europea, compromesso dall’Accordo di Cotonou, che dei 90 milioni di euro ne ha fornito solo 57. Questo aiuto è imprescindibile per il decollo regionale dell’industria del rum, come pure per il progresso di nazioni come la Guyana e il Suriname in materia di coltivazione, trattamento ed esportazione del riso.
Tuttavia, con il mondo di oggi il nostro continente si sta lasciando dietro la sua "dipendenza" dalle sue attività tradizionali intraprese nell’agricoltura e nella pesca.
Un’analisi della Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi delle Nazioni Unite (CEPALC) indica che c’è stato un cambiamento significativo nei disimpegni insulari dove i servizi hanno rappresentato nell’anno 2000 il 47 % del Prodotto Interno Lordo (PIL) della Comunità dei Caraibi.
I servizi comprendono attualmente tra l’80 e il 90 % del PIL e dell’impiego delle piccole economie e sono a loro volta il principale legame con l’economia internazionale.
Per questo il turismo si è trasformato nella fonte per eccellenza di entrate in divisa per la maggior parte dei nostri paesi e in particolare per quelli dell’Associazione degli Stati dei Caraibi (AEC), un altro dei nostri gruppi di punta.
Norman Girvan, segretario generale dell’AEC, ha segnalato che i servizi costituiscono il punto centrale nel tracciare le strategie economiche nella regione, ma disgraziatamente alcune volte, questi sembrano svolgere un ruolo secondario relativamente ad attività più antiche di tipo agricolo, manifatturiero e di industrie di tipo basico.
Tale visione, argomenta, rallenta l’accesso nell’area dei mercati, aspetto che richiede un maggior approfondimento per portare avanti gli interessi dei paesi caraibici.
Come si può vedere, i Caraibi hanno un insieme di realtà obiettive artefici del destino di ciascuno dei popolo nel realizzarsi in piani concreti, sostenibili e seri di sviluppo, nei quali sono contenute notevoli possibilità anche nei trasporti e nelle comunicazioni.

Il narcotraffico provoca un aumento del crimine nei Caraibi
Torna a inizio pagina
novembre 2002 – La comunità dei Caraibi (CARICOM) ha identificato l’utilizzo della regione per introdurre droghe negli Stati Uniti come la principale causa di un’ondata di violenza senza precedenti che si registra in vari paesi dell’area. Secondo questo ente, il livello del crimine sta raggiungendo proporzioni tali che se continuasse così distruggerebbe le aspettative di sviluppo economico e sociale dei Caraibi. Il gruppo di lavoro, ‘La Forza del Compito contro il Crimine’, è stato creato da poco come parte degli sforzi per affrontare questo male, durante una riunione del Consiglio del CARICOM per lo Sviluppo Sociale e Umano, realizzata lo scorso 26 ottobre in Guyana.

I paesi dei Caraibi con magri risultati della loro promozione turistica
Torna a inizio pagina
novembre 2002 – Tale e quale come è stato reso noto dall’agenzia Reuters, la campagna per attirare turisti ha dato ben pochi frutti nei Caraibi, essendo l’arrivo dei turisti sceso del 9 % nel primo semestre del 2002. I più reticenti a viaggiare sono stati gli statunitensi, ancora sotto gli effetti dell’impressione per gli attentati dell’11 settembre. Questa persistenza è stata comunicata alle Bahamas durante la 25° Conferenza dell’Organizzazione Turistica dei Caraibi (OTC), il cui obiettivo è stato quello di affrontare il peggior periodo del settore nella regione negli ultimi 50 anni.

Congresso delle Municipalità dell’America Latina
Torna a inizio pagina
novembre 2002 – Circa 300 delegati dell’America Latina e dei Caraibi si sono dati appuntamento a Santo Domingo per il 6° Congresso dell’Unione Iboroamericana delle Municipalità (UIM). L’incontro ha sviluppato i suoi dibattiti sulla distribuzione delle entrate tra i poteri pubblici, sul finanziamento dello sviluppo locale e sulla coesione territoriale nel continente. L’appuntamento ha approvato la Dichiarazione di Santo Domingo che raccoglie le prospettive di questa organizzazione non governativa creata agli inizi degli anni ’90, al fine di favorire i processi di trasformazione regionale.

Otto Reich con un piano per ogni paese dell’America Latina
Torna a inizio pagina
novembre 2002 – L’incaricato per l’America Latina nel Dipartimento di Stato nordamericano, Otto Reich, ha detto che ha pensato a un candidato per le elezioni argentine, però non lo ha rivelato, e che il suo paese ha un piano contingente per il Brasile, però non ha indicato quale fosse.. Se Reich fosse argentino ci sarebbe da pensare a una psicopatia diplomatica. Siccome non lo è, bisogna prendere sul serio, persino, i suoi misteri.
Dopo una conferenza sul continente organizzata dal quotidiano The Miami Herald, Reich è stato consultato sul fatto se un’eventuale candidatura di Carlos Reutmann fosse stata in contrasto con la sua benedizione. Noi non abbiamo candidati, neppure in questo paese, ha detto Reich. Personalmente io sì, ho un candidato in questo paese, ma come diplomatico suppongo che non devo mostrare alcuna preferenza.
Durante gli anni di Ronald Reagan, Reich comandò l’Ufficio Diplomatico che, secondo quello che ha relazionato il ricercatore Roy Gutman nel suo libro ‘Banana diplomacy’, era incaricato di diffondere dati manipolati per influire sull’opinione pubblica e favorire i contras antisandinisti.
Tre settimane fa, il funzionario, la massima autorità del Dipartimento di Stato per le relazioni con l’America Latina, citò Carlos Ménem parlando della corruzione nella regione. Dopo volle smentire, ma la giornalista di ‘El País’ che aveva raccolto le sue dichiarazioni, provò l’esattezza del suo articolo.
Reich disse che un accordo con il Fondo era possibile, affermazione che già suona vuota se non è datata, e si ritrovò in compagnia su questo pronostico da uno dei sottosegretari del Tesoro, Kenneth Dam. Aggiunse che varie relazioni sull’Argentina indicavano che l’economia tende alla stabilità e, apparentemente, la situazione sembrava aver toccato il fondo.
A Miami, il 15 ottobre, Reich ha dato una confusa opinione sul Brasile. Quando gli venne chiesto su Luiz Inacio Lula da Silva, al primo posto nelle previsioni per il ballottaggio del giorno 27 ottobre, segnalo: "Lavoreremo con chi verrà scelto dal popolo brasiliano nello sviluppo di un paese che è fondamentale per la salute economica dell’America Latina, e niente indica che non possiamo lavorare con il futuro Governo brasiliano". Disse anche che il suo paese aveva pensato a un piano di contingenza per il Brasile. Non risultò chiaro nelle parole di Reich perché vi fosse questo piano. Secondo l’inviato dell’agenzia argentina Télam, si tratta di un programma per aiutare le aziende nordamericane nel caso di una cessazione dei pagamenti brasiliani. Secondo l’agenzia spagnola EFE, il piano di contingenza si riferisce a una "sinistrizzazione" intollerabile da parte di Washington.
Mentre il Brasile continua a essere un paese amico e democratico, un paese con il libero mercato e che appoggia l’iniziativa privata, siamo molto ottimisti riguardo al futuro di questo paese, ha affermato Reich in una dichiarazione che può essere interpretata come un semplice augurio o come un condizionamento.
Sia un’interpretazione politica o sia un’interpretazione economica, la serie di affermazioni del Sottosegretario di Stato per i Temi Interamericani si complementa con quanto detto da Bob Zoelick, con un incarico equivalente a quello di Ministro del Commercio Internazionale nel Governo di George W. Bush. Questo ha dichiarato a ‘The Miami Herald’, che quando il suo Governo parla dell’Area di Libero Commercio delle Americhe è perché vogliamo fare la prima offerta all’America Latina, perché lì ci sono i nostri soci più vicini.
Commentando un possibile trionfo di Lula e un cambiamento di rotta del Brasile, il Sottosegretario di Stato, Reich, ha detto che se essi decideranno che vogliono andare in un’altra direzione, se essi vogliono prendere la direzione sud, verso l’Antartide, noi guarderemo verso est o ovest.
Nella conferenza di Miami, l’opinionista di ‘Folha do Sao Paulo’, Clovis Rossi, ha approfittato per domandare a Zoelick la sua opinione sulla definizione di Lula riguardo al fatto che l’attuale progetto dell’ALCA è un’annessione e non un’integrazione. L’ALCA è una scelta per il Brasile, non un’esigenza.
Il funzionario ha usato la tribuna della conferenza per riaffermare l’appuntamento del 1° novembre in Ecuador, dove verranno stabiliti calendari fissi per l’apertura dei mercati. Quella del 2003 è in discussione. Il Brasile accetterebbe che fosse a Miami, sempre che quella del 2004 si realizzasse in una città del Brasile. E le date non sono a capriccio, perché nel 2005 dovrebbe iniziare l’integrazione effettiva. Lula ha promesso, come candidato, che non vuole affrettare l’apertura dei mercati, perché questo presupporrebbe la distruzione dell’industria brasiliana.
Il fantasma di un Lula violentemente antiamericano esisteva in maniera informale, però solida, nella conferenza di Miami, anche se molti hanno citato le ripetute dichiarazioni di Marco Aurelio García, uno dei possibili Ministri degli Esteri di Da Silva, sul fatto che solamente un pazzo si dedicherebbe a lottare stupidamente con gli Stati Uniti. García è anche il teorico ‘lulista’ di una posizione diplomatica: il Brasile deve dispiegare il suo potere di trattativa a partire dal Mercosur, e affinché questo funzioni prima deve consolidare le sue relazioni bilaterali con l’Argentina, anche più in là di qualsiasi differenza commerciale.
La mercantilizzazione del Mercosur è la posizione di molti esportatori brasiliani di prodotti primari e di alimenti, offuscata dalla concorrenza argentina. Edmund Klotz, presidente dell’Associazione Brasiliana degli Industriali Alimentari, ha detto che preferisce i cinesi come soci commerciali. Ha citato come esempio di problema lo scarso mercato che rappresenta l’Uruguay e ha detto che con l’Argentina, il Brasile ha problemi riguardo al pollame, al caffè e allo zucchero.

Proteste in Messico e nell’America Centrale contro l’ALCA e il Piano Puebla-Panama
Torna a inizio pagina
ottobre 2002 – Migliaia di indigeni, contadini e attivisti sociali hanno protestato il 12 ottobre in diversi punti del Messico e dell’America Centrale contro l’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA) e contro il Piano Puebla-Panama (PPP), durante la commemorazione della Giornata della Razza.
I manifestanti hanno realizzato blocchi stradali, chiusura di posti di frontiera e piantonamenti in ripudio alle politiche neoliberiste.
Il PPP è un progetto di sviluppo del Governo messicano per il sud-sudest del Messico e dell’America Centrale.
Nello stato sud-orientale messicano del Chiapas, alla frontiera con il Guatemala, simpatizzanti dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) hanno chiuso in maniera simbolica una base militare a 12 km. dalla città di San Cristóbal de las Casas.
Nella capitale statale, Tuxtla Gutiérrez, gruppi di contadini e di indigeni hanno bloccato gli accessi principali della città.
Vi è stata pure una marcia di gruppi antiglobalizzazione, indigeni e contadini, a Città del Messico, in cui è stato chiesto il rispetto dei diritti degli indigeni e sono stati respinti i piani neoliberisti.
In Guatemala sono stati realizzati blocchi di posti di frontiera sulla linea vicino al Messico. Daniel Pascual, dirigente del Coordinamento Nazionale delle Organizzazioni Contadine, ha comunicato all’agenzia DPA che nel dipartimento nord-occidentale di Huehuetenango è stato bloccato il passaggio della frontiera. Oltre a protestare per "la dignità e per i diritti degli indigeni e dei contadini", i manifestanti hanno espresso il loro rifiuto alla costruzione, nell’ambito del PPP, di una centrale idroelettrica sul lato messicano del fiume di confine Usumasinta, il più grande dell’America Centrale.
A El Salvador, la Rete di Azione Cittadina di fronte al Commercio e agli Investimenti SINTITECHAN, che riunisce 50 organizzazioni contadine, sociali, lavorative e ambientali, ha bloccato le strade, le dogane e i ponti di El Salvador per due ore con l’appoggio di circa 5.000 persone.
A Managua, i sindacati e gli organismi sociali hanno fatto una protesta di fronte alla sede della Banca Interamaricana di Sviluppo (BID) contro la privatizzazione delle aziende dei servizi di base e in rifiuto al PPP e all’ALCA. In Honduras migliaia di indigeni hanno sfilato a Tegucigalpa protestando contro le politiche governative, come pure contro le iniziative del PPP e dell’ALCA. La marcia ha fatto sfilare rappresentanti delle sette tribù che riuniscono i popoli indigeni honduregni.

Gli esperti propongono un commercio aggressivo
Torna a inizio pagina
ottobre 2002 – Secondo l’Istituto Interamericano di Cooperazione per l’Agricoltura (IICA), l’America Latina e i Caraibi devono adottare un nuovo modello di commercio agricolo, che assegni una maggiore importanza alla promozione dei prodotti e alle nuove richieste dei consumatori.
Studi tecnici dell’IICA considerano necessaria una strategia aggressiva per modificare la mentalità dei dirigenti del settore nella regione e dimostrare che l’agricoltura è redditizia.
"Se io avessi una bacchetta magica la prima cosa che farei sarebbe quella di cambiare i Ministeri dell’Agricoltura dell’America Latina e dei Caraibi", per trasformarli in centri di "agroaffari", che promuovano l’inserimento dei loro paesi nel competitivo mondo globalizzato, ha detto il direttore dell’IICA, Chelston Brathwaite.
"Molti settori agricoli della regione sono fuori dal mercato mondiale, perché i loro produttori la unica cosa che fanno è quello di vendere ad aziende multinazionali, che alla fine sono quelle che ci guadagnano", ha commentato.
Una ricerca realizzata da questo organismo dell’Organizzazione degli Stati Americani e dalla Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi segnala che i prodotti più dipendenti dal commercio internazionale hanno avuto uno scarso aumento nell’ultimo decennio.
Il cotone, il grano, il caffè, la canna da zucchero, le banane e l’uva sono alcuni di questi prodotti che negli anni ’90 hanno avuto una recessione o, nel migliore dei casi, sono cresciuti appena dell’1 % all’anno.
"Non possiamo continuare a dedicarci semplicemente a prodotti primari, dobbiamo dar loro un valore aggiuntivo e per questo dobbiamo cercare nicchie specifiche nel mercato mondiale", ha aggiunto Brathwaite, rappresentante di Barbados.
L’agricoltura rappresenta il 7.8 % del Prodotto Interno Lordo (PIL) dei paesi dell’America Latina e dei Caraibi, ma esperti dell’IICA hanno assicurato che l’impatto economico reale di questo settore nell’economia regionale è molto maggiore per il concatenamento generato ad altre attività.
Nell’America Latina e nei Caraibi vivono oltre 500 milioni di persone che tutti i giorni hanno bisogno di mangiare, per questo dobbiamo capire che l’agricoltura è un buon affare e che in questa attività gira molto denaro", ha precisato Brathwaite.
Ha sostenuto, inoltre, che la regione deve approfittare della sua biodiversità per soddisfare nuovi consumatori nel mondo, come quelli che richiedono prodotti altamente specializzati..
Per esempio, Brathwaite, ha segnalato che gli agricoltori latinoamericani che coltivano caffè dovrebbero specializzarsi in maniera organica o con sapori differenti per affrontare la caduta dei prezzi di questo prodotto sul mercato internazionale.
La popolazione rurale dell’America Latina e dei Caraibi ammonta, attualmente, a 124 milioni di persone, che equivale al 25 % degli abitanti della regione, 10 punti di percentuale in meno rispetto agli anni ’80.
Questa tendenza ad abbandonare le zone rurali incide in modo diretto nella capacità di produzione agrozootecnica, in quanto si riduce in maggior misura la popolazione economica attiva nel settore.

Il TLC tra America Centrale e Stati Uniti allargherà il divario sociale
Torna a inizio pagina
settembre 2002 – Il Trattato di Libero Commercio (TLC), che l’America Centrale e gli Stati Uniti intendono concertare, amplierà il divario sociale tra ricchi e poveri nella regione dell’Istmo, ha riconosciuto a San José, in Costa Rica, il prestigioso accademico Roberto Artavia.
Durante le discussioni intere sulla firma di un TLC, il rettore dell’Istituto Centroamericano di Amministrazione di Aziende (INCAE) ha considerato che il meccanismo "miracoloso" lascerà senza posto i settori meno qualificati e colpirà l’economia nazionale dei paesi dell’area.
Nell’attuale era della globalizzazione i meno capaci e i meno produttivi vengono lasciati indietro e diventano sempre più poveri, e questo accadrà con i produttori agricoli e con gli artigiani, soprattutto del Nicaragua e dell’Honduras, che sono maggiormente sensibili a questo impatto, ha affermato in modo critico.
Artavia ha spiegato alla stampa locale che gli abitanti e i settori produttivi di queste due nazioni non hanno le capacità necessarie per sopravvivere in mezzo a una maggiore apertura del commercio agli Stati Uniti.
Così come appare scritto in un messaggio di Prensa Latina, per il rettore dell’INCAE, il paese centroamericano che non riesca a trasformare la propria piattaforma produttiva, vale a dire, che non acquisirà una maggiore stabilità economica e una maggiore diversificazione delle sue esportazioni, potrebbe affrontare una crisi sociale di grande portata.
Intanto, la settimana scorsa il segretario di Stato nordamericano per gli Affari dell’America Latina, Otto Reich, ha invitato i centroamericani a dare impulso ad azioni di governabilità e di risanamento delle finanze, in vista di spianare la strada per il futuro accordo, dato che a suo giudizio questi sono i principali ostacoli per un’integrazione.

Il CARICOM con una pesante agenda commerciale
Torna a inizio pagina
settembre 2002 – La Riunione del Consiglio per il Commercio e lo Sviluppo Economico del CARICOM (COTED nella sua sigla in inglese), che si è tenuta a Puerto España a metà di settembre, è stata significativa in più di un aspetto.
Ha messo in evidenza l’importanza cruciale degli assetti nel campo del commercio estero nel futuro della Comunità dei 15 Membri – allargata con l’adesione formale di Haiti nel mese di luglio – e la portata e la complessità dell’Agenda dei Negoziati Commerciali.
Sono state portate a termine revisioni dell’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA), dell’Accordo di Società Regionale Economica, dell’Unione Europea e del gruppo Asia, Caribe, Pacifico (ACP) e del processo dell’Organizzazione Mondiale di Commercio (OMC).
Questi tre palcoscenici di negoziati interessano lo spettro totale delle esportazioni di beni e di servizi che servono di sostegno alle piccole e aperte economie del CARICOM.
Per l’ALCA si dovranno completare i preparativi per la Riunione Ministeriale a Quito, in Ecuador, agli inizi di novembre.
I negoziati con l’Unione Europea (UE) sull’Accordo di Società Regionale Economica, inizieranno alla fine di settembre a Bruxelles.
Inoltre, a Ginevra, sta procedendo un intenso Programma di Lavoro dell’OMC per la V Riunione Ministeriale del prossimo anno, a Cancún, in Messico.
Ci sono temi comuni "che si incrociano" nei tre spazi dei negoziati, tra questi spiccano il Trattamento Speciale e Differenziato per le piccole economie e il trattamento per i prodotti agricoli e per i servizi.
In tutti questi temi, COTED affronta i difficili compiti di considerare le implicazioni economiche di accordi alternativi e di armonizzare le posizioni di negoziato di un gruppo di 15 membri con un’ampia diversità nelle loro economie.
La riunione di Puerto España ha anche enfatizzato drammaticamente il ruolo centrale di COTED nel coordinamento politico di queste posizioni.
La grande maggioranza dei Ministri del Commercio erano qui, come i rappresentanti della Repubblica Dominicana e di Cuba, che sono membri della macchina di negoziati regionali del CARICOM, che rappresenta la regione nelle discussioni internazionali.

Siccità: sinonimo di maggiore povertà
Torna a inizio pagina
settembre 2002 – Alcune volte per eccesso e altre per difetto, ma quello che è sicuro è che l’America Centrale ha una relazione molto speciale con l’acqua che scende dal cielo, dove questa volta è mancata la sua caduta in diversi insediamenti della regione fino a diventare in una reale siccità.
El Salvador, l’Honduras, il Nicaragua e il Guatemala, secondo il Programma Mondiale di Alimenti (PMA) dell’ONU, sono sul punto di una nuova situazione di fame come conseguenza del deterioramento dell’agricoltura e del consumo dell’acqua per le loro necessità.
Christiane Berthiaume, portavoce di questa agenzia internazionale, ha affermato che circa centomila persone avranno carenza di viveri, situazione che sarà un po’ alleviata, in una certa misura, con l’arrivo delle quote di aiuti alimentari del PMA, che tuttavia risulteranno insufficienti.
La parte sud del territorio honduregno incomincia a sbriciolarsi con facilità nelle mani dei contadini, che non possono fare nulla di fronte al deterioramento dall’80 al 100 % del loro raccolto, per la mancanza di piogge.
Il mais, il sorgo e le leguminose non hanno potuto arrivare ai mercati locali, perché la loro crescita è rimasta a metà, facendo mancare circa 13.000 tonnellate di alimenti.
In questa occasione il Guatemala ha visto ridursi la sua piovosità media, dando luogo a maggior fame e al riapparire di malattie, fatto per il quale sono stati mobilitati aiuti, un’altra delle tragiche pennellate di un paese in cui l’80 % dei suoi abitanti possono essere definiti poveri.
Circa 14.000 ettari persi è il saldo che per il momento presentano Nicaragua ed El Salvador di fronte a questo fenomeno, pertanto è prevedibile un rialzo negli indici di povertà di queste due nazioni.
Solo per citare un esempio, , il 44.5 % della popolazione salvadoregna vive con meno di due dollari al giorno e un altro 21 % vive con meno di uno. A questo vanno aggiunte le difficoltà nazionali derivate, da poco tempo, dalla crisi del caffè che ha raggiunto nel 2000-2001 limiti catastrofici.
Gli oppositori del Governo e in particolar modo i più progressisti accusano il Governo di negligenza e di cattiva gestione, dato che le inondazioni e la siccità sono frequenti nella regione, pertanto è un fatto che avrebbe dovuto essere preso in considerazione quando si pianifica il bilancio preventivo nazionale in vista di prevenire tali disastri, dove le difficoltà ricadono sempre sugli umili.
Lo scorso anno, l’America Centrale è stata vittima di una simile carenza di acqua, che ha colpito circa 1.5 milioni di persone, quasi tutte delle zone rurali.
Pare che i disastri naturali abbiano una certa ‘predilezione’ per i centroamericani, che dal 1997 hanno avuto poca tregua, quando El Niño li ha lasciati in mezzo a un’acuta siccità, preambolo indesiderato delle torrenziali piogge di dodici mesi dopo, provocate dall’uragano Mitch, una delle più grandi tragedie naturali e umane della fine del secolo scorso.

Andrai a scuola?
Torna a inizio pagina
agosto 2002 – Oltre un secolo fa sarebbe stato una cosa strampalata domandarsi se vi fosse la necessità di stabilire un sistema di insegnamento generalizzato per i bambini e le bambine, dato che questi erano considerati muscoli ed energia per lavorare. Con il successivo raggiungimento delle conquiste sociali, anche in America Latina questo obiettivo cominciò a ricoprire un maggiore interesse in quanto i bambini hanno cominciato a essere visti attraverso l’ottica della protezione umana per non dire come un sinonimo di futuro.
Ancora oggi, a queste latitudini i contrasti rimangono, e da una parte all’altra vi sono scenari contraddittori: piccolini agghindati e pieni di coccole con superbi computer o i classici lustrascarpe o ladruncoli truffaldini in fuga dopo un furto. E questa è la faccia della realtà meno dolorosa, ci sono quelli che muoiono per colpi di arma da fuoco o per abusi sessuali.
Per questo, ottenere un inserimento totale dei più giovani nei sistemi di insegnamento è, forse, la principale priorità del continente, aspetto che richiede, inoltre, risorse di volontà politica.
In America Latina, due milioni di bambini non frequentano l’insegnamento primario e circa 20 milioni di adolescenti non si sono mai presentati in un’aula per proseguire gli studi fondamentali, che anche se non costituiscono un trampolino sicuro per "essere" qualcuno di successo nella vita, secondo i modelli occidentali di benessere, li preparano teoricamente sulle questioni fondamentali e utili.
Secondo uno studio dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO), recentemente diffuso a Parigi, i paesi latinoamericani presentano alti indici di abbandono e di ripetizione, rivelando un problema di qualità nei loro sistemi educativi.
L’Istituto di Statistica dell’UNESCO è stato incaricato di elaborare questa relazione, che comprende dati su 19 paesi dell’America Latina: Argentina, Bolivia, Brasile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Cile, Ecuador, El Salvador, Guatemala, Honduras, Messico, Nicaragua, Panama, Paraguay, Perù, Repubblica Dominicana, Uruguay e Venezuela, con grafici statistici per ognuno di questi.
L’inserimento degli indigeni alle opportunità che offre la società in tutte le sue varianti alla popolazione è stato uno degli aspetti più criticati in detto studio.
Venezuela e Bolivia hanno cercato di instaurare interventi complessi per controvertire l’abbandono dei loro antenati etnici, elaborando piani particolareggiati, come il riconoscimento degli idiomi autoctoni e il ruolo dell’insegnamento orale nell’apprendimento del sapere.
Il documento dell’UNESCO fa riferimento, in tal senso, alla Dichiarazione intergovernativa di Cochabamba, dello scorso marzo, che ha riconosciuto l’imperativo del fatto che l’insegnamento venga impartito sia nelle lingue indigene sia in quelle ufficiali.
Allo stesso modo, l’ente delle Nazioni Unite riconosce l’aumento del numero di bambini e di bambine scolarizzati con un tasso di inserimento in ogni paese di almeno l’80 %.
Le zone rurali continuano a essere le "cenerentole" senza "fate" né tocchi di campane alle 12 della notte, poiché due minori su cinque non terminano le elementari o lo fanno con almeno due anni di ritardo. Un bambino o una bambina della campagna su sei, si sporcano i piedi per rivoltare la terra e non oltrepassano mai il cortile di una scuola.
Tra i successi regionali in materia dell’educazione, l’UNESCO riconosce che Argentina, Bolivia, Brasile, Cuba, Ecuador, Messico e Perù sono riusciti a estendere a tutti l’educazione elementare, mentre Uruguay e Venezuela sono molto vicini al raggiungimento di questa meta.
Questi progressi non devono far passare in sottordine, tuttavia, i problemi derivati dalla qualità dell’educazione, riflessi dagli alti indici di abbandono e di ripetizione. Per gli altri, bisogna ricordare le disuguaglianze economiche esistenti, che comportano una disuguaglianza nel tema dell’insegnamento.
Inoltre, la posizione socio-economica della famiglia condiziona, allo stesso modo, l’accesso alla educazione media-generale di un bambino o di un giovane, sia in senso positivo sia in senso negativo.
L’UNESCO ha manifestato preoccupazione per la continuità degli studi a livello superiore, arrivando a ipotizzare che l’entrata all’Università ritorni a essere uno dei traguardi principali dei Governi latinoamericani, dato che la media regionale è di poco meno del 20 %.
Su questo punto, le differenze sono significative tra un paese e un altro. Per esempio, in Argentina è del 47 %, nonostante la crisi, e al contrario nonostante la relativa stabilità politica in Nicaragua è solo del 12 %.
Andrai a scuola?, torna a essere la domanda obbligata in molti ambiti familiari latinoamericani. La suoneria della sveglia non è uguale per tutti, né il sistema degli studi è ancora accessibile a tutti.

La terra delle scoperte
Torna a inizio pagina
agosto 2002 – Veniamo da essa e verso essa andiamo, dato che la terra è il nostro mantello di protezione o lo spazio che ci permette la socializzazione con altri della nostra specie che, in numero sempre maggiore, si impegnano per custodirla, facendo delle sue risorse un potenziale di vita a lungo termine.
Ma alla fine l’attività umana ha bisogno di responsabili di analisi e di punti di riferimento, e in questo senso il Progetto Prospettive dell’Ambiente Mondiale (GEO), delle Nazioni Unite, recentemente diffuso, è un mezzo utile, in particolare per l’America Latina e i Caraibi, una delle zone più esuberanti del pianeta.
Quando Cristoforo Colombo si è messo in testa di arrivare alle Indie attraverso una via più diretta, la cultura universale ha aperto il suo ampio spettro di possibilità e la "scoperta" di un continente sconosciuto cambiò il corso della storia.
La natura colpì le menti dei primi navigatori e la bellezza dei suoi paesaggi rimase loro impressa, come una fotografia indelebile raccontata poi al loro ritorno. Attualmente, il panorama è abbastanza mutato, nonostante, tuttavia, ci siano rimasti molte foreste, fiumi, città e gruppi etnici da salvare e da proteggere.
Circa un quarto del totale dei boschi a livello mondiale, ossia 834 milioni di ettari di boschi tropicali e 130 milioni di altro tipo, fa parte del patrimonio naturale di questo continente, per cui Argentina, Bolivia, Brasile, Colombia, Messico, Perù e Venezuela si vantano del fatto di avere un terzo della riserva mondiale di legname.
Sotto la loro ombra si sono sviluppati modi di vivere singolari, che definiamo indigeni, ma i loro legami con l’ambiente conformano una visione più equilibrata e giusta dei diversi cicli della vita che non sarebbe sbagliato imitare nei loro principi di base. Allo stesso modo, gli alberi nutrono l’industria del legname nazionale e di esportazione.
L’America Latina può, inoltre, vanagloriarsi di possedere la metà del "polmone" della terra, poiché nel Bacino dell’Amazzonia si trova la selva tropicale più estesa del mondo, con 20 tipi di selve differenti e una grande diversità di speci uniche, fatto che significa che 7 delle 25 ecoregioni terrestri biologicamente più ricche a livello mondiale si trovano in questa parte del mondo.
Il 30 % del totale dell’acqua mondiale si trova in America Latina e nei Caraibi, per cui le nostre riserve idriche rinnovabili ricoprono un enorme significato per il rifornimento. A questo va aggiunto un particolare valore per attività fondamentali come l’agricoltura e l’industria, elementi generatori, in modo paradossale, di società alle loro stesse fonti di potenziamento.
Il turismo rappresenta il 12 % del Prodotto Interno Lordo (PIL) della regione, e tutto grazie alla quantità di spiagge e luoghi quasi paradisiaci delle zone costiere che ci circondano. il 60 % dei latinoamericani vivono a meno di 100 chilometri dalla costa e 60 delle 77 maggiori città sono costiere.
Ogni anno, circa 100 milioni di turisti fanno le loro valigie per fare un giretto ai Caraibi, meta quasi obbligata per indimenticabili vacanze estive. Il 43 % del PIL della regione ha origine, proprio, da questa affluenza di persone in questa parte del continente per ammirare le sue spiagge o le barriere coralline.
Un altro punto incredibile della nostra quotidianità è dato dalla conformazione di migliaia di città, vie e piazze, insomma, tutto quello che riguarda l’urbanizzazione, che da noi ha livelli elevati del 75 %, e che costituisce pertanto la zona più urbanizzata del mondo. Molti turisti si meravigliano degli agglomerati moderni di Brasilia, di Città del Messico, di Buenos Aires, o rimangono estasiati di fronte al miscuglio di stili di Managua, di Kingston o di La Habana.
Tuttavia, questo continente porta con sé una grande quantità di problemi sociali ed ecologici degni di essere presi in considerazione, non solo dalle amministrazioni locali, bensì anche dalle strategie dei diversi organismi internazionali e dei molti forum del pianeta rivolti ad analizzare lo stato dell’ambiente.
La popolazione della regione è aumentata del 74 % negli ultimi 30 anni, periodo in cui la quantità di persone povere è aumentata in maniera allarmante, sfociando in 200 milioni di poveri, vale a dire il 40 % della popolazione totale dell’America Latina e dei Caraibi.
Con un incremento per niente favorevole si acutizza sempre di più in questo continente la distribuzione disuguale delle ricchezze, che è cresciuta nel decennio appena concluso, dopo l’applicazione del modello economico neoliberista, e che ha prodotto il fatto che i livelli di distribuzione disuguali siano qui quelli più alti del mondo.
Senza potere separare le diverse attività umane dell’economia, l’America Latina e i Caraibi hanno il 32 % del debito estero globale, che è cresciuto da 46.251 milioni nel 1971 a 982.032 milioni nel 1999.
Riguardo alla natura propriamente detta, il continente ha molte cose su cui fare attenzione, dato che delle sue 178 ecoregioni, 31 sono in stato critico di conservazione, 51 in pericolo e 55 sono a rischio. La minaccia si estende anche su 275 tipi di mammiferi, 361 di uccelli, 77 di rettili, 28 di anfibi e 132 di pesci.
L’inquinamento atmosferico costituisce, allo stesso modo, uno dei principali problemi ambientali con grave incidenza sulla salute umana. Inoltre, la desertificazione e i disastri naturali non ci danno tregua, e causano un impatto negativo sull’economia domestica.
Si tratta, allora, di ridurre la vulnerabilità alla quale siamo sottoposti dalla stessa incoscienza delle azioni umane, sia nazionali sia delle aziende straniere, per fare in modo che questa continui a essere una terra di perenni scoperte.

La salute dell’ambiente dipende dall’acqua potabile e dalla bonifica
Torna a inizio pagina
agosto 2002 - Quando si esaminano stime da cui risulta che 70 milioni di abitanti dell’America Latina non hanno accesso all’acqua potabile, appare evidente che ci si trova di fronte a un problema grave, che è diventato prioritario per l’Organizzazione Panamericana della Sanità (OPS), in modo particolare in seguito alla ricomparsa del colera nel 1991.
"Per quanto riguarda l’accesso all’acqua e la bonifica, la situazione rimane critica. Infatti, nonostante la copertura del servizio sia stata ampliata, permangono vaste aree scarsamente raggiunte dalla rete idrica, come i quartieri periferici delle città o le zone rurali" spiega il dottor Mauricio Pardón Ojeda, direttore del Dipartimento di Sanità e Ambiente della OPS.
A suo avviso, questa è la conseguenza della mancanza di investimenti adeguati nel settore.
D’altra parte, non si tratta soltanto di estensione insufficiente della rete idrica; il problema riguarda anche la qualità di tale servizio e quindi dell’acqua stessa. A dimostrazione della sfiducia della popolazione nei confronti della purezza del liquido che esce dai rubinetti delle abitazioni c’è il prosperare dell’industria delle acque minerali.
Il Programma di Bonifica di Base della OPS sostiene le politiche statali impegnate a estendere all’intera popolazione le infrastrutture e i servizi necessari a soddisfare le esigenze di base relativi alla sanità ambientale.
Gli obiettivi principali del programma riguardano la riduzione dei rischi sanitari ambientali connessi all’insorgenza di malattie diarroiche, da attuarsi attraverso l’estensione dell’accesso all’acqua e alla bonifica; il miglioramento della qualità dell’acqua; il consolidamento delle strutture e istituzioni che operano nel settore. La stessa OPS sta riconsiderando le modalità del suo supporto tecnico nei prossimi dieci anni, comprese nuove strategie per risolvere il problema dell’acqua e della bonifica. I progetti futuri riguarderanno in particolare le zone rurali, i comuni di media grandezza e le zone urbane periferiche, contando sulla partecipazione attiva delle stesse comunità.

Analisi della situazione di corruzione nella regione caraibica
Torna a inizio pagina
agosto 2002 - Un Simposio Regionale promosso dal Programma di Controllo delle Droghe dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), della durata di due giorni, ha avuto luogo a Barbados. L’obiettivo dell’incontro è stato l’analisi del ruolo dei mass media e la denuncia contro la corruzione. All’incontro hanno partecipato rappresentanti di stampa, radio e televisione di Barbados, Guyana, Giamaica, Trinidad e Tobago.
Al centro delle discussioni, la ricerca di vie per la collaborazione nella lotta dei Ministeri caraibici contro il flagello della droga e dei guadagni illegali realizzati dal suo traffico.
All’appuntamento hanno partecipato l’ex presidente della Banca Caraibica dello Sviluppo, Neville Nicholls, e Rosina Wiltshire, rappresentante dell’ONU a Barbados e nei Caraibi Orientali.

Gli orsi andini invocano protezione
Torna a inizio pagina
agosto 2002 - In America Latina 275 specie di mammiferi sono in pericolo d’estinzione, uno dei più vulnerabili è l’orso. Sebbene sia l’animale più versatile degli spettacoli circensi, e anche uno dei più sorprendenti data la sua imponente figura che supera la statura umana, e malgrado lo si tema molto, è forse uno dei più perseguitati del regno animale. Gli esemplari che vivono nel Sud America non costituiscono un’eccezione: è questa la ragione per cui si cerca di proteggerli.
L’Orso dagli occhiali od Orso Frontino, la cui denominazione scientifica è Tremarctos Ornatus, passeggia ora con diffidenza e non con la maestosità che lo caratterizzava precedentemente, per la Cordigliera delle Ande, da Mérida, a ovest del Venezuela, passando per la Colombia, Ecuador, Perù fino a Porta, provincia boliviana.
Si crede perfino che alcuni siano arrivati isolatamente nel nord-est argentino e i più intrepidi a Panama, oltre la frontiera del Parque Nacional de los Katios, in Colombia.
Attualmente è in pericolo d’estinzione il che sarebbe un peccato per questo bell’esemplare, arrivato nel continente 16 mila anni fa. La deforestazione è stata un duro colpo per il suo habitat e la caccia per la sua stessa vita.
La fondazione senza scopo di lucro Eco Ciencia, in Ecuador, si è impegnata a responsabilizzare la società, poiché quest’orso è molto suscettibile rispetto ad altre specie americane come il puma o il giaguaro, data la sua bassa variabilità genetica non si adatta facilmente ad ambienti nuovi.
Il Ministero dell’Ambiente colombiano avvierà una campagna per informare le comunità contadine, che l’Orso Frontino non minaccia il bestiame e le coltivazioni, ma è un grande ‘rastrellatore’ naturale di grandi varietà di speci vegetali e del corso di fiumi.
La Colombia propone anche il suo inserimento nella lista delle speci in via d’estinzione, nella prima Appendice I della Convenzione sul Commercio Internazionale delle Speci Minacciate di Fauna e Flora Silvestre.

I Caraibi ratificano un piano di prevenzione contro la droga
Torna a inizio pagina
luglio 2002 – Una Terza Riunione Regionale dei Caraibi si è svolta a Paramaribo, alla quale hanno partecipato rappresentanti di Granada, Guyana, Giamaica, St. Kitts e Nevis, Trinidad e Tobago, Suriname, che hanno ratificato il documento del progetto dei Caraibi sulla prevenzione dell’abuso di droga e per una politica orientata verso i bambini. I caraibici hanno evidenziato che il tema dell’abuso di droga va affrontato in modo globale, nei diversi settori e in maniera esauriente, che tenga in conto le leggi nazionali in cui tutti i settori siano coinvolti.

Il CARICOM Critica le barriere commerciali
Torna a inizio pagina
luglio 2002 – La Comunità dei Caraibi (CARICOM) ha avvisato che i paesi della regione manterranno il loro sistema tariffario fino a quando i paesi sviluppati continueranno ad applicare altri tipi di barriere commerciali. Dopo vari giorni di sessioni tenute in Guyana, il 23° forum ha criticato la Legge Agricola degli Stati Uniti che assegna importanti sussidi a varie produzioni, e allo stesso modo ha considerato che per instaurare l’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA), sarà necessario valutare i tipi di dazi, perché questi costituiscono l’unica difesa delle economie deboli, ed è stato proposto inoltre che vengano tenute in conto le limitate capacità dei membri di questo raggruppamento regionale

Un virus chiamato Argentina
Torna a inizio pagina
luglio 2002 – Un ironico sorriso affiora tra gli occupanti dei confortevoli uffici del Fondo Monetario Internazionale (FMI), dopo che il gioco del giorno è quello di scommettere sul collasso o sulla ripresa della terza economia dell’America Latina. Una smorfia di preoccupazione segna i sudamericani, perché la regione è in pericolo di fronte all’arrivo di un nuovo virus, non si sa se di influenza o di informatica. L’Argentina, nel frattempo, si ritrova tra gli assassini e la crisi generalizzata.
La parola dubbio è sparita dal vocabolario locale, poiché le certezze si sono insediate nella vita quotidiana argentina quasi senza ritorno o, almeno, con poche probabilità. Certezze di disoccupazione, di fame, di indigenza, di scandali politici, di inflazione, di svalutazione della moneta e di caduta della produzione industriale.
Tale come lo dimostra uno studio della Fondazione di Ricerche Economiche Latinoamericane, i dieci principali articoli di produzione non sono riusciti a raggiungere quest’anno i loro livelli precedenti, per cui l’attività industriale di questa nazione è diminuita di un 15 % rispetto al 2001.
Il settore automobilistico ha avuto una caduta del 49.9 %, quello metalmeccanico del 42.1 %, quello minerario non metallico del 32.5 %, gli articoli tessili del 29.5 % e gli alimenti e le bevande del 14.5 %. A questo bisogna aggiungere una svalutazione della moneta nazionale del 6.6 % all’apertura del mercato libero, circa quindici giorni fa., con una quotazione record di 3.96 come risultato dell’acutizzazione delle vicissitudini economiche.
Dopo avere chiesto soccorso e dopo avere criticato leggermente gli Stati Uniti per non avere adempiuto alle loro responsabilità globali, Eduardo Duhalde, Presidente dell’Argentina, si impegna ad aggrapparsi a una presunta tavola di salvataggio arrivata con la mareggiata di un credito "stand by" del FMI.
Da questo aspetta una "spintarella" di 18 milioni di dollari che propizierà un ri-finanziamento delle scadenze del debito di quest’anno, il cui ammontare è di 9.000 milioni.
Il direttore generale del FMI, Hornt Kohler, ha indicato che c’erano stati progressi nei negoziati, che tradotti nel lessico popolare voleva dire timidi passi in avanti ma di poco.
Però intanto che questo avviene, e questa decisione sembra dormire nelle "calende greche", le possibilità di "contagio" per l’America Latina accelerano sempre di più, come se l’economia regionale fosse connessa a una rete informatica interdipendente o fosse una sala di un ospedale alla mercé di un virus mortale.
Per José Antonio Ocampo, che conduce la Commissione Economica per l’America Latina (CEPAL), quest’anno sarà il secondo consecutivo di crollo del Prodotto Interno Lordo (PIL) per una parte importante del continente.
La sfera commerciale e quella degli investimenti sono le più colpite dal cosiddetto fenomeno Tango, che ha inciso negativamente nei flussi degli investimenti stranieri diretti, dove, forse, anche la decelerazione dell’economia mondiale ha messo il suo granello di sabbia.
Molti sono stati, tuttavia, i campi di contagio, in evidenza quello del lavoro, i cui esempi più evidenti sono i paraguayani e i boliviani, lontani dal mercato del lavoro argentino. Inoltre, la moneta della Bolivia ha sofferto una svalutazione, secondo fonti governative, per mantenere la competitività con i prodotti argentini.
Il Brasile, da parte sua, ha subito una drastica diminuzione delle sue esportazioni verso l’Argentina, oltre al fatto di vivere sottoposto a un’acuta turbolenza finanziaria, con una svalutazione della moneta nazionale del 25 %, oltre ad affrontare serie speculazioni politiche riguardo al futuro Presidente.
Il Messico tantomeno è riuscito a sfuggire dalle lotte dell’attuale situazione argentina. Una forte svalutazione del peso rispetto al dollaro caratterizza il panorama di questo paese che ha tentato di riattivare le sue relazioni con l’America del Sud con un viaggio del Presidente messicano, Vicente Fox.
E nonostante le assicurazioni uruguayane sul fatto che alla loro nazione non sarebbe successo quello che è avvenuto in Argentina, quello che è certo è il fatto che il PIL è caduto quest’anno di oltre il 6 %, l’inflazione ruota attorno al 20 % e la disoccupazione ufficiale è del 15 %. Montevideo, allo stesso modo, si è vista obbligata ad adottare una nuova politica valutaria.
Neppure le notizie che arrivano dal Paraguay sono incoraggianti, dato che Asunción ha bisogno di 275.000 dollari al mese per pagare salari e pensioni, e il ritardo dei pagamenti degli interessi del debito estero già ammonta a 18 milioni di dollari.
Perdendo ogni giorno più credibilità di fronte al mondo e legati alle manovre degli organismi finanziari internazionali, i governi latinoamericani tentano di prendere le distanze dal "virus", tuttavia, lo vogliano o meno, l’Argentina li riguarda molto da vicino.

Privatizzazioni in America Latina o la vendita al "miglior" offerente
Torna a inizio pagina
giugno 2002 – Come un polpo che uccide con i suoi tentacoli, come un’edera che toglie il respiro alle pareti di una casa o come una formula alienante è considerato da molti in America Latina il processo di privatizzazione dei beni dello Stato. Questa opinione è sottoscritta dai gruppi più vulnerabili in relazione alla proprietà e al lavoro o rappresenta il livello più progressista del pensiero latinoamericano.
Per i componenti dei circoli di potere o per quelli che sono al servizio di interessi economici nazionali ed esteri, la stessa questione è giustificata come il rimedio risanatore dell’economia regionale o come la profezia neoliberista di prosperità.
Oltre tremila contadini paraguayani si sono messi in marcia con un percorso di 150 chilometri fino alla sede del Congresso ad Asunción, la capitale, per esigere la deroga della legge 1615. Alla loro manifestazione si sono aggiunti studenti e lavoratori, in quanto questa disposizione promuove la privatizzazione della telefonica statale COPACO.
Belarmino Balbueña, coordinatore della Federazione Nazionale Contadina, ha affermato che il paese si mobiliterà con uno sciopero generale se il Presidente del Paraguay, Luis Gonzáles Macchi, insiste nel trapassare al capitale privato e straniero i beni nazionali.
Le recenti richieste popolari in Paraguay già sono state contrassegnate dallo spargimento di sangue, in quanto lo scorso 4 giugno la polizia ha sparato contro e ha ucciso uno degli occupanti della Piazza del Congresso, che protestava per la vendita della COPACO. Calixto García è morto con una pallottola nel cranio. Altri sei sono stati feriti gravemente.
Da parte sua, la Federazione di Produzione Industria e Commercio (FEPRINCO) ha deplorato la sospensione della privatizzazione della telefonica statale, aggiungendo che il caso della COPACO minaccia altre licitazioni previste dal Governo.
Il Fronte Ampio Civico di Difesa degli Interessi di Arequipa, seconda città peruviana per importanza, ha incoraggiato i propri membri a serrare le fila contro la vendita di quattro aziende elettriche in differenti posti del sud-est del Perù e ha fatto appello a non pagare il consumo di elettricità.
Nella città di Cuzco, nel sud delle Ande, altri seimila lavoratori si sono mobilitati per lo stesso motivo. Allo stesso modo, 12 persone hanno deciso di effettuare uno sciopero della fame come segnale di protesta per l’impegno governativo di dar corpo al processo, quando ha dichiarato, nonostante le proteste, che avrebbe continuato fino alla fine.
Secondo la logica del capitale multinazionale, il modello economico che prevaleva in America Latina comincia a non essere funzionale nel decennio degli anni ’70 del secolo scorso, e pertanto venne diffuso il criterio che la crisi regionale aveva le sue origini nel sovradimensionamento della partecipazione dello Stato nel settore pubblico.
Alcuni governi nazionalisti dell’America Latina, nel periodo tra il 1950 e il 1980, tentarono di aumentare l’occupazione, di ridurre il divario tra le disuguaglianze sociali e di difendersi dalle crisi esterne al riparo delle aziende statali e non lasciare tutto al mercato o alle istituzioni private.
Gli esperti sostengono che questo è stato possibile grazie alle caratteristiche del mondo dove prevalevano le teorie keynesiane o neostrutturali nell’economia borghese, mentre la materializzazione del socialismo dava un’altra dimensione ai problemi universali, mossi sotto altre coordinate.
A partire dall’applicazione delle riforme neoliberiste, i suoi difensori si sono scagliati contro la cosiddetta "inefficienza statale", propugnando i benefici delle privatizzazioni, dando via libera nel 1998 a un episodio senza precedenti: circa 42.000 milioni di dollari entrarono nella regione per le vendite di aziende e di beni dello Stato, accompagnato da una crescente sottomissione alle potenze multinazionali.
L’appropriazione privata delle telecomunicazioni brasiliane TELEBRAS, la vendita in Messico di 360 delle 618 aziende che aveva lo Stato, la consegna delle aerolinee argentine o il caso dell’ente nicaraguense di telecomunicazioni (ENITEL) sono esempi emblematici del processo di privatizzazioni degli ultimi dieci anni.
Secondo i neoliberisti, le aziende pubbliche sono insostenibili, con troppi impegni da compiere, sia commerciali sia politici, e lo Stato è solo una zavorra per gli interessi economici.
Un altro argomento utilizzato si riferisce alla riduzione dell’inflazione, che, insistono, si ottiene con la diminuzione delle spese pubbliche.
Con meno risorse destinate alla salute, all’educazione e alla cultura della popolazione, si potrà trattare in miglior modo un deficit fiscale adeguato, secondo un livello stabilito dal FMI che oggi è collocato al 3 % del Prodotto Interno Lordo (PIL).
L’Argentina, tuttavia, ha smentito la nota ricetta e questa nazione sudamericana si vede coinvolta in una situazione catastrofica di imprevedibili conseguenze. Il Governo argentino ha perso le redini del controllo finanziario a favore delle banche multinazionali e in particolar modo degli Stati Uniti.
Privatizzare è stato, allo stesso tempo, la via "spedita" per sistemare i conti "fuori di casa", poiché l’ammontare del debito estero aumentava ogni volta che venivano sottoscritti nuovi impegni con gli organismi internazionali. E come per l’America Latina le risorse dei pagamenti hanno smesso di essere in eccedenza dagli anni ’80 del secolo XX, la vendita delle risorse nazionali si è trasformata nella raccomandazione "miracolosa".
Per gli interessi neoliberisti, privatizzare ha significato pure una formula per rendere solvibile un debito estero che era completamente in crisi, in quanto i Governi latinoamericani destinavano ogni giorno il denaro a coprire i debiti e non ad ammortizzare gli acuti problemi sociali dei popoli. In questo modo, già oggi Argentina, Uruguay, Colombia, Ecuador e altre nazioni, dopo aver effettuato pagamenti superiori all’ammontare del debito estero, stanno entrando in una nuova situazione di insolvenza dei pagamenti, o vi si stanno avvicinando, così saranno necessari nuovi negoziati con il FMI.
La questione sociale è rimasta nel dimenticatoio. Le privatizzazioni hanno annullato il ruolo dello Stato e la popolazione è rimasta alla mercé della legge dell’offerta e della domanda sul mercato della forza lavoro, ma in una nuova situazione, con la volontà dei sindacati corrosa da recenti leggi che proteggono in modo assoluto le aziende e che facilitano licenziamenti e chiusure, e in conseguenza di questo centinaia di migliaia di persone sono rimaste letteralmente per strada, fatto irrilevante per tecnocrati e politici.

Forti piogge peggiorano la situazione della povertà nell’America Centrale
Torna a inizio pagina
giugno 2002 – I violenti acquazzoni caduti in Nicaragua nelle ultime settimane hanno fatto sì che il Governo di questo paese abbia decretato lo stato di disastro nel Pacifico e abbia mobilitato la Difesa Civile e l’esercito al fine di evacuare 12.995 persone. Secondo la Commissione Permanente di Contingenze (COPECO), le piogge hanno colpito 30.000 persone residenti in 51 dei 151 municipi, distruggendo 1.214 abitazioni, 35 tratti di strada e 22 ponti, con un costo di perdite che ammonta a 4.5 milioni di dollari. Il Triangolo Minerario, Puerto Cabezas e Bilwn, sono state le regioni più danneggiate del Caribe nicaraguense, fatto che preoccupa alcune organizzazioni non governative locali per gli alti indici di abbandono del 50 % della popolazione infantile, che abitualmente beve acqua contaminata e non ha accesso ai servizi di base della salute. Allo stesso modo il Procuratore per la Gioventù e l’Infanzia della Costa Atlantica, Carlos Emilio López, ha riconosciuto che i bambini delle etnie sumus, miskitos, creoles e garifonos sono, in periodi di disastri, i più vulnerabili di tutto il paese. D’altra parte, il direttore di Epidemiologia del Ministero della Salute, Juan José Amador, ha informato sulla possibilità reale di epidemie in tutto il territorio nazionale di malattie come il dengue, la malaria, malattie respiratorie e diarree. Anche in Honduras, El Salvador, Costa Rica e Panama, le precipitazioni sono state considerevoli, e hanno causato in totale 40 morti, 12.000 persone danneggiate e perdite materiali per vari milioni di dollari.

Critica situazione degli emigranti centroamericani
Torna a inizio pagina
giugno 2002 – La VII Conferenza Regionale sull’Emigrazione, effettuata questa settimana in Guatemala, ha discusso il grave panorama di quelle persone che emigrano dall’America Centrale, in particolar modo verso gli Stati Uniti, in cerca di migliori condizioni di vita. Margarita Hurtado, rappresentante della Tavola Nazionale per le Migrazioni in Guatemala, ha denunciato in un evento parallelo, la Rete delle Organizzazioni per le Migrazioni, la mancanza di rispetto per i diritti degli emigranti. La maggior parte dei centroamericani di questa categoria, ha sostenuto la Hurtado, sono trattati come delinquenti o terroristi, fatto che contraddice la Convenzione dell’ONU che ha stabilito nel 1990 il rispetto del libero movimento e il diritto al lavoro, senza tenere conto della loro situazione migratoria. L’attivista si è battuta per un’instaurazione regionale di protezione per le persone in questa situazione che con i loro piccoli invii di rimesse aiutano pure i loro familiari e fanno parte dell’identità nazionale di ciascun paese al quale appartengono.

Grande aspettative latinoamericane alla riunione con il Vertice europeo
Torna a inizio pagina
maggio 2002 – La comunità latinoamericana spera in maggiori livelli di aiuti e di investimenti del vecchio continente nel continente americano. In occasione del II Incontro tra America Latina, Caraibi e Unione Europea (UE), a Madrid, nei giorni 17 e 18 maggio, si negoziano accordi settoriali in materia di scienza, tecnologia, educazione, pratiche doganali e ambiente. Vari Governi latinoamericani hanno espresso che nonostante le differenze di ricchezza e di progetti storici, le due zone geografiche devono insistere per un obiettivo comune per promuovere adeguatamente il commercio, come pure estendere gli ambiti della cooperazione sociale e umana.

Verrà creata la Segreteria dei Caraibi
Torna a inizio pagina
aprile 2002 – Il Forum dei Caraibi (CARIFORUM) istituirà una Segreteria Tecnica strettamente vincolata alla comunità anglofona del CARICOM tendente a potenziare la cooperazione regionale. Edwin Carrington, segretario generale delle due associazioni, ha dichiarato che diventa indispensabile un ente che unisca gli interessi delle due piattaforme come un mezzo per moltiplicare gli interessi dei paesi dei Caraibi. Il funzionario ha avvisato sul difficile periodo al quale verranno sottoposte le piccole economie, portando come esempio la riduzione a 57 milioni di dollari dell’aiuto dell’Unione Europea (UE), che avrebbe dovuto essere per quest’anno di 90 milioni di dollari.

Delusione prevista
Torna a inizio pagina
aprile 2002 – I governanti dell’America Centrale sono rimasti con gli stessi dubbi che hanno preceduto la visita di George W. Bush sull’estensione del permesso temporale di residenza (TSP) per i latinoamericani dell’istmo che risiedono illegalmente negli Stati Uniti e il cui numero oscilla a oltre un milione di persone.
Al suo posto il Presidente nordamericano ha abbozzato un progetto di Trattato di Libero Commercio (TLC), condizionato da maggiori impegni neoliberisti e di appoggio incondizionato alla politica estera attuata dalla Casa Bianca.
L’attuale amministrazione statunitense ha dichiarato, affermandolo chiaramente, che il tema dell’immigrazione non sarà compreso nell’agenda trattandosi di "qualcosa che potrebbe attendere fino all’estate".
Le affermazioni di Washington in tal senso contraddicono le aspirazioni di numerose famiglie della regione, che dipendono fondamentalmente dalle rimesse di denaro, che sono in pericolo di sparire di fronte al letargo di un’eventuale riforma delle leggi nordamericane sull’immigrazione che non terminano di concretizzarsi nonostante le storiche promesse.
Il chiarimento della condizione giuridica di grandi masse di persone senza documenti è stato, allo stesso modo, uno dei "veli da togliere" durante il recente viaggio di Bush in Perù, dove si è incontrato con suo omologo Alejandro Toledo. Questo argomento verrà affrontato anche con i Presidenti di Bolivia, Colombia ed Ecuador.
Lo spiegamento di circa 7.000 agenti segreti della polizia peruviana per le vie centrali di Lima, lo schieramento di combattimento di varie squadriglie aeree con caccia MIG-29, la dotazione di missili per le fregate e l’ordine di "massimo allarme" dato alle truppe di terra sono state alcune delle misure estreme prese in Perù per la presenza di Bush.
Il timore all’interno del Governo peruviano era quello che avvenissero, come segnale di rifiuto, molte esplosioni di petardi davanti all’Ambasciata statunitense. La stessa cosa era accaduta durante il Vertice Stati Uniti-America Centrale, dato che San Salvador non era rimasta indietro nel raddoppiare le precauzioni.
A tal fine vennero utilizzati 11.000 uomini, sia delle Forze Armate, sia del Comando Speciale Anti-Terroristi (CEAT), sia del Gruppo di Reazione Poliziesca, tutti incaricati di respingere le manifestazioni di protesta convocate dal Forum della Società Civile e dal Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale.
Numerose Organizzazioni Non Governative salvadoregne hanno messo in discussione la legittimità di un futuro TLC con gli Stati Uniti, dato che considerano che questo aprirà la porta al neoliberismo più spietato, causa del "fenomeno argentino" e della propagazione della più profonda miseria in questa parte del mondo.
Il movimento regionale Iniziativa Mesoamericana di Commercio, Integrazione e Sviluppo, fustiga il servilismo dei governanti centroamericani e la "debolezza" degli andini.
Un articolo del New York Times ha messo in dubbio il reale esito del giro statunitense attraverso alcune nazioni latinoamericane, al di là di far suscitare il miraggio nei circoli di potere regionali sul fatto che Bush non ha impegnato la sua parola invano quando ha promesso rispettivamente ai centro e ai sudamericani vantaggi doganali, agevolazioni commerciali e aiuto finanziario.
Il quotidiano statunitense ha affermato che la delusione prenderà piede con il passare del tempo e senza vedere grandi cambiamenti, in quanto il rinnovamento delle leggi di preferenza commerciale andina e del TCL proposto per il l’America Centrale hanno fatto sorgere interrogativi all’interno del Senato nordamericano, fatto per il quale Bush dovrà fare opera di persuasione.
Si tratta, precisa il quotidiano, di un modo molto abile di giocare con "le noci" del proprio Stato alle quali Bush addiziona altri ingredienti come parte della sua strategia di ingerenza, con riferimento alla lotta contro il terrorismo universale, all’eliminazione del narcotraffico o al conseguimento della democrazia per il cosiddetto "caso cubano".


Gli Stati Uniti e la politica del bastone e la carota

Torna a inizio pagina
marzo 2002 - Secondo Otto J. Reich, sottosegretario di Stato per l’America Latina, la "ripresa" della democrazia in Argentina, Colombia, Haiti e, naturalmente, Cuba è un tema che tocca molto da vicino la Casa Bianca e aggiunge, inoltre, che le mete di sviluppo regionale si realizzeranno solo se si seguiranno i consigli che provengono da Washington.
"Abbiamo il grande obbligo di dare alla Colombia l’aiuto necessario per proteggere la sua democrazia ed aiutare il paese ad affrontare le molteplici minacce", ha dichiarato nel discorso tenuto di fronte ai rappresentanti del Centro per Studi Strategici e Internazionali (CSIS).
Questo funzionario, che non fa niente per giustificare a Posada Carriles i reiterati tentativi per abbattere e assassinare il presidente cubano Fidel Castro, insiste nell’inserire Cuba tra le "priorità" statunitensi.
Oto Reich ha tra i suoi "meriti" quello di aver presieduto l’Ufficio Diplomatico Pubblico, incaricato di distorcere le verità sull’ingerenza nordamericana, o di essere un attivo affiliato del Center for a Free Cuba (Centro per una Cuba Libera), collegato alla Freedom House (Casa della Libertà), della CIA, di chiaro contenuto contro la Rivoluzione Cubana.
E’ ben conosciuto, egualmente, nell’ambito dei terroristi internazionali per i suoi legami con i tenebrosi signori delle bombe, Orlando Bosch e Luis Posada Carriles. Senza dubbio, niente di tutto ciò è stato preso in considerazione dall’amministrazione repubblicana di Gorge W. Bush che lo ha promosso a suo uomo di fiducia per le faccende latinoamericane, passando sopra all’opposizione del Senato degli Stati Uniti.
Reich ha anche, nella sua storia recente, detto di no al ritorno del bambino cubano Elián González, sequestrato per circa due anni dalla mafia di Miami, è stato coautore della Legge Helms-Burton, che peggiora il blocco nordamericano contro l’Isola, così come ha finanziato, incoraggiato e promossi gruppuscoli controrivoluzionari in Cuba.
La sua "ossessione" di abbattere la Rivoluzione trascende, tuttavia, i suoi "consigli e azioni" promosse unitamente ai settori di destra dell’emigrazione cubana negli Stati Uniti. Cerca di influire, in ugual modo, nelle decisioni dell’attuale gabinetto nordamericano per boicottare la possibilità di stabilire scambi commerciali, culturali e d’amicizia tra i due popoli.
Con una manovra nascosta di "regali" e "cooperazione" nel vecchio stile di Babbo Natale, il presidente statunitense andrà a Panama per una riunione con i suoi omologhi centroamericani per discutere sulle "potenzialità" e gli "accordi" politici con la Casa Bianca.
La consigliera per gli Affari Pubblici dell’Ambasciata statunitense in San Salvador, Marjorie Coffin, ha assicurato che il tema principale dell’agenda verterà sulla negoziazione di un trattato di libero commercio, la lotta contro il narcotraffico e la democratizzazione dell’area, ponendo una particolare enfasi su Cuba, tema assunto specialmente dal presidente salvadoregno Francisco Flores.

Gli Stati Uniti, prima della celebrazione della 58ª sessione della Commissione dei Diritti Umani dell’ONU, a Ginevra, ricorrono ai suoi stipendiati nello sforzo di condannare Cuba.
Il 43% della popolazione latinoamericana vive al disotto della soglia di povertà, dove ognuno dei suoi abitanti "versa", con le sue scarsità, l’equivalente di circa 1.500 dollari per il pagamento del debito estero. Così facendo l’america Latina paga, per interessi sul debito estero, il doppio delle entrate per via degli investimenti diretti.

La regione ha anche, tra i suoi svantaggi concreti, un rallentamento economico preoccupante dello 0,5% nell’anno scorso, con una proiezione dello 0% per il presente e una dipendenza molto forte delle sue operazioni col mercato borsistico nordamericano.
Circa 400 milioni di persone subiscono sulla loro pelle i tagli ai preventivi destinati, da vent’anni, alla salute ed all’educazione nelle differenti società di questo emisfero, ciò dovuto all’imposizione del neoliberismo come schema di Governo imperante.
Però, come "non vi è peggior cieco di chi non vuol vedere", Bush ignorerà una volta di più la lunga lista di necessità urgenti della zona e si incaricherà di convincere l’auditorio centroamericano dei vantaggi di operare sotto le sue regole tra le quali si evidenzia quella di esercitare "un buon governo" all’ombra dell’Area del Libero Commercio delle Americhe (ALCA).
Ricerche della stessa Banca Interamericana di Sviluppo (BID), hanno evidenziato che un terzo della popolazione dell’America Latina scarseggia di acqua potabile. Una donna su cinque non ha assistenza medica per i suoi figli e la media dei latinoamericani può frequentare la scuola solo per i primi cinque anni della sua infanzia.
Bush cercherà, tuttavia, "istruire" i suoi omologhi sulla sterilità di un’azione regionale senza la sua leadership. Pertanto insisterà sull’applicazione dell’ALCA, il quale, secondo lui, "offrirà a tutte le nazioni le medesime opportunità di uguaglianza e diritto nel commercio con gli Stati Uniti", impostazione chiesta da molti economisti e personalità del mondo.
Così pure, il Governo nordamericano si riparerà con una "clausola democratica" per imporre misure punitive, favorevoli ai suoi desideri politici o, al contrario, l’America Latina dovrà prepararsi alle pressioni di Bush ai differenti organismi finanziari internazionali perché "adattino" le loro strategie di prestiti e assistenza.

Si creano le condizioni per uno scambio commerciale tra i Caraibi orientali e il Canada
Torna a inizio pagina
marzo 2002 – L’Organizzazione degli Stati dei Caraibi Orientali (OECO) ha manifestato in un seminario regionale la propria intenzione di favorire le relazioni con il Canada per mezzo di un ampio flusso commerciale tra le parti. Formata da Anguila, Antigua y Barbuda, Dominica, Granada, Monserrat, San Cristóbal y Nevis, San Vicente y las Granadinas, Santa Lucía, questo ente intende incrementare la partecipazione canadese nelle lavorazioni agroindustriali, come pure nell’industria delle bevande alcoliche della regione, oltre a promuovere un maggior accesso dei caraibici alle piazze commerciali del Canada.

Per l’America Latina, il candidato della mafia terrorista
Torna a inizio pagina
dicembre 2001 – E’ stato colui che ha permesso al terrorista Orlando Bosch di rifugiarsi definitivamente negli Stati Uniti. In questa e in altre faccende è stato socio di Jorge Mas Canosa, fondatore della Fondazione Nazionale Cubano-Americana (FNCA), e continua a essere vincolato ai circoli anticubani più irresponsabili. Si è distinto in America Centrale come capo della campagna di disinformazione attribuendo una flotta di aerei MIG ai sandinisti. E’ in collusione con Frank Calzón, agente della CIA e cervello dell’anticubana Freedom House di Washington.
Otto Reich è un altro ‘Uomo del Presidente’. E quando George W. Bush diceva che gli avrebbe trovato un posto nella sua Amministrazione, lo diceva sul serio. Che sia un bugiardo di professione, associato a elementi screditati dell’ultradestra o che abbia condiviso i sogni dei terroristi patentati, non importa. E per questo il Presidente si ostina – o si ossessiona? – nel mantenere la sua candidatura come principale rappresentante della Casa Bianca per l’America Latina, con il titolo di Sottosegretario di Stato per l’Emisfero Occidentale.
Nel maggio scorso, il senatore Harry Reid, aiutante del leader della maggioranza democratica al Senato, rispedì la ‘trovata’ di Reich a George W. Bush, invitandolo a trovare un candidato decente. Né più, né meno. Lo scorso 11 ottobre , il senatore Christopher Dodd, in una lettera al Wall Street Journal, ha ripetuto il messaggio e ha invitato nuovamente il Presidente a trovare un candidato "competente". Ma George W. Bush non si è lasciato impressionare.
Così da pochi giorni è riapparsa la ‘nomination’ alla porta del Senato. E questa volta nelle mani dello stesso Segretario di Stato, Colin Powell, che ha messo dietro questa il suo prestigio. E un’argomentazione angelica. Per l’uomo della Guerra del Golfo, "non esiste niente" nella carriera di Reich "che lo dequalifichi" per l’importantissima carica.
Secondo l’agenzia ANSA, Powell ha assicurato che (Reich) "è stato sottoposto a indagine" per tutte le accuse contro di lui e dai risultati è emerso che "è un uomo onorevole".
Per caso, l’onorevolezza alla Casa Bianca è un concetto diverso da quello riconosciuto universalmente?
Figlio di padre austriaco e di madre cubana, Otto Juan Reich, di 56 anni, è nato a Cuba e ha lasciato l’Isola nel 1960, da adolescente, quando la sua famiglia si è stabilita a Charlotte, nel Nord Carolina.
Terminati gli studi, Otto Reich ha trascorso due anni nelle file dell’esercito, in una base di Panama. A partire dal 1972, ha vissuto a Miami ed è entrato in contatto sempre di più con i circoli repubblicani dell’ultradestra, garantendosi il suo futuro nell’Amministrazione.
Da buon opportunista, ha sempre approfittato delle sue origini cubane - anche se aveva abbandonato Cuba all’età di 15 anni – per costruirsi una retorica anticubana che presto gli avrebbe procurato i desiderati benefici. Riconoscendogli il talento per la demagogia, i dirigenti della mafia terrorista di Miami si sono incaricati di aprirgli le porte del potere.
Con l’arrivo di Ronald Regan alla Casa Bianca e durante i dodici anni di regno repubblicano. Reich si trasferì a Washington e occupò posti sempre più importanti, al ritmo delle sue dichiarazioni di assoluta fiducia nell’establishment e nell’estrema destra.
Passò dall’Agenzia per lo Sviluppo Internazionale all’Ufficio per la Diplomazia Pubblica e poi a Segretario di Stato, per poi ottenere il posto di Ambasciatore in Venezuela, nel 1986.
Lì conobbe Orlando Bosch che, detenuto in un carcere di Caracas, aspettava il suo processo per il sinistro crimine di Barbados, attentato contro un aereo di Cubana de Aviación costato la vita a 73 persone – compresa la squadra cubana di scherma, al completo, che ritornava in patria al vertice della sua gloria, dopo aver trionfato in un torneo continentale.
Anticubano storico, Bosch dall’inizio degli anni ’60 si unì a qualsiasi cospirazione degli elementi più violenti della Florida del sud, con la benedizione della CIA. Si calcola, modestamente, che partecipò a un minimo di 30 attentati in vent’anni. Nel 1968 è condannato (finalmente!) a 10 anni di carcere per avere sparato con un bazooka da 57 mm. contro una nave polacca, in pieno porto di Miami.
Ma, beneficiando di protezioni, il terrorista sparì dalla Florida, approfittando di una libertà condizionata, per poi riapparire in Venezuela, dove subito venne identificato come complice di un altro pericolosissimo terrorista e socio della CIA, Luis Posada Carriles, nell’attentato contro il volo di Cubana, avvenuto di fronte alle coste di Barbados.
Nonostante le prove contundenti che dimostrano la sua colpevolezza, alcuni giudici lo condannano, allo stesso tempo altri del tribunale militare lo assolvono ... mentre Reich aveva preparato personalmente la sua rapida uscita dal paese. Da messaggi recentemente declassificati, risulta che Reich aveva insistito per ottenere il via libera da Washington e far rientrare il terrorista in territorio nordamericano.
In una nota segreta inviata prima della decisione del tribunale, Reich precisa che gli "amici" di Bosch sono già pronti "per farlo uscire dal Venezuela in meno di quattro ore a partire dalla sua liberazione".
Bosch venne, effettivamente, liberato e inviato rapidamente a Miami, dove continuò a beneficiare dell’ospitalità nordamericana, nonostante una nota dell’FBI che lo caratterizzava come uno dei più pericolosi terroristi.
Intanto, si sviluppava l’indagine sul famoso caso Iran-Contras, un’operazione grazie alla quale l’Amministrazione Regan arrivò a finanziare la guerra sporca contro i sandinisti nicaraguensi attraverso vendite segrete di armi all’Iran e di altri prodotti "non santi".
E chi apparve nel capitolo della disinformazione dell’opinione pubblica nordamericana? L’ "onorevole" Otto Reich, che, come direttore del nuovo Ufficio della Diplomazia Pubblica (OPD) aveva utilizzato tutta la sua immaginazione furibonda non solo per nascondere all’opinione pubblica nordamericana le attività criminali del tenente colonnello Oliver North, ma anche per disinformarla, disorientarla e ingannarla con qualsiasi metodo di propaganda.
Così, sotto le istruzioni di Reich, il personale della OPD, redigeva "lettere aperte" di lettori ai principali quotidiani del paese, senza rivelare la loro vera origine. In questi scritti venivano difese con ogni mezzo, compresa la menzogna, le politiche reganiane in America Centrale, con l’obiettivo di manipolare l’opinione pubblica e gli stessi mezzi di comunicazione.
Invitato dalla Casa Bianca a non mettersi troppo in evidenza fino a una possibile comparizione di fronte al Senato, secondo il Miami New Times, Reich ha ripiegato momentaneamente sul suo ufficio di Arlington, da dove – all’ombra della CIA, che ha una sede anche in questa bucolica località della Virginia – traffica con la sua ditta, un’attività che consiste nel dedicarsi a influire (se non a corrompere) i più alti circoli del potere. La RMA International, un ufficio con quattro impiegati, si dedica a rappresentare gli interessi della Lockheed-Martin, ben nota costruttrice di aerei militari, e del produttore del rum Bacardí, eterno sponsor dei settori più frustrati della mafia anticubana.
Tra le sue occupazioni, Reich mantiene attivo, fino a questo momento, il suo Centro per una Libera Cuba, una dipendenza della Freedom House, creata dalla CIA e diretta dal suo direttore a vita Frank Calzón, altra figura permanente dell’industria dell’anticubanismo, con il quale mantiene le migliori relazioni, così come continua a fare con tutti i leader e gli ex-leader della FNCA, ricordando con nostalgia il suo defunto socio Jorge Mas Canosa.
Se il suo amico John Negroponte è arrivato di corsa al suo seggio alle Nazioni Unite, nascondendosi dietro le colonne di fumo degli attentati dell’11 settembre, è sicuro che Otto Reich non godrà di questa stessa umanità momentanea del Senato.
Alcuni fattori fondamentali sono cambiati da maggio. Il vecchio senatore Jesse Helms, leader repubblicano in materia di politica estera, soprannominato "Senatore No" per la sua ostinazione reazionaria, ha già annunciato il suo ritiro, mentre la maggioranza al Senato è passata ai democratici.
C’è qualcosa in più. Vari senatori repubblicani hanno già tolto il loro appoggio al blocco contro Cuba, invenzione genocida della Guerra Fredda.
Semplicemente hanno constatato che quando una politica fallisce per 40 anni, è ragionevole pensare che sia un’aberrazione.
E la retorica obsoleta di personaggi tali come Reich, sia verso Cuba sia verso l’insieme del continente, può solo generare incomprensioni e fallimenti.
Non occorre di più per lasciare definitivamente l’ "amico del Presidente" nella sua grotta di Arlington.

Diseguaglianza sociale, brodo di coltura per la violenza
Torna a inizio pagina
novembre 2001 - Le nazioni latino-americane hanno richiesto questa settimana alla 56ª Assemblea Generale dell'ONU azioni concrete contro la povertà, che è, in ultima istanza, promotrice di violenza. Condizione, questa, elusa dagli Stati Uniti, che insiste nell'identificare il terrorismo mondiale come un'attitudine individuale di supposte forze malvagie.
Senza una definizione chiara sul terrorismo internazionale, hanno concordato molti dirigenti dell'America Latina, è quasi impossibile iniziare qualsiasi campagna su scala mondiale che possa essere efficace.
In questo contesto, la parola disuguaglianza sociale è stata la più utilizzata come denominatore comune dagli oratori latinoamericani, i quali hanno illustrato le penose realtà dei loro popoli, in contrapposizione agli interessi della Casa Bianca. Il Presidente statunitense, George W. Bush, ha fatto il possibile e l'impossibile per evitarlo.
La Repubblica Bolivariana del Venezuela, rappresentata dal Presidente Hugo Chávez, ha invitato la comunità dell'ONU a unire le file per i diritti dei diseredati, dichiarando "milioni di persone vivono con la speranza di migliorare le loro povere condizioni di vita".
Chávez ha sostenuto, anche, per non prolungare indefinitamente una conseguente lotta contro il terrorismo, poiché questo sarà sconfitto solo con comportamenti intensi e decisi, guidati dalla ragione e dalla saggezza perché non siano danneggiati degli innocenti.
Il progresso, la cooperazione economica e le reali possibilità d'accesso ai mercati e alle tecnologie sono alcune delle premesse fondamentali.
I massimi dirigenti della regione, hanno convenuto che la riduzione del divario tra le nazioni ricche e povere sarà il punto di rottura di fronte all'attuale crisi globale, in particolar modo quella che si è scatenata dopo gli attentati dell’11 settembre scorso, contro strutture nordamericane all’interno di questo stesso paese.
Washington, tuttavia, ha sofferto di sordità politica, poiché tutta la durata del tempo dell’ "apocalittico intervento" del suo rappresentante era centrata nel personificare Osama Bin Laden come il maggior pericolo contro la civiltà moderna.
Per la stragrande maggioranza dei presenti alla 56ª Assemblea Generale dell'ONU, la lotta contro il terrorismo deve figurare nelle agende nazionali e in particolare in quelle dell'America Latina, anche se le cose vanno chiamate con il loro nome.
Jorge Battle, presidente uruguayano, si è mostrato in questo senso preoccupato dal terrorismo, giacché è sua opinione che non vi sia causa o bandiera che lo giustifichi. Ha detto di sentirsi anche preoccupato per l'incertezza economica dei paesi latinoamericani, i quali attraversano momenti molto difficili.
Il terrorismo, principale tema dell'assemblea plenaria, è stato duramente criticato, evidenziandone la volontà collettiva di combatterlo: però non tralasciando, come pretendeva Bush, di risolvere le pressanti necessità di ciascuno dei popoli sottosviluppati che fanno parte della grande comunità delle Nazioni Unite.

11° Vertice dei Paesi Ibero-Americani - L’America latina si guarda dentro
Torna a inizio pagina
novembre 2001 - Con spirito integrazionista, le 21 nazioni latino-americane più la Spagna e il Portogallo apriranno le discussioni dell'11° Vertice regionale. L'imperativo fondamentale è dare un impulso alla traballante situazione mondiale generatrice di molteplici problemi sociali per questa parte dell'umanità.
Il distretto di San Isidro, a Lima nel Perù, accoglie gli importanti rappresentanti, i quali si riuniscono consecutivamente da dieci anni con l'impegno di portare avanti, senza gli Stati Uniti, piattaforme programmatiche coordinate da ciascuno dei popoli della grande famiglia Ispano-Americana.
Alejandro Toledo, Presidente del Perù, nella sua veste di padrone di casa ha invitato i suoi omologhi a lasciar perdere i convenevoli e i protocolli iniziali per dar inizio a una "bufera d'idee". La proposta ha avuto una buona accoglienza data l'utilità dell'interscambio necessario per l'approvazione di accordi precedenti, approvati a maggioranza.
Prima di questo undicesimo appuntamento, mesi prima è stata trattata una diversificata e esauriente agenda di lavoro sui temi della salute, educazione, temi delle donne e argomenti dell'arena internazionale, strettamente legati all'area Iberoamericana.
Il più importante di tutti i preparativi è stato, senza ombra di dubbio, la bozza elaborata dai Ministri degli Esteri delle 23 nazioni interessate, che hanno sfruttato l'occasione della 56ª Assemblea Generale dell'ONU per incontrarsi a New York.
Il progetto di Dichiarazione Finale affronta i principali temi della situazione politica, economica e internazionale attuale, di prima importanza per la regione, come sono la governabilità, i diritti umani, e ponendo l'accento sulla lotta contro la povertà, sull'integrazione economica e sulla cooperazione Iberoamericana, così come nelle relazioni tra America ed Europa.
Allo stesso modo, l'11° Vertice riserva un capitolo per la riflessione su quanto è stato realizzato durante i dieci anni trascorsi dal 1991, quando è nata questa convocazione annuale a Guadalajara, in Messico, e la parte del lungo cammino che ancora resta da percorrere proietta il suoi contenuti quali temi del Vertice. La rappresentanza cubana, che sarà capeggiata in questa fase iniziale dal Viceministro degli Esteri, Pedro Nuñez Mosquera, si reca a questo nuovo incontro della comunità Iberoamericana, secondo fonti vicine ai partecipanti, con il convincimento che è necessario preservare questo meccanismo di concertazione politica sulla base dei principi che gli hanno dato origine, e animata in primo luogo dall'unità per poter affrontare le grandi sfide del futuro.
Il proposito di consolidare la concertazione Iberoamericana tendente ad assicurare uno strumento regionale istituzionale era presente in tutti gli interventi.
Facendo un'analisi introspettiva, le 23 nazioni hanno discusso sulle possibili cause della recessione economica che affligge molti dei nostri paesi.
L'identità collettiva è il denominatore comune dei presenti, che si radunano attorno al motto "Uniti per l'infanzia e l'adolescenza, base della giustizia e dell'equità nel nuovo millennio".
Prima di questo 11° Vertice Iberoamericano, ministri ed esperti dei problemi sociali hanno elaborato una proposta di calendario di lotta alla povertà. Nel periodo di quindici anni dovranno essere risolti, almeno nella loro totalità, alcuni dei problemi più difficili.
Innalzare gli indici di sanità sessuale e riproduttiva, ridurre quelli di denutrizione e di abbandono scolastico, la riduzione delle disuguaglianze nella ridistribuzione della ricchezza saranno l'unico lasciapassare che potrà aprire, a milioni di bambini e giovani, le porte del futuro.

Area di Libero Commercio delle Americhe: le ragioni per dire no
Torna a inizio pagina
novembre 2001 - Per abbattere l'ALCA (Area di Libero Commercio delle Americhe), è necessario basarsi prima di tutto sulla spiegazione del suo contenuto egemonico e antipopolare, ha affermato l'economista cubano Osvaldo Martínez nella giornata inaugurale - 13 novembre - dell'Incontro Continentale di Lotta contro l'ALCA che si è tenuto nel Palazzo delle Convenzioni di La Habana.
Martínez, membro del Comitato Organizzatore dell'Incontro, ha svolto un intervento introduttivo sul contenuto e sul significato di questo progetto sostenuto dagli Stati Uniti.
Alle sessioni inaugurale e serale del primo giorno di lavoro, hanno presenziato il Presidente Fidel Castro e altre personalità cubane e sono state presiedute da Marcela Escribano, cilena residente in Canada, attiva combattente sociale e una delle organizzatrici del Secondo Vertice dei Popoli del Quebec.
Il tavolo della presidenza era formato, inoltre, da rappresentanti di varie organizzazioni, tra i quali Norma Cano, segretaria generale della Centrale dei Lavoratori di Panama, il vescovo Medardo Gómez della Chiesa Luterana Centroamericana, Nora Castañeda, presidentessa della Conferenza delle ONG del Venezuela; Marta Ojeda, dirigente della Rete di Lotta degli Stati Uniti e Pedro Oliveira, presidente dell'Associazione degli Economisti dei Caraibi.
La sua composizione è indice dell'ampio spettro di organizzazioni e istituzioni di accademici, leader indigeni, contadini, religiosi, studenti e sindacalisti che hanno risposto alla convocazione.
Leonel González, della segreteria della Centrale dei Lavoratori di Cuba, al momento di dare il benvenuto ai partecipanti ha precisato che erano convenuti a Cuba 679 delegati di 248 organizzazioni e istituzioni continentali di 34 paesi e anche un piccolo gruppo di organizzazioni sociali dell'Europa "come gesto di solidarietà con la lotta dei nostri popoli" (salutiamo anche il reverendo Lucius Walker, dell'Associazione nordamericana Pastori per la Pace).
Marcela Escribano, prima di iniziare con le analisi (tenute tutte in assemblea plenaria), ha affermato che l'Incontro vuole essere "una sfida per ottenere consensi, una convergenza delle nostre lotte per la pace, contro la guerra e contro l'ALCA" e su questo saranno i dibattiti e che vengano fatte relazioni su esperienze concrete sul movimento antiglobalizzazione.
Nella sua analisi su contenuto e significato dell'ALCA, Osvaldo Martínez, presidente della Commissione Economica del Parlamento cubano, ha rilevato che dopo gli avvenimenti dell'11 settembre e della "guerra assurda che pretende di combattere il terrorismo con dosi maggiori di terrore", i sostenitori dell'ALCA pretendono che adesso più che mai si debba approvarlo, in modo che - ha sottolineato - opporsi all'ALCA può adesso essere visto come un appoggio al terrorismo.
Ha ribadito che si pretende presentare l'ALCA come un semplice accordo tecnico, di libero commercio, quando in realtà è un progetto che compromette a fondo il futuro della regione.
Martínez ha affermato che gli Stati Uniti si affrettano ad approvarlo, tanto che è uno dei pochi temi che hanno meritato l'attenzione del Congresso in questi tempi, oltre alla guerra. "La Camera ha già approvato la bozza, per spingere l'ALCA".
Martínez, che è anche direttore del Centro di Ricerche di Economia Mondiale, ha spiegato che la fretta ha varie cause, tra cui la crisi economica e sociale del paese e l'attuale recessione globale (a seguito delle crisi che hanno causato la caduta del miracolo giapponese, la crisi messicana, quella delle tigri asiatiche e della Russia durante il decennio degli anni ‘90)
Quest'analisi gli ha permesso di affermare che la crisi non si è scatenata l'11 settembre, "esisteva già, gli avvenimenti l'hanno accelerata, ma non ne sono stati la causa". Per questo – ha continuato - la fretta di approvare l'ALCA, per sfruttare lo spazio regionale che sarebbe riserva esclusiva del capitale nordamericano" e, tra le altre cose, appropriarsi ancor più delle risorse naturali dell'America Latina e dei Caraibi, e sfruttare una forza lavoro meno costosa.
L'economista ha spiegato le conseguenze per i lavoratori (maggior disoccupazione), per i contadini (inserimento di prodotti agricoli nordamericani sovvenzionati), per i giovani (disoccupazione e nessun accesso all'educazione privata), compreso il fallimento e la sparizione delle piccole e medie industrie. "L'ALCA è il miglior affare delle multinazionali".
Altri aspetti sui quali si è soffermato sono stati il cosiddetto diritto ai liberi investimenti e la dollarizzazione delle economie, mentre - qui ha posto speciale enfasi - l'accesso al mercato nordamericano sarà ancora più illusorio che mai, poiché "si prevede un protezionismo più aperto e senza barriere".
L'ALCA - ha concluso Martínez - è il culmine dell'accettazione all'annessione agli Stati Uniti per mezzo di un patto coloniale e la sua sconfitta passa per la comprensione da parte dei popoli della sua implicazione egemonica e antipopolare. "Dire no all'ALCA vuol dire fare uno sforzo formidabile per chiarire questo progetto estraneo, che non è stato nemmeno discusso dai parlamenti", e per questo ritiene che l'Incontro debba elaborare un'alternativa di integrazione regionale.
Le discussioni della sessione serale hanno affrontato due dei temi dell'agenda: "ALCA: Commercio e integrazione", e "ALCA e investimenti".
Le prossime sessioni verteranno sull'ALCA e sui suoi rapporti con la povertà, disuguaglianza sociale, disoccupazione e deterioramento ambientale; identità culturale, discriminazione razziale e sessuale e i diritti dei popoli indigeni e dei lavoratori rurali.
I delegati avranno, inoltre, l'opportunità di ascoltare le esperienze di lotta dell'Alleanza Sociale Continentale, del Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre e della lotta contro il TLC.
Le discussioni sulle Alternative all'ALCA e al Piano di Azione da adottare, domineranno le ultime giornate dell'Incontro che si concluderà (venerdì 16) con una Dichiarazione Finale.

Uragani e neoliberismo: pantani per i popoli centroamericani
Torna a inizio pagina
novembre 2001 – L’America Centrale continua a essere il bersaglio dei cicloni a solo tre anni dal devastatore Mitch, il quale ha virtualmente rovinato la già deteriorata economia della regione che farà molta fatica, con il passaggio di un altro fortunale, a risollevarsi.
L'uragano Michelle, che la settimana scorsa ha flagellato tutta l'area dei Caraibi, ha posto l'istmo in una situazione difficilissima, dato il livello di penuria che i popoli centroamericani si trovano ad affrontare dal 1998, perché i danni precedenti non hanno potuto essere risolti in questo lasso di tempo.
Approssimativamente di 12 morti, 26 dispersi e circa 100.000 danneggiati è stato il risultato lasciato dal nuovo fenomeno meteorologico, che sebbene non avesse la potenza del suo ‘leggendario predecessore’, ha in modo considerevole danneggiato Honduras e Nicaragua.
Tegucigalpa ha riconosciuto, per colpa di Michelle, che erano carenti i mezzi necessari per tirare fuori la nazione honduregna dal disastro nel quale si è trovata. Il presidente Carlos Flores ha lamentato lo stato di abbandono di quasi 70.000 suoi compatrioti ai quali non ha dato speranze di miglioramento.
La Commissione Statale Permanente di Crisi (COPECO), dell'Honduras, ha stabilito che il passaggio di Michelle ha causato grandi inondazioni in 6 delle 18 province, colpendo direttamente 51.000 persone per le quali ci vorrà molto tempo a soccorrerle.
Il titolare della Salute Pubblica dell’Honduras, Plutarco Castellanos, ha informato dell'aumento delle malattie respiratorie e intestinali della popolazione, in special modo infantile, che è curata direttamente dagli 80 medici cubani che prestano il loro servizio alla nazione centroamericana fin dal passaggio di Mitch.
Castellanos si è felicitato con il personale cubano per la sua "dimostrata capacità e spirito di sacrificio".
Il Nicaragua è stato, così pure, sconvolto, per cinque giorni consecutivi, da una fortissima pioggia e da raffiche che hanno provocato forti danni in 24 comunità, oltre a bloccare i collegamenti con l'etnia miskitia che abita la regione autonoma del Nord Atlantico.
Le grandi piogge cadute sul suolo nicaraguense hanno provocato, anche, perdite in 321.678 ettari coltivati a riso, mais, yucca e banana.
Con venti molto forti, fino a 100 Km. l'ora, Michelle, che in un primo momento era una tormenta tropicale, ha aggravato, secondo l'Istituto Centroamericano di Studi Politici del Guatemala (INCEP), la vita di centinaia di migliaia di centroamericani, specialmente quella di quelli che si confrontano quotidianamente con la povertà e l’emarginazione.
Recenti ricerche dell'INCEP hanno evidenziato le deficienze di gestione dei differenti Governi per stimolare una ricostruzione a fondo dei loro paesi.
"In tutto questo tempo trascorso da Mitch avrebbe dovuto esserci un decollo delle nostre economie, visto che si erano creata le condizioni per mettere in atto programmi contro la miseria e a favore dello sviluppo", ha detto l'esperto guatemalteco Fernando Solis.
Per Solis il passaggio di Mitch dai territori centroamericani ha significato una vera tragedia, giacché "mai prima nella nostra storia erano morte tante persone in poche ore. Le 20.000 vittime tra morti e dispersi, i circa 2 milioni di sinistrati e le perdite di 6 milioni di dollari ci dicono quanto grande sia stato il disastro".
Lo studioso considera che la mancanza di volontà politica è stato il fattore determinante per il quale l'istmo non è riuscito a migliorare i deficit economici, sociali e produttivi aggravati dal passaggio dell'uragano.
Guatemala ed El Salvador sono due esempi classici, secondo l'INCEP, del cattivo utilizzo degli aiuti statali e internazionali. Dei 276 milioni di dollari ricevuti, il Governo salvadoregno ne ha utilizzati solamente circa 30, destinandoli, fondamentalmente, alla ricostruzione di San Salvador, la capitale del paese.
L'impatto dell'uragano ha mostrato dopo tre anni i profondi problemi strutturali di El Salvador in ambiti importanti come sono quelli ambientali, economici e sociali.
Mazariegos, dirigente popolare del Fronte dei Colonizzatori del Guatemala, ha definito disastrosi gli interventi governativi di assistenza alla popolazione. "Esistono ancora 5.000 famiglie danneggiate che abitano dal 1998 in condizioni a rischio", ha dichiarato il difensore dei diritti civili.

Si intensificano gli sforzi per combattere il narcotraffico nei Caraibi
Torna a inizio pagina
settembre 2001 - Il 9 e il 10 novembre scorsi la città di La Habana è stata la sede di un incontro tra le autorità di diversi paesi dei Caraibi sul tema della lotta al narcotraffico, che ha contato sulla partecipazione di 15 stati della regione aderenti al cosiddetto Piano di Azione Barbados, costituito per combattere più efficacemente queste attività criminali.
Il Ministro della Giustizia, Roberto Díaz Sotolongo, che è anche presidente della Commissione Nazionale Antidroga (CND), ha ricordato che all'incontro erano state invitate anche delegazioni del Regno Unito, Francia, Italia, Canada, Spagna e Stati Uniti, rappresentanti del Programma antidroga dell'ONU, la Commissione Antidroga della OEA, così come rappresentanti dell'UNICEF, della OPS e dell'INTERPOL.
L'incontro ha avuto come obiettivo l'intensificazione degli sforzi nella lotta al narcotraffico e un loro maggiore coordinamento, in un territorio, come quello caraibico, dove questa attività è particolarmente articolata, per bloccare il viaggio della droga verso i grandi centri di smercio e consumo.
Per avere un'idea dell'importanza strategica delle misure antidroga che si intendono intraprendere, basti pensare che attraverso i Caraibi viaggia il 50 % della marjuana che arriva negli Stati Uniti e il 65 % della cocaina che raggiunge l'Europa.
Riguardo a un’eventuale collaborazione fra Cuba e gli Stati Uniti in questo campo, Díaz Sotolongo ha affermato che esiste l'intenzione da parte di Cuba di allargare la collaborazione con la nazione nordamericana, a patto che vengano rispettati i principi di sovranità e non ingerenza rispetto agli affari interni.
La posizione strategica in cui si trova Cuba nell'ambito dell'area caraibica gli permette di tenere sotto controllo il traffico internazionale di droga che la attraversa, oltre che di sequestrare le quantità di stupefacenti che spesso finiscono sulle coste cubane in conseguenza di una tecnica specifica detta di "bombardamento", tramite la quale la droga viene lanciata da piccoli aeroplani sulla costa e poi fatta proseguire su motoscafi, come anche quella che viene lanciata in mare dai narcotrafficanti nel momento in cui vengono sorpresi dalla polizia.
L'anno scorso Cuba ha confiscato 12 tonnellate di stupefacenti (8 di marjuana e 4 di cocaina) in più rispetto al 1999, mentre nel 2001 le tonnellate confiscate sono 4, di cui 3 di marjuana e 1 di cocaina. Secondo quanto ha affermato il Ministro della Giustizia, in carcere sono finiti 170 trafficanti, dei quali il 45 % è di nazionalità colombiana, mentre alcune decine sono cubani.
In risposta alle domande dei giornalisti, Díaz Sotolongo ha spiegato che nonostante Cuba non sia esente dalle gravi conseguenze legate al consumo e al traffico di stupefacenti, nell'Isola ciò non costituisce un problema sociale nella misura in cui si può invece riscontrare in altri paesi. A questo proposito, il Ministro ha sottolineato che a Cuba esiste un ferma volontà politica di combattere qualsiasi atteggiamento o attività che possa contribuire all'aggravarsi di tale situazione. Sotolongo ha infatti ribadito il deciso impegno da parte delle istituzioni e delle autorità di intervento sociale per impedire un incremento del consumo di droghe, come conseguenza della grande quantità di queste sostanze in circolazione nei mari attorno all'Isola.
Sotolongo ha infine ricordato che a Cuba non solo sono illegali il possesso e lo smercio di stupefacenti, ma lo stesso codice penale è stato opportunamente riformato per colpire più duramente il narcotraffico.

America Latina: o si integra o la disintegrano
Torna a inizio pagina
settembre 2001 - L'America Latina risente ogni volta di più della penosa vicenda che le si è abbattuta addosso con la globalizzazione neoliberista: disuguaglianza, povertà, indebitamento, fuga di cervelli e distruzione dell'ambiente e della diversità biologica.
Per frenare tanta volatilità sociale e aggressione all'ambiente naturale, imperante nella regione, è imprescindibile adesso disfarsi delle rigide politiche economiche in essere e riorientare il consumo fino all'eliminazione dell'elevato indice di miseria e di fame che pervade intere comunità.
Finora i nostri paesi - a eccezione di Cuba - hanno aderito inesorabilmente ai modelli di crescita promossi dal "Consenso di Washington" e ciò li ha portati al disastro economico e alla crisi sociale: in quest'inizio del Terzo Millennio, più di 180 milioni di latinoamericani vivono in povertà estrema, mentre la disoccupazione cresce ogni giorno e degradano ogni volta di più i già impoveriti indici di salute e scolarità.
E' arrivato il momento in cui l'integrazione latinoamericana sia un fatto e non un'altra chimera. Ai paesi a sud del Río Bravo urge difendere la cooperazione e la solidarietà tra di loro, come soluzione attuabile per fermare la crescente disuguaglianza che bussa alla porta.
Nella sua visita in Venezuela, a metà agosto scorso, il Presidente cubano Fidel Castro ha ribadito le conseguenze fatali che potranno esserci per l'America Latina dovute alla mancanza d'unità, tanto invocata dal grande indipendentista Simón Bolívar e che continua a essere il principale obiettivo; anche perché i problemi attuali sono molto più gravi di quelli che avvertiva due secoli fa il Liberatore nello storico Congresso di Angostura.
Perché il pericolo non è solo quello di continuare a essere poveri, ma è quello di essere annessi agli Stati Uniti attraverso la proposta dell'ALCA (Area di Libero Commercio delle Americhe), che è stato disegnato con la chiara intenzione di spazzare via le economie più forti della regione come quelle di Brasile, Messico, Cile e Argentina - l'attuale crisi ne è la prova - o per dare il colpo di grazia alle strutture più deboli, oltre a perpetuare la dipendenza assoluta dei nostri paesi.
L'ALCA rappresenta il maggior ostacolo e non uno strumento per l'integrazione dell'America Latina, come vorrebbero far credere i suoi promotori.
Risulta improcastinabile, allora, l'elaborazione di posizioni congiunte di tutti, poiché al contrario gli sforzi d'integrazione soccomberanno di fronte alle crisi cicliche che patiscono oggi le nazioni del subcontinente, dovute all'applicazione arbitraria delle ricette del Nord. Bisogna mettere in atto contromisure alle pressioni protezionistiche e alle esigenze dei mercati finanziari, che mai si sono preoccupati sul come ridurre la povertà e la diseguaglianza.
Proprio le politiche neoliberiste di sistemazioni macroeconomiche che si applicano attualmente a vari paesi persistono come insuperabili scogli per l'integrazione che, se non dovesse avanzare prima che l'ALCA si avvii, potrebbe accrescere la catastrofe umana che imperversa nella regione.
Voci di differenti latitudini, filosofie, razze e posizioni politiche, quantunque coincidenti nel loro latinoamericanismo, si sono alzate ormai contro la sua instaurazione a partire dall'anno 2005, approvata quest'anno in Quebec, dalla maggioranza dei Capi di Governo del continente (al primissimo posto quello degli Stati Uniti), con l'eccezione di Cuba. Sono state formulate riserve da parte di alcuni Capi di Governo come Hugo Chávez Frías, del Venezuela, e Fernando Henrique Cardoso, del Brasile.
Il messicano Cuauctemoc Cárdenas, leader del Partito della Rivoluzione Democratica (PRD), una delle tre forze politiche del suo paese, ha precisato durante la Riunione sul Debito Sociale, che si è tenuta lo scorso mese di luglio a Caracas, la capitale venezuelana, che deve essere ben chiaro che l'ALCA non è il progetto per integrare i nostri popoli, perché la sua finalità è di permettere agli Stati Uniti di consolidare il loro accesso alle grandi risorse naturali ed energetiche dell'America Latina.
Il segno dell'incidenza che già ha l'ALCA sulla volontà politica dei Governi, è evidenziata nel contenuto principalmente commerciale e finanziario che viene impresso a tutto il proposito integrazionista, da ciò, lungi dal rinforzarlo, lo frammenta. Perciò è necessario mettere ordine nella ramificazione degli accordi che oggi esistono tra le nazioni latinoamericane.
Una proposta capace di risolvere questa situazione potrebbe essere quella esposta da Chávez lo scorso 20 agosto a Santiago del Cile, facendo un appello al rafforzamento del fondo di riserva della regione e all'instaurazione di una confederazione di repubbliche nello stile bolivariano.
Chávez ha detto che i nostri paesi devono pensare a un nuovo modello d'integrazione che comprenda non solo i mercati ma anche l'ambito politico, sociale e militare. E' necessaria - ha puntualizzato - una rivoluzione etica e morale, piena di concetti applicabili all'integrazione latinoamericana.
Senza dubbi, l'America Latina deve crescere dentro per risolvere le proprie urgenze mediante un proprio cammino, che chiede di porre al primo posto la volontà politica e poi i mercati.
Un magnifico esempio per tutti lo hanno dato Chávez e Cardoso, all'inaugurazione lo scorso 13 agosto di una centrale elettrica d'alto voltaggio a Santa Elena di Uairén, località venezuelana a pochi chilometri della frontiera comune.
Decine d'anni prima, i venezuelani si erano spaventati davanti alla peregrina tesi - promossa come sempre dai nemici dell'integrazione regionale - del supposto pericolo dell'espansionismo brasiliano che li minacciava. Adesso toccano con mano i vantaggi dei mutui accordi e del beneficio sociale della combinazione del già esistente potenziale industriale brasiliano con le grandi risorse energetiche venezuelane.
Speriamo che la vicinanza e l'amicizia fraterna continui a rafforzarsi nel resto degli altri popoli, tutti uniti da oltre 500 anni di colonizzazione delle loro terre e delle popolazioni autoctone, uniti dalla causa comune durante le guerre contro le metropoli conquistatrici (Spagna e Portogallo), ma spogliati e inimicati dalle meschine intromissioni degli Stati Uniti.
Se non avanzano nuovamente verso l'unità che li ha caratterizzati durante la lotta per l'indipendenza più di un secolo e mezzo fa, i nostri popoli corrono il pericolo espresso lo scorso 13 agosto dal Presidente Fidel Castro, alla presenza di Chávez e di Cardoso, in piena selva amazzonica: "O ci integriamo o ci disintegrano".

E dei poveri, chi si ricorda?
Torna a inizio pagina
settembre 2001 - E’ un peccato che i governanti, i vicepresidenti e i politici dei 19 Paesi latinoamericani si siano riuniti e dopo un fine settimana di eccessiva verbosità e di non-incontri, i loro popoli si debbano rassegnare nel vedere trascorrere il tempo senza nessun cambiamento a loro favore.
Che lo crediate o no, così si potrebbe definire il recente vertice del Gruppo di Río, dove si è discusso tanto, che si è ottenuto molto poco. Poche volte sono state gestite opportunità storiche come quella che hanno avuto i partecipanti all’ultimo appuntamento a Santiago del Cile, per rompere l’ortodossia economica neoliberista loro imposta dal cosiddetto "Consenso di Washington".
Però ancora una volta hanno sprecato l’occasione per aiutare i loro popoli e di nuovo sono caduti nel ridicolo, chiedendo aiuto finanziario agli stessi boia del G7, le cui banche e il cui potere economico si mantengono saldi grazie alla rovina delle fragili strutture che sostengono i paesi della regione.
Pare che i governanti e gli altri ospiti di Ricardo Lagos abbiano dimenticato i drastici tagli che hanno ridotto i fondi destinati alla salute e all’istruzione nei loro Paesi durante gli anni ‘90, così come consigliava il Nord, al quale tutto ciò conveniva per mantenere in ordine le proprie finanze, con la minaccia di destabilizzare socialmente le sue vittime in geografia.
Durante il Vertice hanno anche dimenticato che l’America Latina deve disfarsi della rigida politica neoliberista in corso e tornare a orientare le spese verso la povertà e la disuguaglianza sempre maggiori denunciate dai nostri Paesi.
Sebbene i dibattiti si siano avvicinati - come mai prima d’ora - alle difficoltà che affliggono circa 400 milioni di persone, certo è che i governanti hanno stemperato e sfiorato appena in superficie temi tanto incandescenti come il controverso Piano Colombia, che gli Stati Uniti caldeggiano nella regione. Nonostante questo cosiddetto piano controinsurrezionale e antidroga abbia ricevuto le critiche di buona parte dei partecipanti, le voci non sono andate oltre la protesta lieve contro gli effetti negativi lasciate dalle disinfestazioni aeree degli Stati Uniti su vasti territori della Selva Amazzonica, dove proliferano le coltivazioni illecite.
E dove è rimasta l’analisi delle errate politiche basate sulla disciplina fiscale, nell’eliminazione arbitraria di barriere al commercio e all’investimento, nella privatizzazione di imprese pubbliche e nelle misure di aggiustamento dei conti pubblici.
Con le eccezioni dei Presidenti Fernando Henrique Cardoso e Hugo Chávez Frías, di Brasile e Venezuela, rispettivamente, che in varie occasioni hanno argomentato la necessità dell’integrazione latinoamericana e dell’unione delle voci in ogni forum mondiale, in pochissimi accordi viene valutato l’aiuto alla maggioranza impoverita. E’ di più: non ci sono stati pronunciamenti per destinare risorse pubbliche all’istruzione, alzare le tasse sulle ricchezze ai fini di una migliore ridistribuzione, proteggere i diritti dei lavoratori e aiutare le famiglie più povere. Se non si è parlato di questo, per che cosa è stato realizzato il vertice?
Un elemento in più: l’America Latina paga per gli interessi del proprio debito estero il doppio delle entrate grazie agli investimenti diretti e tale peso va a gravare sugli uomini dei loro popoli. Il vertice, lontano da propugnare soluzioni, certo non immediate bensì mediate o a largo raggio, si è diretto ancor di più verso l’indebitamento quando il presidente Gerge W. Bush ha chiesto l’appoggio per ottenere dal FMI nuovi prestiti all’Argentina in cambio di un maggiore adattamento fiscale, con il pretesto di tranquillizzare i mercati finanziari. Che povertà di cervello: mai la banca internazionale ha risolto come ridurre la povertà e la disuglianza economica senza sacrificare la crescita economica. E il peggio è che le economie latinoamericane non crescono o lo fanno vagamente nel contesto attuale.
Il vertice di Santiago del Cile non ne ha approfittato per creare un nucleo bolivariano, capace di iniziare la necessaria rivoluzione latinoamericana per un nuovo ordine finanziario internazionale meno ingiusto, saccheggiatore e devastatore; un nucleo capace, infine, di generare l’imprescindibile unità e di far diminuire la dipendenza dei nostri popoli.

Caffe’ all’aroma di crisi
Torna a inizio pagina
settembre 2001 - La peggiore crisi del caffè che si ricordi in America Latina, minaccia di avere origine in situazioni critiche di instabilità sociale e politica nei Paesi produttori.
Nonostante gli sforzi dei produttori di caffè per concertare politiche che potenzino l’aumento del valore dei raccolti nel mercato internazionale, le vendite dell’aromatico chicco continuano a scendere in picchiata e già superano il 25 % della diminuzione delle entrate che storicamente generavano in America Centrale, Messico, Colombia e Perù.
La forte depressione dei prezzi ha provocato la caduta delle esportazioni nelle suddette nazioni e la situazione diventa critica in quelle in cui il caffè costituisce una delle scarse entrate generanti divisa. Secondo l’opinione di qualificati esperti in economia e nella commercializzazione di questo prodotto agricolo, i disastrosi prezzi cha attualmente ha il caffè sul mercato internazionale impediscono ai produttori di rimanere a galla.
Colpiti da fenomeni naturali (severa siccità in zone di piantagione del Centro America o eccessive piogge fuori stagione) e scarsi finanziamenti interni, questi Paesi latinoamericani soffrono anche per la scomparsa dell’Accordo Internazionale del Caffè (AIC).
Mentre ha governato l’AIC – sotto il rettorato dell OMC – il commercio del caffè è salito a circa 30 miliardi di dollari l’anno, dei quali i produttori ricevevano un terzo approssimativamente. Senza l’accordo, le vendite sono ammontate a 55 miliardi, ossia, sono cresciute globalmente, però ai rassegnati produttori sono cominciate ad arrivare allora meno di 7 miliardi, appena un’ottava parte.
Il Presidente della Colombia, Andrés Pastrana, ha insistito recentemente sulla necessità di nuovi accordi nel commercio internazionale, in particolare a causa della crisi attuale, che solo nel suo Paese colpisce più di due milioni e mezzo di persone.
Caduta dei prezzi e diseguale distribuzione delle quote esportabili potrebbero gravemente colpire estesi settori agricoli delle nazioni in questione, da lì la tagliente battuta di Pastrana: "Le soluzioni non possono essere a medio o lungo termine, ma immediate".
Adesso resta solo di avere fiducia nel fatto che volontà e coscienza camminino mano nella mano: la volontà di dialogare in cerca di consenso per nuovi accordi commerciali e la coscienza del fatto che un’uscita di di sicurezza risiede nell’integrazione, perché poco ci si può aspettare dalle borse commerciali e finanziarie se non si agisce uniti.
Non si dimentichi che alla banca multilaterale, o transnazionale, o filo-nordamericana – leggasi il binomio maligno Banca Mondiale-FMI e la sua grottesca appendice regionale, il BID (Banca Interamericana di Sviluppo) – poco importa la disuguaglianza e la povertà nel continente, acutizzatesi ora nelle regioni del caffè e che sono sul punto di provocare esplosioni sociali, per le quali lo stesso Pastrana ha lanciato l’allarme.
Chi non ci crede, vada in Nicaragua, solo per citare la situazione più drammatica – chiarisco che la crisi del caffè è lì un’aggravante in più del caos generato dalla già inqualificabile corruzione del Governo di Arnoldo Alemán – e si imbatterà in un marcia della fame alle porte della capitale, Managua.

ALCA: divoratore di economie della regione
Torna a inizio pagina
settembre 2001 - Per dare una continuità a Cuba alla concertazione dell'ampio, crescente e convergente movimento che si va formando contro il progetto dell'Area di Libero Commercio delle Americhe, organizzazioni cubane in rappresentanza di diversi settori della società intendono realizzare a La Habana, dal 13 al 16 novembre di quest'anno, un Incontro Continentale di Lotta contro l'ALCA.
L'incontro si propone di analizzare completamente un'ampia serie di temi per valutare le minacce che quest'accordo porta ai popoli dell'America Latina e dei Caraibi e a tracciare le strade verso altri sistemi di integrazione basati sulla democrazia, sull'umanità, sulla giustizia sociale e sulla difesa dell'ambiente.
E' un appello a sindacalisti, contadini, studenti, donne, accademici, artisti e intellettuali di ogni tipo, a giovani, indigeni, ecologisti, religiosi, imprenditori nazionali e culturali che condividono la preoccupazione per il destino dei nostri popoli.
Rientra nella prospettiva del Secondo Vertice dei Popoli delle Americhe, tenutasi in Quebec, e nel solco dello straordinario movimento contro la globalizzazione neoliberista che ha impressionato a Seattle, Davos, Praga, Genova e in altri scenari di lotta popolare.
Pretende, inoltre, di essere un importante antefatto d'appoggio e di mobilitazione per il Foro Mondiale di Porto Alegre, in Brasile, che si terrà il prossimo anno.
L'ALCA è un progetto strategico ed egemonico degli Stati Uniti per consolidare il loro dominio sull'America Latina e sui Caraibi, per ampliare le loro frontiere economiche e assicurarsi un grande mercato di fatto prigioniero delle aziende statunitensi, eliminando la concorrenza dell'Unione Europea e del blocco asiatico.
Nell'aprile di quest'anno, in Quebec, Canada, si è tenuta la terza Riunione dei Capi di Stato del continente, nella quale sono continuati, a porte chiuse, i negoziati sull'accordo.
Parallelamente, proprio in Quebec, si è tenuto il Secondo Vertice dei Popoli delle Americhe, che ha fissato le regole delle azioni contro l'ALCA, che da qualche anno vanno realizzando varie organizzazioni sociali del continente con un grande sforzo di risposta articolata a questo progetto di dominazione neoliberista.
Li è emersa con forza l'iniziativa di effettuare un plebiscito o una consultazione dei popoli sul tema dell'ALCA.
L'appuntamento di La Habana cerca di porre enfasi sul fatto che un progetto sostenuto da un governo di estrema destra, che stimola la corsa agli armamenti e alla repressione su scala mondiale, complice di una politica razzista e sessista, nemico delle misure elementari per la protezione dell'ambiente, non potrà portare nulla di buono per l'insieme delle Americhe.
I promotori del vertice vogliono sottolineare che l'ALCA significa l'assorbimento totale delle economie dell'America Latina e dei Carabi.
Sottoscritto dalla Centrale dei Lavoratori Cubani (CTC), dalla Federazione degli Studenti Universitari (FEU), dalla Federazione delle Donne Cubane (FMC), dall'Unione dei Giornalisti Cubani (UPEC), dall'Unione degli Scrittori e Artisti Cubani (UNEAC), tra le altre organizzazioni di Cuba, l'appello propone una vasta agenda.
Alcuni tra i temi da trattare sono: "L'ALCA e l'integrazione economica dell'America Latina e dei Carabi"; "L'integrazione subordinata agli Stati Uniti sotto i principi di politica neoliberista"; "Commercio, investimenti, finanza, proprietà intellettuale, rapporti di lavoro e ambiente". I lavori si concluderanno con una Dichiarazione e un Piano d'Azione contro il preteso progetto di Washington.

Vivere pagando, per morire con i debiti
Torna a inizio pagina
luglio 2001 – L’America Latina offre un panorama desolante di disuguaglianza, povertà, indebitamento, emigrazione e, di conseguenza, instabilità politica e sociale. L’ondata migratoria che percorre il continente è il miglior riflesso del fallimento dei sistemi che vi imperano.
Dopo vari decenni di atroci dittature e di governi repressivi come quelli di Cile, Paraguay, Argentina, Guatemala ed El Salvador – pendenti tuttora come spade di Damocle sopra questi popoli – l’America Latina ha visto il succedersi di sistemi più o meno democratici. E’ sembrato che l’umano diritto alla piena libertà sarebbe arrivato con il ‘nuovo’ modello politico ed economico, varianti possibili a parte.
Non pochi hanno creduto o hanno immaginato allora che con la fine della guerra fredda e dei bagni di sangue nella geografia americana, e concluse le crisi interne in senso generale, sarebbero stati recuperati i capitali evasi in tempo di repressione e sarebbero migliorati gli interscambi economici con altre regioni o paesi. L’illusione ha avuto anche un punto più alto: si era pensato che sarebbero diminuite le crescenti disuguaglianze.
Mai è stato così. Che cosa è successo veramente? Le nazioni latinoamericane sono state zavorrate dall’importazione della ricetta neoliberista somministrata dal Nord, che non cessa nel suo impegno di dominare il Sud, di domarlo come una fiera e di tenerlo come cortile interno, e che non smette nella ricerca di formule, ogni volta più complesse, più sottili, quasi perfette, per ottenere i propri obiettivi in modo mascherato o apertamente.
L’onda neoliberista e la pressione delle multinazionali, degli organismi finanziari internazionali e anche dei Governi delle potenze economiche con grandi interessi nella regione, hanno smantellato gli stati latinoamericani, hanno privatizzato le aziende pubbliche, le risorse naturali e i servizi sociali.
Le aziende straniere hanno realizzato affari scandalosi, impadronendosi del patrimonio statale e nazionale a prezzi irrisori. Lo smantellamento delle dogane è stato tale che le piccole e medie aziende nazionali sono rimaste alla mercé di una concorrenza disuguale: sono crollate bruscamente di fronte alla logica incapacità di affrontare le multinazionali.
Condannati a vivere pagando, per morire con i debiti, i governi latinoamericani continuano ad accettare duri piani di aggiustamento, in cambio di nuovi prestiti, mentre le loro economie continuano in discesa e i loro popoli si dissanguano.
La vendita di aziende statali al capitale privato ha risposto alla raccomandazioni del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e aveva tra i suoi principali obiettivi di ridurre il saldo del debito estero. Al contrario il debito totale dell’America Latina è quasi raddoppiato in meno di dieci anni: da 440.000 milioni di dollari nel 1990 è salito a 750.000 milioni di dollari lo scorso anno – equivalente al 39 % del Prodotto Interno Lordo e al 201 % delle esportazioni di tutte le nazioni dell’area – e quello che è ancora peggio è il pagamento degli esorbitanti interessi che blocca ogni possibilità di sviluppo e di effettiva lotta contro la povertà e contro l’esclusione sociale.
Ma chi dubita che il continuo incremento di detti interessi risponde più a una decisione politica che insiste per perpetuare la precarietà finanziaria del Sud, piuttosto che alle continue oscillazioni del mercato? Così, nuda e cruda è la realtà, al limite che ciascun bambino latinoamericano quando nasce ha già 1.550 dollari di debito.
Il recente Vertice sul Debito Sociale e sull’Integrazione Latinoamericana, svoltosi alcune settimane fa a Caracas, la capitale del Venezuela, ha affrontato apertamente il magro panorama, senza un orizzonte definito, che scuote la regione.
Secondo Bernardo Kliksberg, direttore delle Ricerche della Banca Americana dello Sviluppo (BID), la povertà colpisce 60 latinoamericani su 100 – e 40 di questi vivono in condizioni estreme – e aggiunge: "Un terzo della popolazione non dispone di acqua potabile, una madre su cinque partorisce senza alcun tipo di assistenza medica e il latinoamericano medio ha solo cinque anni di scolarità alle spalle".
Ma le statistiche arrivano a definire realtà terrificanti e inimmaginabili fino a qualche anno fa. E’ stato calcolato che ogni anno avvengono in America Latina 30 omicidi ogni 100.000 abitanti, cifra sei volte maggiore rispetto a quella dei paesi sviluppati.
Kliksberg afferma che è una violenza che non è localizzata, ma che è epidemica, che si propaga, dovuta alla disoccupazione giovanile, al basso livello di educazione, alle famiglie devastate dalla miseria e alle disuguaglianze che stanno arrivando a un punto di non ritorno se non vengono prese misure adeguate per tempo. Perché l’America Latina è già la regione con le entrate e le ricchezze distribuite nel modo peggiore: il 10 % della popolazione più ricca ha entrate 84 volte superiori al 10 % della popolazione più povera.
I parlamentari delle 22 nazioni rappresentate a Caracas, oltre a dirigenti sindacali, religiosi e governativi hanno valutato le possibilità per il necessario viraggio di un quadro così desolante. Ma una volta ancora il neoliberismo ha impedito accordi concreti e immediati: non si possono fare appelli da sottoporre a votazione ancor prima di avere detto cosa concretamente si deve fare, e l’America Latina è proprio di questo che ha bisogno. Per smettere di essere la regione più disuguale del pianeta si devono impostare politiche concrete che puntino verso un accesso ugualitario ai servizi indispensabili, in particolar modo alla salute e all’educazione.
Ogni giorno è sempre più urgente prendere la via dell’integrazione per ottenere una forza che possa invertire l’indebitamento e la povertà attuali. Consolidare un blocco capace di riunire le potenzialità disperse dei debitori per negoziare con i creditori. Perché fino a oggi gli accordi regionali per il trattamento della situazione sono stati solamente fantasmi, poiché non sono mai esistiti.
Il Vertice nella terra di Simón Bolívar, il Liberatore, è servito per comprovare che molti latinoamericani stanno comprendendo la necessità dell’integrazione, senza obbedire – ed è molto importante – ai disegni di Washington.
I parlamentari della regione hanno concordato che di fronte alla globalizzazione, i legami tra le nazioni dell’America Latina e il Caribe sono oggi più perentori che mai, e non solo per combattere l’allarmante e desolante povertà, bensì per questioni di dignità, e se si tratta di dignità latinoamericana il peggior nemico del momento è la presunta Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA), che forse sarebbe meglio chiamarla "area per la libera appropriazione dell’America Latina e del Caribe" da parte degli Stati Uniti.
Perché, come è stato ben affermato nel vertice, l’ALCA costituisce un ostacolo e non un mezzo: se l’integrazione latinoamericana non procede prima che avanzi tale fantasma, promosso e spinto dalla Casa Bianca, il processo corre il rischio di perdersi e di essere affossato.
Il principale difetto dell’ALCA è quello di trattare allo stesso modo tutte le nazioni come se tutte avessero la stessa estensione di territorio o lo stesso grado di sviluppo economico degli Stati Uniti, per trarne maggior profitto dalle evidenti brecce esistenti. Le nazioni latinoamericane sono in grado di impedire per tempo un’ulteriore frammentazione e una spoliazione maggiore, ultramoderna, mistificata da presunte liberalizzazioni commerciali in ogni direzione.
Vale la pena di ricordare adesso quanto espresso dal Presidente Hugo Chávez, padrone di casa del Vertice: "E’ necessaria l’unione politica come massima priorità per raggiungere nell’area l’unità economica e sociale, che costituisce l’opzione insostituibile per fare uscire i nostri popoli dalla povertà adesso che modelli come il neoliberismo sono in caduta. Bisogna approfittare di questa opportunità, aiutandoci con audacia, coraggio e saggezza per arrivare a un’Unione di Popoli Latinoamericani e Caraibici ispirata al pensiero di Simón Bolívar".

Comunità del Caribe: il tortuoso cammino dell’integrazione
Torna a inizio pagina
luglio 2001 – La storia recente della Comunità del Caribe lascia poco spazio all’ottimismo riguardo a quello che concerne l’integrazione economica, se ci atteniamo ai risultati dell’ultima Riunione-Vertice dei Capi di Governo dei quattordici paesi membri, effettuata a Nassau, Bahamas.
Diversi temi erano in elenco nell’agenda sui quali sono stati imperniati colloqui e dissertazioni degli invitati, tra questi i Presidenti della Repubblica Dominicana e del Messico, rispettivamente Hipólito Mejía e Vicente Fox.
Fin dai primi tempi - dal 4 luglio 1973 data di costituzione mediante il Trattato di Chaguaramas (Trinidad e Tobago) – la Comunità ha messo in luce la necessità di stabilire un mercato comune, oltre che a legami che permettessero un sostenuto e necessario interscambio bilaterale in materia di salute, educazione, cultura, turismo e industrie varie.
Le divergenze sul tavolo di dialogo non sono nuove e costituiscono la causa fondamentale della mancata entrata in vigore del cosiddetto Mercato Comune Caraibico, concordata nel 1992, in quanto ancora oggi non vi è un consenso unanime tra i suoi membri su vari punti tecnici. Per le nazioni e per i popoli non c’è più tempo di ulteriori ritardi e, purtroppo, a Nassau si è fatta poca strada.
Già nel 1997, le piccole ex-colonie avevano riposto le loro speranze nella cosiddetta Associazione di Prosperità e di Sicurezza nei Caraibi, firmata da William Clinton, ex-presidente nordamericano, con i leader della regione. Ma la realtà è rimasta molto distante dalle aspettative, perché in pratica hanno ricevuto un impulso considerevole solo quegli aspetti che interessavano a Washington, come gli accordi per permettere a imbarcazioni statunitensi l’entrata nelle acque territoriali di queste nazioni, come parte della lotta contro il narcotraffico.
Una prova in più: ricordiamo solamente la posizione difensiva adottata dalla Casa Bianca nel mezzo dei contrasti della crisi delle banane, quando gli interessi dei paesi dei Caraibi erano in contrasto con quelli delle aziende statunitensi in America Centrale.
Per caso servono altri elementi per dimostrare la necessità del CARICOM a rendere concreti il mercato comune e l’integrazione? La celerità con cui avanzano gli avvenimenti sotto la pesante zavorra della globalizzazione, obbliga i suoi membri a uscire dalla cappa di diffidenze che attualmente li sovrasta, perché l’unica alternativa possibile per contrastarla sono i blocchi commerciali, costituiti su interessi e basi reciproci. La storia, i costumi, la geografia, la natura e perfino l’idiosincrasia comune, dipendono dalle loro mani: pertanto, che peccato che a Nassau non si siano fermati a pensare e ad analizzare profondamente tale situazione, quella che lo stesso segretario generale della Comunità Caraibica, il guyanese Edwin Carrington, avrebbe definito poco tempo dopo: "I piccoli paesi che compongono la regione dei Caraibi devono nuotare insieme oppure affogare nelle turbolente acque dell’ambiente internazionale".
I criteri individuali sembrano rallentare i destini della subregione, anche se nessuno nega quanto sia difficile liberalizzare le proprie politiche economiche, che si sostentano ora sullo sfruttamento del turismo, sui servizi finanziari e sull’esportazione della frutta, in sostituzione di vecchie economie basate sulle piantagioni – canna da zucchero, caffè, cacao e banane – quasi in modo esclusivo.
Alcuni dei partecipanti hanno espresso a Nassau che è imprescindibile prendere precauzioni prima di definire la messa in moto del nuovo blocco economico multilaterale. Altri, come Ralph Gonsalves, Primo Ministro di San Vicente y las Granadinas, hanno ripreso il tema della libera circolazione dei professionisti, ma il Primo Ministro di Bahamas, Hubert Ingraham, si è mostrato scettico per l’elevato numero di haitiani senza documenti che esiste nel suo paese.
Questo elemento cardine, così come i contrasti di frontiera nei quali sono coinvolti diversi membri con i loro vicini – Dominica e Guyana con il Venezuela, il Belize con il Guatemala, tra gli altri – la mancanza di un tribunale caraibico, imprescindibile per dare gli strumenti all’integrazione, e il timore delle nazioni a minor sviluppo di perdere risorse finanziarie, costituiscono l’aspetto focale delle attuali situazioni indefinite, che rallentano il consolidamento del gruppo.
Mentre più ci si sofferma a limare le proprie asperità e più si prosegue nell’applicazione di criteri protezionistici che rispondono agli interessi della grande potenza vicina – gli Stati Uniti, è chiaro – e non alle proprie necessità strutturali, più si tarderà ad arrestare l’onda d’urto delle grandi nazioni. Il cammino è tortuoso, ma non impossibile. Magari non ci siano ritardi e che Nassau non si converta in una nuova sindrome

La fame non cede e risorge la schiavitù
Torna a inizio pagina
giugno 2001 – Mentre il numero di affamati nel presente anno probabilmente crescerà di altri 60 milioni in tutto il mondo, non si intravedono luci che indichino che diminuirà il solco tra ricchi e poveri. Questo fatto è riconosciuto da enti ed esperti di tutte le latitudini, compresi quelli nordamericani, che si fanno eco di un flagello che sembrava fosse estinto: la schiavitù.
Un documento emesso a Washington, risultato di 18 mesi di riunioni dello statale Consiglio Nazionale dell’Intelligenza e di esperti non governativi degli Stati Uniti è arrivato alla conclusione che è improbabile che la globalizzazione economica conduca al benessere generale nei prossimi 15 anni in quanto la differenza tra ricchi e poveri continuerà ad aumentare tra gli stati e all'interno di ciascuno di essi.
E’ previsto che la maggior parte dell’Africa, del Medio Oriente, del sud, centro e sud-est dell’Asia e dell’America Latina resteranno molto arretrati nei confronti dei paesi ricchi e tecnologicamente più avanzati, capeggiati dagli Stati Uniti. Gli esperti di Washington hanno precisato che le regioni, i paesi e i gruppi arretrati patiranno l’instabilità politica e l’alienazione culturale.
In questi la popolazione soffrirà di una crescente ristagnazione economica, di instabilità finanziaria e politica e si incrementerà l’emigrazione verso i paesi sviluppati, in principal modo verso gli Stati Uniti. Poiché ritardo tecnologico è sinonimo di povertà e a questa è unita la fame, ci sarebbe da aggiungere alla relazione un fattore che è stato omesso: l’esistenza nel mondo di circa 800 milioni di persone che soffrono la fame (dato della FAO), situazione che si aggraverà nel presente anno per 60 milioni di persone minacciate dalla scarsità di alimenti e da emergenze alimentari, secondo l’avvertenza della stessa Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Agricoltura e l’Alimentazione..
La FAO considera che 36 paesi in via di sviluppo stanno affrontando una grave insufficienza di alimenti come conseguenza della povertà aggravata da intense siccità e da guerre civili.
Un’altra significativa omissione la cita Juan Somavia, direttore dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIT), quando avverte che le cifre ufficiali indicano in circa 160 milioni i disoccupati nel mondo, anche se si arriverebbe alla cifra di un miliardo se si tenesse conto del mercato lavorativo informale. Il 75 % dei disoccupati non ha assistenza sociale, né un’indennità di disoccupazione, né qualsiasi altra protezione.
In questa situazione sono compresi molti lavoratori dei paesi sviluppati. Ricordiamo che i paesi più ricchi dell’Europa e degli Stati Uniti hanno ridotto negli anni ’90 le disposizioni di sicurezza sociale e di aiuto ai disoccupati.
Non si può disconoscere che i lavoratori sono diventati prigionieri della globalizzazione controllata da mercanti che propongono un’economia di speculazione e una crescita economica che porta con sé la disoccupazione.
Insieme a questa situazione, risorge nel mondo una pratica tanto antica e barbara come la schiavitù e la servitù feudale, mentre aumenta con gran rapidità il traffico di esseri umani, compreso il sequestro di persone per sottometterle in schiavitù, principalmente in Africa dove, secondo la OIT, 27 milioni di esseri umani lavorano sotto la minaccia dei padroni che li sottopongono a violenti castighi, in particolar modo nell’agricoltura.
L’istituzione umanitaria Anti-Slavery International ha denunciato che il lavoro forzato e la servitù sono forme moderne di schiavitù non meno gravi di quelle antiche che non hanno avuto spazio in questo secolo, mentre organizzazioni non governative e sindacati chiedono drastiche misure governative per far finire l’inumano sistema di cui si hanno moltecipli esempi nel continente africano e in altre regioni del Terzo Mondo, dove sono in aumento la fame e la schiavitù moderna.

Clausola democratica made in Usa
Torna a inizio pagina
giugno 2001 - Stati Uniti, Argentina, Perù e Costarica si sono incaricati di cucinarla ma il lezzo del condimento guasto e gli ingredienti scaduti l'hanno tradita, anche se prima di essere servita, la maggioranza dei commensali si sono rifiutati di degustare la ricetta dello chef (Washington): clausola democratica alla San José.
Gli ingredienti? Quelli che comportano l'obbligo generale di applicare in tutti i paesi americani, i prodotti che si usano per preparare il piatto preferito da padroni e signori: la cosiddetta "democrazia rappresentativa".
Il ristorante? Una vecchia casa a San José, la capitale del Costa Rica, dove si sono incontrati i rappresentanti di 34 nazioni, che formano l'Organizzazione degli Stati Americani (OEA).
Al banchetto è stato invitato dallo stesso Presidente costaricano, il nuovo segretario di Stato, Colin Powell, che ha lasciato il campo ai suoi assistenti. Giorni prima lo aveva fatto con i Ministri degli Esteri del CARICOM.
Chi realmente ha sentito la sua assenza è stato il padrone di casa che non ha avuto il tempo di riscrivere il discorso inaugurale, mantenendo intatti gli elogi alla difesa dei diritti umani di "stile nordamericano".
Per senso di giustizia, dovrei sottolineare che questa 31a sessione dell'Assemblea Generale dell'OEA, non aveva altro da fare che adempiere a un mandato della 3a Vertice delle Americhe, tenutasi in Quebec lo scorso aprile, il cui obiettivo istituzionale era quello di escludere Cuba e tutti quelli che seguono il suo esempio nel costruire una società giusta, sovrana e indipendente.
I documenti, pertanto, arrivarono a San José già precucinati dal Nord e, con la prepotenza che li caratterizzano, nella speranza che fossero trangugiati così com'erano, com'era abitudine all'epoca delle repubbliche delle banane.
Cosa si pretendeva in Costa Rica, qual era l'obiettivo di quest'appuntamento? Dare il via libera a una denominata "clausola democratica" con il presunto proposito di unificare ed estendere a tutto il sistema politico quanto un giorno Washington ha delineato per la regione, con il per nulla nascosto scopo di controllare i fili del potere politico ed economico nelle nostre terre.
Oggi, come mai prima, il mondo unipolare necessita di un Centro e un Sud America docile al volere imperiale.
Al di là di quanto detto, la "clausola democratica" con la quale si pretende di rafforzare la sicurezza delle Americhe, cerca di stabilire che quando il Governo di uno Stato membro considera che il suo processo politico istituzionale o il suo legittimo esercizio del potere sono a rischio, potrà ricorrere all'OEA per sollecitare l'assistenza opportuna e necessaria per la conservazione dell'istituzione democratica. Leggasi "intervento".
Allo stesso modo, con il parere del Segretario Generale e l'avvallo dei paesi membri, qualsiasi alterazione dell'ordine istituzionale democratico in un determinato paese lo condurrebbe alla sua esclusione da tutti i meccanismi dell'organismo.
Forse potremmo dimenticare che per la pressione yankee, Cuba è stata sospesa dall'OEA perché è stato considerato da Washington che il trionfo della Rivoluzione cubana il 1° gennaio 1959, "ha interrotto il sistema costituzionale" a Cuba?
La già condannata al fallimento "clausola democratica" prevede misure punitive a carattere politico ed economico contro coloro i quali pretendono, ahimè, di esercitare il potere a favore del popolo.
Chi si comporta così dovrà vedersela, inoltre, con gli organismi finanziari internazionali, i quali negheranno loro ogni credito. Lo ha affermato Peter Romero, il funzionario uscente del Dipartimento di Stato nordamericano che ha presieduto la delegazione degli Stati Uniti. E' necessaria l'approvazione di una risoluzione, ha prospettato, "che faccia un appello alla Banca Interamericana di Sviluppo (BID), affinché tenga conto della 'clausola democratica e si comporti di conseguenza nella sua politica dei prestiti".
Con sfrontatezza ha ammesso che "questa sarebbe la prima volta che un'organizzazione regionale come l'OEA fa un appello a una banca multilaterale, chiedendole di sospendere i prestiti a uno dei suoi membri per motivi politici.
Di questo si tratta. Utilizzare una volta di più l'OEA come un'arma di esclusione contro quelli che resistono nel copiare gli schemi che i governi yankee hanno imposto all'America Latina e al Caribe per perpetuare la propria egemonia imperiale.
Già nel Quebec, quando durante il 3° Vertice delle Americhe, nel firmare con riserva la Dichiarazione Finale, il presidente del Venezuela, Hugo Chávez, si è incaricato di ricordare che si opponeva alla lettera e allo spirito della famosa clausola perché "la democrazia rappresentativa" che si pretendeva d'imporre aveva portato al suo paese solo miseria e corruzione.
Questa volta, a San José, dopo il Venezuela, 15 nazioni hanno alzato la voce contro questa camicia di forza. Tutti i paesi caraibici e alcuni centroamericani e sudamericani hanno impedito che fosse utilizzato in quest'occasione lo strumento giuridico dell'annessione, che sarebbe stato il complemento dell'ALCA.
L'impero ha novanta giorni per indorare la pillola.
Di quale "clausola democratica" stanno parlando se non ve n’è nessuna più democratica del principio di non intervento, di libera determinazione dei popoli e di eguaglianza giuridica tra gli stati, vigente in tutti e ciascuno degli strumenti che regolano le relazioni internazionali (comprese la Carta dell'ONU e della stessa OEA), che finora nessuno ha posto in dubbio, almeno teoricamente?
Cos'è la democrazia? Cosa si intende per "interruzione del ritmo costituzionale"? Chi lo definisce?, o forse i paesi Latinoamericani hanno dimenticato il caso del Cile e il ruolo svolto dagli Stati Uniti. Chi allora ha alzato un dito per escludere Washington dalla OEA come adesso pretendono di fare con quelli che a beneficio del popolo sono disposti a governare con questo, esercitando un potere veramente partecipativo e trasparente.
Non sarà che il mondo unipolare necessita di un vero vaccino contro le possibili esplosioni sociali o movimenti popolari, che immunizzi per sempre lo Status Quo?
Potrà qualcuno negare che l'unico paese del continente che promuove ufficialmente la "interruzione del sistema costituzionale" con il rispetto degli altri paesi vicini, sono gli Stati Uniti nel caso di Cuba? A tal punto che è stato consacrato nella propria legislazione nordamericana con la legge Helms-Burton.
Forse quelli che entro novanta giorni si daranno appuntamento a Lima, Perù, per firmare finalmente la famosa clausola non hanno pensato che questo è sufficiente perché la prima misura punitiva, la prima sanzione, la prima esclusione dal sistema continentale dovrebbe essere applicata contro gli Stati Uniti?
Non sarebbe ozioso domandarsi se nel caso di "interruzione del sistema costituzionale" di Cuba come conseguenza di un'aggressione nordamericana, il resto dei paesi dell'America Latina che hanno sottoscritto la Dichiarazione Finale del Vertice di Quebec, applicheranno allora la "clausola democratica"? o questa clausola è applicabile solo tra i paesi che la sottoscrivono?
Hanno pensato se non tremerà loro la mano per firmare l'esclusione di Washington se viene meno alla clausola democratica con la sua sempiterna politica di ingerenza e di intervento nella regione?
Dovrebbero accuratamente pensarlo quelli che hanno di fronte ai loro popoli e alla storia la responsabilità di sottoscrivere uno strumento giuridico di questa natura, il cui unico obiettivo è quello di liquidare in pratica l'indipendenza e la sovranità nazionale dei propri paesi e di consacrare il diritto dell'impero yankee a imporre il suo sistema in una specie di annessione collettiva.
Novanta giorni sono sufficienti per meditare.

Aspettativa per maternità: un diritto in estinzione
Torna a inizio pagina
maggio 2001 - All’ospedale Durand numerosi ricoverati, alcuni gravi, sono ancora in attesa di essere visitati dalla dottoressa Laura Fuxman, al lavoro in corsia già da 5 ore, senza pause.
Nessuno dei pazienti è in condizione di notare un particolare singolare: la dottoressa ha partorito appena 15 giorni prima e adesso il latte che le sale al seno le inumidisce il camice.
In tutto il mondo, infatti, il corpo di una madre calcola come un orologio i tempi dell’allattamento, incurante del fatto che la donna sia a riposo o costretta a lavorare. In quasi tutta l’America Latina proprio il diritto all’aspettativa per maternità, stabilito per tutelare la salute della madre e del suo bambino, rischia di finire per esistere solo sulla carta; tanto più che molte donne non denunciano la sua sistematica violazione da parte dei datori di lavoro per paura di perdere il posto.
"In realtà, in Argentina il contratto dei medici ospedalieri prevede il periodo di aspettativa; tuttavia la mole di lavoro da svolgere in corsia è tale, per cui le donne in maternità si sentono colpevolizzate dal fatto che la loro assenza comporta un maggior carico di lavoro per i colleghi" – spiega all’agenzia IPS il dottor Juan Rodríguez del Sel, marito della dottoressa Fuxman, mentre accudisce il piccolo Agustin.
La situazione di Laura Fuxman, pur non essendo registrata dalle statistiche, è in realtà analoga a quella di molte donne lavoratrici attive nell'intera regione, in particolare di quelle che percepiscono i salari più bassi.
Tutte loro si trovano di fronte a una difficile alternativa: mantenere a qualunque costo, per sé e per i propri figli, il posto di lavoro oppure essere costrette a crescerli nell'indigenza.
In Argentina questo problema ha raggiunto una gravità tale da spingere l'antropologa Monique Alfschul, coordinatrice dell'Associazione ‘Donne per l'uguaglianza’, ad affermare, in occasione dell'8 marzo, Giornata Internazionale della Donna: "Se le donne non si impegnano attivamente a difendere i loro diritti acquisiti, corrono il rischio di perderli. Il diritto all'aspettativa, per esempio, si trova già in una situazione critica".
Negli ultimi 10 anni, gli effetti negativi della flessibilità e della conseguente precarizzazione dei rapporti di lavoro sono ricaduti soprattutto sulle donne - una considerazione questa, dietro cui si celano i costi reali di questo fenomeno, come per esempio la rinuncia a diritti acquisiti a tutela della maternità.
A tale proposito, il Governo di Cuba ha annunciato che il periodo di aspettativa retribuito per le donne lavoratrici sarà prolungato da 6 mesi a 1 anno, differenziandosi così sensibilmente rispetto agli altri Paesi Latinoamericani, dove il permesso varia dagli 84 giorni in Messico e Perù, ai 3 mesi in Argentina e Uruguay, 4 mesi in Brasile e 4 mesi e mezzo in Cile e Venezuela.
Inoltre, mentre a Cuba questo diritto viene riconosciuto indistintamente a tutte le donne, negli altri Stati le assicurazioni dei Governi vengono spesso smentite dalla realtà quotidiana.
"Una donna finisce per accettare il fatto di dover tornare a lavorare subito dopo il parto, a volte portandosi addirittura il bimbo con sé, altre volte ricorrendo all'aiuto della famiglia" - commenta rassegnata la biologa argentina Valeria Miranda.
Lo stesso può succedere nelle scuole, dove un'insegnante che lavora tutto l'anno, tutti i giorni, ha a disposizione solo 45 giorni di maternità. "Questo accade perché non faccio parte dell'organico, ma figuro come lavoratrice a contratto" - spiega Yanina Gómez, insegnante in un collegio privato di cui ha preferito non fare il nome.
Secondo l'avvocato Carmen González, "è difficile portare la questione dei diritti in tribunale, perché sempre più donne, se vogliono lavorare, sono costrette ad accettare impieghi a tempo determinato della durata di 3, 6, 18 o 24 mesi, regolati da contratti che non contemplano il diritto all'aspettativa".
Per le collaboratrici domestiche, per esempio - continua González - che in Argentina costituiscono la forza lavoro più importante del Paese, la legge non prevede l'aspettativa.
Stando ai rilevamenti effettuati dalla Commissione Economica per l'America Latina e i Caraibi (CEPAL), un organismo delle Nazioni Unite, in quest'area soltanto il 9 % della popolazione possiede un reddito alto, il 14 % percepisce un reddito medio, mentre il restante 74 % percepisce salari che non sono sufficienti a sfuggire alla povertà.
In un documento informativo redatto dalla stessa Commissione si legge inoltre che "il lavoro salariato tende a essere sostituito da forme flessibili di impiego della mano d'opera, per ottenere maggior competitività e, nello stesso tempo, una riduzione dei costi". Il documento spiega come il costo della mano d'opera si riduca del 30 % quando dai contratti vengano esclusi previdenza sociale, ferie e permessi retribuiti e contributi pensionistici a carico del datore di lavoro.
Nello stesso comunicato si afferma inoltre che la situazione attuale del modo del lavoro "favorisce i contratti a termine contribuendo alla formazione di una categoria nuova di lavoratori, i salariati temporanei, della quale entrano a far parte soprattutto le donne, i giovani e i lavoratori con un basso livello d'istruzione".

Aziende statunitensi vogliono divorare quelle latino-americane
Torna a inizio pagina
maggio 2001 - L'intenzione delle maggiori multinazionali statunitensi di impadronirsi dell'economia latino-americana, utilizzando l'Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA), si è rivelata con la pubblicazione di una lettera recentemente inviata al Governo di George W. Bush.
Secondo l'agenzia Notimex, le più grandi società degli Stati Uniti hanno chiesto alla Casa Bianca di ottenere che nell'ALCA che tutti gli investimenti possano arrivare al 100% di capitale straniero.
Le aziende hanno chiesto "mano libera" sugli investimenti nell'area dell'ALCA.
Questi giganti, che videro rompersi il segretissimo Accordo Multilaterale d'Investimenti a livello mondiale, essendone stato divulgato il contenuto di ciò che si discuteva di nascosto all'opinione pubblica, pongono molta enfasi ai loro "appetiti" economici e mettono in risalto che "gli investimenti internazionali sono la condizione "sine qua non", perché le aziende statunitensi rivaleggino con successo nell'economia globalizzata ¼ .".
Gli imprenditori desiderano che sia dall'ALCA sia dagli accordi bilaterali con il Cile e con Singapore vengano eliminate tutte le barriere all'ingresso degli investimenti e permettano il 100% del capitale straniero, con il quale possano inghiottire le imprese nazionali che loro desiderino.
Inoltre, chiedono protezione contro espropriazioni dirette o indirette; compresa la salvaguardia contro regole che possano abbattere gli utili, così come garanzie che dispute con i governi possano essere discusse davanti a collegi arbitrali.
I firmatari di questo documento sembrano estratti da una pagina di "Who's who?" (Chi è chi?), del mondo delle multinazionali: Chevron, Daimler-Chrysler, Dow Chemical, DuPont, Eastman Chemical, Estée Lauder, Ford, General Electric, General Motors, Honeywell, International Paper, 3M, Motorola, Procter & Gamble, Texaco e UPS, tra le altre.
La lettera è stata inviata ai funzionari statunitensi un giorno prima del Vertice di Quebec, ma è stata divulgata solo alla fine della scorsa settimana, quando è stata consegnata al comitato del Commercio della Camera dei Rappresentanti.
Il Brasile entrerà nell'ALCA alla condizione che dai negoziati sortisca "un buon accordo di cui ne beneficino tutti i paesi coinvolti e non solo gli Stati Uniti".
"Noi non prenderemo una decisione preventiva sull'ALCA. Il Brasile analizzerà se l'accordo che si sta trattando serve ai nostri interessi. Vedremo. Se sarà un buon accordo vi aderiremo e se non sarà un buon accordo, ne resteremo fuori", ha dichiarato l'ambasciatore brasiliano a Washington, Rubens Antonio Barbosa, secondo l’agenzia DPA.
Queste dichiarazioni sono state una parte di una discussione molto "accalorata", alla quale hanno partecipato anche l'ex ambasciatore degli Stati Uniti in Brasile, Anthony Harrington, e il capo degli analisti di una multinazionale, Arturo Porzecanski, le cui affermazioni sono state calorosamente ribattute dal diplomatico.
Porzecanski ha affermato che il "Brasile ha un atteggiamento abbastanza freddo sull'idea dell'ALCA. L'approvazione del "fast track" (autorizzazione del Congresso per cui il governo possa negoziare più celermente accordi di libero scambio con altri paesi), non è facile, ma tutto sarebbe più semplice se il Brasile prenderà più seriamente l'ALCA e mostrerà un po' più d'entusiasmo sul trattato".
Secondo il diplomatico brasiliano, "l'unica cosa che facciamo è quella di cercare di difendere i nostri interessi. Quando qualcosa ci riguarda, il Brasile parla, e lo fa pubblicamente. Chissà forse questo è il problema: a volte è difficile comprendere che un paese latino-americano difenda chiaramente e francamente i suoi interessi di fronte agli Stati Uniti".
Barbosa ha fatto si che il Brasile apparisse come il paese che opponeva i maggiori ostacoli all'ALCA, ma nella riunione ministeriale di Buenos Aires, "a porte chiuse, quando i paesi hanno cominciato a parlare, si è visto chiaramente che il Brasile non era per niente il più radicale, né quello che ha più riserve. Al contrario, altre nazioni, per esempio alcuni paesi andini, sono stati molto più radicali".

Bush nomina ambasciatore all’onu il Machiavelli dell’America Centrale
Torna a inizio pagina
aprile 2001 - Toronto, Canada. Il futuro ambasciatore della Casa Bianca all’ONU – nonostante la sua candidatura sia ancora in attesa di approvazione da parte del Congresso – sarà probabilmente un’eminenza grigia della politica estera statunitense degli Anni ’80 in America Centrale: John Negroponte.
L’allora presidente Ronald Regan – spinto dall’ossessione di abbattere il Governo sandinista in Nicaragua e sbaragliare la guerriglia del Fronte Farabundo Martí di Liberazione Nazionale (FMLN) in Salvador – lo aveva nominato ambasciatore in Honduras, carica che ha ricoperto dal 1981 al 1985. In quegli anni, Negroponte è stato uno degli artefici di una tragedia di terribili proporzioni, che ha causato più di 200.000 vittime e due milioni di profughi, che per sfuggire ai conflitti armati in corso nei loro Paesi hanno cercato asilo negli Stati Uniti. Secondo una sentenza emessa dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia a favore del Nicaragua contro gli Stati Uniti, e da questi ultimi mai accettata, i danni politici ed economici subiti da questo Paese centroamericano ammontano addirittura a 17 bilioni di dollari.
In seguito, alla fine degli Anni ’80, in Nicaragua il Governo sandinista ha accettato di riconsegnare il potere, dopo aver perso le elezioni democratiche che hanno assegnato la presidenza del Paese alla signora Violeta Barrios de Chamorro – la candidata gradita a Washington. A El Salvador, invece, il FMLN ha firmato un accordo di pace con il Governo e ha consolidato la propria forza rappresentativa al punto da costituire oggi il secondo partito politico del Paese.
Sono passati vent’anni e, nonostante tutto quello che è accaduto, John Negroponte - il machiavellico ambasciatore statunitense in Honduras al tempo della infame guerra dei Contras, finanziati da Ronald Regan, contro i sandinisti in Nicaragua e i guerriglieri del FMLN a El Salvador – è stato candidato in questi giorni alla carica di ambasciatore degli Stati Uniti all’ONU dall’attuale presidente George W. Bush.
Negroponte – membro del corpo diplomatico statunitense da 37 anni – è stato ambasciatore in Messico nel 1989 e ha ricoperto la stessa carica nelle Filippine nel 1993. Amico dell’ex generale Colin Powell, capo della Sicurezza Nazionale durante la presidenza Regan e oggi Segretario di Stato del governo Bush, fu da lui nominato Direttore Assistente del Consiglio di Sicurezza Nazionale.
Durante il periodo del suo incarico come ambasciatore in Honduras, Negroponte ha mantenuto l’atteggiamento di un prepotente proconsole romano, tramando in tutta l’America Centrale. La sua responsabilità più grave è stata quella di aver diretto l’operazione segreta attraverso la quale la Casa Bianca, nella sua lotta senza quartiere contro il Governo sandinista e il FMLN, ha armato i Contras. Approfittando del potere così acquisito, Negroponte ha inoltre ottenuto il controllo del Paese, come se fosse stato lui il vero presidente dell’Honduras.
Questo Paese centroamericano è stato così ridotto a rango di colonia militare statunitense e utilizzato come base operativa dalla quale partivano le offensive dei Contras che hanno devastato il Nicaragua ed El Salvador. Nel periodo durante il quale Negroponte ha rivestito la carica di ambasciatore, gli aiuti militari degli Stati Uniti all’Honduras sono cresciuti da 4 milioni a 77.4 milioni di dollari. In pratica l’Honduras, uno dei Paesi più poveri dell’America Latina, si è trasformato da un giorno all’altro in una delle nazioni più militarizzate del continente, oltretutto in mancanza di nemici reali o presunti in agguato.
La militarizzazione ha avuto come conseguenza una serie di violazioni dei diritti umani, ai danni di quei cittadini honduregni che il Governo, condizionato da Negroponte e quindi dall’ambasciata degli Stati Uniti, sospettava essere comunisti o simpatizzanti del comunismo. Non a caso Negroponte ha svolto un ruolo fondamentale nell’istituzione del tristemente noto Battaglione 3-16, addestrato dalla CIA e conosciuto come il terribile Squadrone della Morte, responsabile della "sparizione" di non meno di 184 oppositori del Governo honduregno.
Dall’inizio di quest’anno negli Stati Uniti si è verificata una singolare serie di "coincidenze", che sembrano tuttavia studiate apposta per sgombrare il campo da qualsiasi ostacolo che possa compromettere la candidatura di Negroponte all’ONU.
In gennaio il cittadino honduregno Juan Angel Hernández Lara, sospettato di essere stato un membro del battaglione 3-16, è stato espulso dalla Florida. La stessa sorte è toccata a José Barrera, uno di coloro che nel Battaglione conducevano gli "interrogatori", che lo scorso 20 febbraio ha dovuto lasciare il Canada.
Nel frattempo, il generale Luis Alonso Discua Elvir, fondatore del gruppo di paramilitari del Battaglione 3-16 e titolare nel 1996 di un'alta carica diplomatica all’ONU su incarico del Governo dell’Honduras, ha perso il suo posto a New York il mese scorso. Discua - la cui nomina alle Nazioni Unite si presume dettata dall'intenzione di garantirgli l'immunità diplomatica, per metterlo al riparo da probabili accuse per crimini e violazioni dei diritti umani, commessi nel periodo in cui era a capo del famigerato Battaglione - sembra così aver perso repentinamente l'appoggio dei suoi soci di Washington.
Per la verità, Discua si è assunto di rado le responsabilità che la sua carica al Palazzo di Vetro richiedeva; ha infatti sempre preferito starsene a Miami, a curare le sue numerose proprietà, nonostante fosse stato accusato in più occasioni di violazione dei diritti umani da parte di organizzazioni umanitarie honduregne e statunitensi. Tali accuse, ignorate per anni, hanno improvvisamente sortito il loro effetto: lo scorso febbraio, tre settimane prima che Bush proponesse Negroponte come candidato alla carica di ambasciatore all'ONU, il Dipartimento di Stato, attraverso la Segreteria presieduta dal generale Powell, ha revocato a Discua lo status diplomatico con la motivazione che questi non ricopriva alcun incarico ufficiale alle Nazioni Unite. Discua si è visto perciò costretto a fare ritorno in Honduras alla fine dello stesso mese.
Due giorni dopo il suo rientro, però, dalle pagine del quotidiano ‘La Prensa’, ha affermato che nel 1983 fu proprio la Casa Bianca a convocarlo negli Stati Uniti per organizzare il Battaglione 3-16 e per collaborare con le forze antisandiniste dei Contras. Secondo l’opinione di Berta Oliva di Nativi, presidentessa di un’associazione che rappresenta le famiglie dei desaparecidos, "con le sue dichiarazioni Discua ha voluto inviare un messaggio ben preciso al Governo statunitense: se persisterà nell’intento di danneggiare la sua immagine, egli rivelerà il ruolo svolto da Washington nell’organizzazione dello Squadrone della Morte e la sua responsabilità nei crimini commessi in quel periodo". Tutto ciò potrebbe evidentemente compromettere la candidatura di Negroponte, superiore responsabile di Discua all’epoca delle violenze perpetrate dai paramilitari, da lui in seguito ufficialmente disconosciute in dichiarazioni rese di fronte al Congresso. Secondo quanto ha affermato in queste occasioni, infatti, l’Ambasciata in Honduras non è mai stata al corrente delle violazioni dei diritti umani commesse dal Battaglione.
Discua, da parte sua, da quando è stato rispedito in Honduras ha continuato a cantare, svelando alla radio e alla TV nazionale il coinvolgimento della Casa Bianca nelle operazioni condotte dallo Squadrone della Morte.
Negroponte ha senza dubbio più vite di un gatto. Basti pensare che quando lo scandalo dell’Irangate minacciò di travolgere il governo Reagan (lo scandalo scoppiò perché venne scoperto che gli Stati Uniti vendevano armi all’Iran per finanziare i Contras in Centroamerica, contravvenendo a due divieti del Congresso su questo argomento), Negroponte, che insieme al colonnello Oliver North dirigeva le operazioni dagli uffici della Sicurezza Nazionale al piano terra della Casa Bianca, ne uscì illeso, appoggiato com’era nientemeno che dall’allora generale Colin Powell, suo superiore.
Ora più che mai, poi, può contare sul potente appoggio del suo vecchio collega, nominato alla carica nientemeno che di Segretario di Stato del Governo Bush. Secondo fonti attendibili di Washington, infatti, sembra che Powell abbia scelto personalmente Negroponte per il posto di ambasciatore all’ONU. E’ proprio il caso di dire che Dio li fa e poi li accoppia.
In ogni caso, la sua nomina è ancora in attesa dell’approvazione da parte del Congresso e non è escluso che il Partito Democratico dia battaglia, anche se sarà difficile contrastare il potere di Powell, il capo dei falchi nella Segreteria di Governo. Il senatore John F. Kerry, membro del Comitato per i Rapporti con l’Estero del Senato, è uno di coloro che voteranno contro. In una sua recente dichiarazione ha infatti riferito di "nuove informazioni, che fanno supporre come in fatto di violazioni dei diritti umani l’Ambasciata statunitense in Honduras sapesse più di quanto avesse reso noto al Congresso e ai cittadini".
"Negli Anni ’80 – ha continuato Kerry – John Negroponte è stato una figura chiave all’interno dell’acceso dibattito a proposito del ruolo che gli USA avrebbero dovuto assumere nel contesto politico centroamericano e, ancora più importante, riguardo alle modalità e alle strategie – spesso mantenute segrete – attraverso cui si attuava la politica estera statunitense in quell’area". Tali rivelazioni, e il tentativo attraverso di esse di smascherare definitivamente Negroponte, non sortirebbero alcun effetto nel momento in cui la sua candidatura ricevesse il beneplacito del Congresso.
Se così fosse, il governo Bush agirebbe in maniera estremamente contraddittoria nei confronti dell’ONU: permetterebbe infatti a un fanatico anticomunista di rivestire una carica politica di notevole influenza, nonostante la guerra fredda faccia ormai parte della Storia. In altre parole, favorirebbe il rappresentante di una maniera obsoleta di far politica, una specie di "dinosauro", un personaggio che i suoi amici definiscono "un leale americano", mentre è considerato dai suoi oppositori di Washington "un individuo amorale".
Per Cuba l’eventuale conferma della sua nomina significherebbe in termini di politica estera che l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti dell’Isola proseguirebbe invariato. Per il Nicaragua invece - dove ci si aspetta che Daniel Ortega, leader del Partito Sandinista, sia favorito nelle elezioni presidenziali che si terranno a fine anno – la nomina di Negroponte equivarrebbe a fare un salto indietro nella Storia, un ritorno agli Anni ’80, quando lui e Ortega erano acerrimi nemici.
L’amministrazione Bush sembra così procedere facendo paradossalmente dei passi indietro, regredendo addirittura di 20 anni. Mentre la realtà cambia sempre più rapidamente, la situazione in America Centrale e nei Caraibi rimane fatalmente sempre la stessa.

Molti impedimenti e un superinteressato
Torna a inizio pagina
aprile 2001 – L’intenzione di trasformare quasi tutto il continente occidentale in una zona di libero commercio sta perdendo terreno alle porte del 3° Vertice delle Americhe.
Una riunione di Ministri del Commercio di questa regione conclusa il 7 aprile a Buenos Aires ha dato il consenso di proseguire su questa iniziativa e ha stabilito come data di inizio dicembre 2005.
Il tema figurerà tra quelli principali in esame da parte delle 34 nazioni americane che si riuniranno prossimamente nella città canadese di Quebec.
Da questo gruppo verrà esclusa solamente Cuba, una delle nazioni con i più alti indici di sviluppo umano nel contesto latinoamericano, secondo i dati pubblicati dall’ONU.
Uno dei documenti ufficiali inseriti nel sito web del Vertice afferma che questa decisione non proviene dal Canada, ma da un "consenso" espresso sette anni fa a Miami, quartiere generale dell’estrema destra cubano-americana.
Il cosiddetto Accordo di Libero Commercio delle Americhe (ALCA) affronta evidenti impedimenti per le comprovate situazioni non definite che sussistono proprio in materia di libertà dell’interscambio in questo settore, tenendo conto delle disparità abissali tra le economie del continente e delle paure che questo comporta.
Le preoccupazioni di questo genere superano nella realtà le gestioni degli acquisti, delle vendite e degli investimenti per tradursi in inquietudini politiche, ideologiche, sociali, scientifiche e che riguardano anche l’habitat e l’ambiente.
Se parliamo di commercio, le recenti riunioni dei Ministri di Finanze e Commercio dell’America, svoltasi a Toronto, Canada, e a Buenos Aires, Argentina, sono state testimoni di non pochi dubbi e modi di pensare rispetto a dogane, meccanismi antidumping, sussidi e quote.
La creazione di una zona senza barriere commerciali, dall’Alaska fino alla Terra del Fuoco era stata proposta nel primo Vertice (Miami 1994) e ratificata nel secondo (Santiago del Cile 1998), dove venne approvato il suo inizio nel 2005.
Gli esperti concordano sul fatto che tutto dipende dalla serietà e dalla disponibilità degli Stati Uniti a dibattere l’argomento su basi che presuppongano e non escludano le singolarità e gli aspetti di ogni nazione.
Accettare l’ALCA senza questo presupposto, significherebbe, più che un suicidio, la subordinazione assoluta alla principale potenza non solo del continente ma del mondo intero.
Il Presidente Bush e i suoi inviati nei citati Vertici hanno insistito sul fatto "prima si fa, meglio è", posizione che ha generato un senso di raggiro o di momentaneo sconcerto che alcuni statisti ed esperti non hanno tardato a smantellare.
I documenti dibattuti a Buenos Aires hanno visto segnati nei loro margini oltre mille appunti – "cos’è questo?" o "non si capisce" – testimonianza di quanto manchi ancora da precisare prima della nascita o dell’accordo dell’ALCA.
Soluzioni di conflitti, accesso ai mercati, agricoltura, investimenti, diritti di compensazione e di proprietà intellettuale, servizi, acquisti governativi, politiche di competenza e di equità, figurano nella lista dei paragrafi con a lato gli appunti menzionati, in un testo che è ancora lontano dall’essere una brutta copia.
In pratica, l’accordo base del Vertice di Santiago del Cile, riguardo alla definizione degli accessi ai mercati, è stato letteralmente incompiuto, la stessa cosa accaduta per l’inizio dei negoziati.
Charlene Barshefsky, inviata della Segretaria di Commercio degli Stati Uniti all’incontro svoltosi a Buenos Aires, forse è ritornata a Washington con la sensazione di aver visto trasformato in fumo il progetto che aveva portato, per effetto dell’antagonismo che ha dovuto affrontare.
Impossibile pensare che solamente dopo pochi giorni dell’incontro nel Quebec, tanti spinosi problemi possano essere chiariti.

Un "più" che terrorizza
Torna a inizio pagina
marzo 2001
– Questa volta è a Santiago del Cile. I governatori della Banca Interamericana dello Sviluppo (BID), principale promotrice e guardiana del neoliberismo nel continente, si sono riuniti e tutta l’America Latina – escluso Cuba – con seria preoccupazione rivolge la sua attenzione verso la capitale della nazione sudamericana.
All’interno delle strutture del Centro Culturale Mapocho, sede principale della riunione, si parla nuovamente del presente e del futuro della regione, di fronte allo sguardo (a volte complice, altre volte supplicante e persino di stanchezza) di rispettabili e democratici presidenti, imprenditori, politici e di circa 4.000 uomini d’affari e di rappresentanti di enti finanziari della regione e del mondo.
Insieme a temi puramente economici, inevitabilmente, si pongono quelli della disoccupazione, della crescente povertà, della distribuzione degli introiti disuguale – con la sua tendenza da sempre in aumento – dell’emarginazione, della discriminazione, della violenza. Ma tutto scorre all’interno di una retorica che perde le sue già poche tracce di utilità e di sentimento umano quando inciampa nelle ricette inflessibili mantenute dal potente ente come soluzione a tutti questi problemi.
Come è noto, la formula magica del BID è già vecchia e si riduce in essenza al fatto che i poveri (molti di più della terza parte degli abitanti del continente) hanno una sola via possibile per migliorare il loro accesso alle ricchezze: per ora essere più poveri e pagare il debito non contratto propriamente da loro, ma che gli compete e poi ..... bene poi, questo non è mai stato chiarito.
Tutto questo portato a scala nazionale significa vendere tutto alle multinazionali e al capitale privato, ridurre (a volte quasi a zero) le spese pubbliche, come quelle destinate all’educazione, alla salute, alla sicurezza sociale, e con questo pagare ciò che si deve ai creditori stranieri, per poi avere diritto ai crediti che manterranno vivo in eterno questo stesso debito e così continuare in un infernale circolo vizioso.
Ma mentre all’interno del Centro Culturale Mapocho quelli che credono alle formule della Banca Interamericana dello Sviluppo cercavano in molti casi di guadagnarsi la fiducia del gendarme del neoliberismo nella regione e di ottenere una qualche concessione finanziaria, fuori nelle strade centinaia di persone sfidavano la forte repressione e protestavano a nome delle vere vittime di queste politiche economiche: i poveri.
"Vogliamo che se ne vadano da qui quelli che dagli anni ’80 hanno provocato nel nostro paese oltre due milioni di disoccupati, di analfabeti, di bambini senza scuole, e sempre più povertà tra i poveri e disuguaglianza sociale", ha dichiarato uno dei partecipanti alle proteste.
"La ricchezza creata dal BID nel nostro paese è la nostra miseria", affermava uno dei cartelli portati durante le manifestazioni e che accusavano l’ente finanziario internazionale di propiziare lo sfruttamento inumano dei lavoratori, l’arricchimento dei più ricchi e l’ingiustizia nella regione.
"Il BID non vuole aiutare i poveri, bensì vuole fare arricchire i ricchi – ha detto un altro dei manifestanti – poiché altrimenti non porrebbe come condizione di un prestito per la costruzione di ospedali il fatto che un’alta percentuale dei letti siano in mano ai privati".
E proprio alcune ore prima che cominciasse la 42° assemblea annuale dell’ente, è scoppiata la crisi argentina. Il Governo di questo paese, seguendo le direttive della Banca Interamericana dello Sviluppo e di altre istituzioni finanziarie capitaliste, ha prontamente annunciato un taglio delle spese pubbliche di 1.962 milioni di dollari per il 2001 e di 2.485 milioni per il 2002, e così alleggerire il suo esagerato deficit fiscale.
E come è precisato nel programma anticrisi argentino, le attività più colpite saranno l’educazione, la salute pubblica e la sicurezza sociale, vale a dire più bambini e adolescenti senza scuole, più maestri senza lavoro, gente povera senza medici e medicine, persone invalide senza assistenza di nessun tipo e padri di famiglia senza lavoro ..... ossia, più fame e più bisogni per quelli che da sempre hanno sofferto queste situazioni.
La prima grande verità uscita dal primo giorno di sessioni della riunione è stata quella che, benché nel 2000 la crescita economica dell’America Latina e dei Caraibi sia stata del 4 %, questo risultato non solo non è stato sufficiente per alleviare la povertà e la disuguaglianza, bensì non ha potuto evitare che entrambe aumentassero e diventassero più profonde nella regione.
Nonostante la sempre più continua e definitiva evidenza dell’inutilità del neoliberismo per alleggerire la povertà, il BID insiste con la ricetta e la sua imposizione a tutto campo: durante la riunione in Cile, Dora Curvea, rappresentante del BID a Quito, non ha usato giri di parole né molta diplomazia per ricordare al Governo ecuadoriano che qualora non rispettasse il programma di aggiustamento, non riceverà i finanziamenti esteri che attende, e lo ha messo con le spalle al muro.
La riforma che la funzionaria esige comprende l’innalzamento delle imposte al valore aggiunto dei prodotti, misura a cui si oppone la maggior parte dei parlamentari ecuadoriani.
In realtà il BID, creato nel 1959 per contribuire ad accelerare lo sviluppo economico e sociale dell’America Latina e dei Caraibi e per promuovere l’integrazione della regione, da allora ha fatto poco o quasi nulla in tal senso.
Il suo capitale di 101.000 milioni di dollari fa gola ed è assediato dai ricchi del continente, ma le sue ricette di "più" sviluppo creano un vero terrore tra i poveri..... e non per divertimento.

Come un giudice sordo
Torna a inizio pagina
marzo 2001
– Come un giudice completamente sordo e quasi cieco, che nessuno ha nominato né riconosce come tale, gli Stati Uniti continuano a giudicare nazioni in tutto il mondo, approvando o disapprovando, nella lotta contro il narcotraffico.
Quest’anno, con atteggiamento di giudice comprensivo che sa riconoscere quando i subordinati migliorano il loro lavoro, il Governo nordamericano ‘è stato di manica larga’ e ha ripartito approvazioni e congratulazioni tra 11 nazioni latinoamericane, alcune delle quali in altre edizioni di questa specie di ‘girone finale’ erano state diverse volte ‘dequalificate’, come nei casi di Colombia, Paraguay, Messico e Bolivia.
In tutto il continente solo la povera Haiti non ha ottenuto il visto buono dalla grande potenza, ma ha ricevuto il ‘perdono’ e non riceverà le rappresaglie e i castighi stabiliti in questi casi: blocco degli aiuti, dei crediti da parte di istituti finanziari internazionali e altro ancora.
Però anche, come accade da 15 anni, quando questo sistema è stato imposto dal Congresso, un’ondata di indignazione e di protesta ha percorso il continente latinoamericano. Perfino i ‘promossi e congratulati’ da parte di coloro che si considerano i capi mondiali della lotta contro la droga, non hanno dubitato – con distinti toni e varianti – nel sottoscrivere il loro rifiuto a tanta indignante intromissione nei loro fatti interni.
In Bolivia, per esempio, il Ministro degli Interni, Guillermo Fortun, ha ricordato agli Stati Uniti i loro obblighi nel controllo del consumo di droga, nonostante gli elogi che nella valutazione nordamericana sono stati fatti alla Bolivia riguardo lo sradicamento delle piantagioni di coca.
Parlando alla radio il Ministro ha segnalato che uno dei principali compiti per combattere il narcotraffico è quello di ridurre il consumo di droghe proibite nei paesi ricchi controllando i grandi narcotrafficanti nel loro stesso territorio e in Europa, e di questo gli Stati Uniti dovrebbero occuparsene di più, ha spiegato.
Ha aggiunto che gli aveva attirato l’attenzione un imprecisato numero di avvenimenti giudiziali nordamericani, come recenti indulti a elementi legati al riciclaggio di denaro proveniente dal commercio illecito delle droghe.
Dal Messico, un’altra delle nazioni ‘promosse ed elogiate’ questa volta dagli Stati Uniti nella lotta contro la droga, Liliana Ferrer, portavoce del Ministero degli Esteri, ha definito irritante, unilaterale, ingiusto e controproducente questo sistema di certificazione. Ha chiarito che il suo paese continua a respingerlo come negli anni precedenti e ha assicurato che il Governo non realizza qualsiasi attività per ottenere il benestare da Washington.
Da parte sua José Vicente Rangel, Ministro della Difesa del Venezuela, un altro dei paesi ‘promossi’ con la certificazione della superpotenza, commentando questo sistema ha affermato che è proprio nella nazione da cui provengono queste valutazioni, dove si "lava" la maggior parte del denaro proveniente dalla droga e questo è una parte importante della sua struttura finanziaria.
Ha respinto pure il fatto che il Governo nordamericano possa attribuirsi un diritto di questo tipo, allo stesso modo in cui lo fa per quello che riguarda la situazione dei diritti umani nel mondo.
A La Paz, in Bolivia, il dirigente contadino e parlamentare, Evo Morales, ha detto che la certificazione è sinonimo di genocidio, per attentato ai diritti dei popoli latinoamericani e la ha definita un meccanismo di ricolonizzazione e uno strumento per un maggior controllo degli Stati Uniti sui paesi andini a fini nettamente economici e politici, molto lontano dall’obbiettivo umano che proclama di perseguire..
Da subito, l’amministrazione capeggiata da Bush non ignora la forte resistenza che riceve questa valutazione extraterritoriale, e ogni giorno diventa sempre più molesto e scomodo il fatto di applicarla. Perfino i loro amici più servili nel continente arrossiscono quando devono esprimere o assumere una posizione su questo tema.
Per questo non sono casuali le voci che negli organismi legislativi statunitensi si battono per modificare questo meccanismo di ricatto e di intervento, per renderlo meno offensivo e umiliante per l’America Latina, scenario dove finora – seguendo la loro tradizionale politica di incolpare gli altri su problemi che loro stessi creano – i nordamericani hanno alzato il principale fronte della loro guerra antinarcotici.
E nel Congresso esistono in questi momenti almeno quattro iniziative di legge al fine di modificare il suddetto sistema, partendo dal fatto che questo ha raggiunto il suo apparente obiettivo di far sorgere un maggiore interesse nei Governi latinoamericani per migliorare la cooperazione in questo campo.
Rand Beers, Sottosegretario di Stato Aggiunto per i Problemi dei Narcotici, ha detto recentemente al Comitato di Relazioni Estere del Senato che, nei suoi 15 anni di esistenza, il sistema di certificazione ha dimostrato di essere uno strumento di politica effettivo nonostante, ha riconosciuto, la convenienza di studiare altre forme "meno rozze" per stimolare la cooperazione in questo campo.
"E’ un buon momento per revisionare tutta la questione, perché attualmente c’è un mondo diverso", ha affermato al riguardo il principale responsabile della lotta antidroga nel Dipartimento di Stato.
Per gli altri, la polemica sostenuta dai parlamentari nordamericani su questo tema evidenzia quello che non è un segreto per nessuno: la lotta contro la droga continua a essere per gli Stati Uniti la loro migliore scusa per cercare di controllare il continente e di difendere i loro interessi egemonici.

Uno nuovo, ma sempre uguale
Torna a inizio pagina
marzo 2001
- Il problema, metaforicamente parlando, è di origine genetica: ha infatti a che fare, come per l’organismo umano, con i cromosomi dei genitori, che, attraverso i loro geni, sono responsabili del meccanismo dell’ereditarietà. Il cosiddetto Vertice delle Americhe, fin da quando il governo Clinton lo ha ideato e lo stesso Presidente lo ha convocato per la prima volta a Miami nel 1994, soffre di un difetto congenito, di un male senza rimedio.
Ciò dipende essenzialmente da due fattori: da un lato l’ottica distorta, superficiale e l’atteggiamento arrogante con cui vengono affrontate le diverse e problematiche realtà del continente; dall’altro l’approccio retorico e vago con cui si analizzano i problemi che affliggono le nazioni latinoamericane, per cui si attribuisce maggiore importanza all’enumerazione degli effetti delle gravi difficoltà sociali ed economiche sulla loro popolazione, mentre vengono taciute o dissimulate le reali cause di tali disagi.
Tra breve, a montreal il Vertice si riunirà per la terza volta. Tutto sembra far presupporre che non si differenzierà molto dai precedenti: il nome di Cuba sarà anche questa volta cancellato con un colpo di spugna dalla carta geografica del continente; si darà la priorità a problemi nuovi, che tuttavia non differiscono in nulla da quelli di sempre; sarà presentata una lista infinita di nuovi accordi, nonostante le promesse fatte con i precedenti non siano ancora state mantenute.
In realtà, questi summit non sono mai stati la dimostrazione di un vero impegno degli Stati Uniti a contribuire al miglioramento della situazione dei loro tormentati e instabili vicini latinoamericani, non sono neanche mai stati concepiti per questo.
Il loro scopo è piuttosto quello di rafforzare l’egemonia statunitense in quest’area e nello stesso tempo quello di contrastare il crescente peso politico assunto dai vertici iberoamericani, che si sono progressivamente trasformati per le nazioni partecipanti in banchi di denuncia, confronto e solidarietà, dal momento che costituiscono un contesto di comunanza ideale, dal punto di vista geografico e storico, all’interno del quale qualsiasi diversità politica o ideologica passa in secondo piano rispetto a problemi e difficoltà che interessano tutti.
Al contrario, le assemblee convocate da Washington si sono finora limitate alla pura - e a volte parziale – enumerazione dei mali della regione. Sin dal primo vertice si parla pomposamente, per esempio, della povertà e si individuano soluzioni che consistono in interventi di tutela in campo ambientale e in programmi di sviluppo che dovrebbero garantire nuove fonti di occupazione; si concordano strategie, si presentano progetti. Giunti però alla riunione successiva, si scopre che non solo la povertà è aumentata, ma è più grave che mai, mentre il divario tra chi ha tutto e chi non ha niente si è ulteriormente acutizzato.
Lo stesso accade con i programmi di tutela dell’ambiente che, unitamente al problema delle disuguaglianze sociali, sono oggetto di ampollosi interventi da parte dei delegati. Ciononostante, di vertice in vertice la situazione in entrambi i settori si aggrava.
Si fa poco o niente per cercare di tener fede agli impegni presi nelle precedenti dichiarazioni conclusive su temi come l’alimentazione e la sua garanzia, i servizi sanitari, l’occupazione, la casa, l’acqua potabile, l’attenzione privilegiata da accordare alle fasce più deboli e discriminate della società: gli indios, i bambini, gli anziani, i disabili. In realtà, in tutto il continente essi continuano a essere privi di diritti e vergognosamente sfruttati o ignorati.
Infatti, mentre secondo statistiche compilate nel 1994, in occasione del primo vertice di Miami, il 35 % della popolazione latinoamericana risultava vivere al di sotto della soglia di povertà, all'inizio del nuovo secolo questa percentuale è già salita quasi al 50 %, così come si sono accentuati gli indici di povertà estrema.
Questi dati sono confermati da statistiche stilate da organi specializzati delle Nazioni Unite, secondo le quali risulta che nei primi mesi del 2001 sono circa 50 milioni gli adulti analfabeti in territorio latinoamericano, quasi 60 milioni le persone che non hanno accesso al sistema sanitario nazionale, più di 100 milioni gli abitanti che non usufruiscono di acqua potabile. Si rileva inoltre che sono 38 milioni gli adulti con più di 40 anni e 5 milioni i bambini fino a 5 anni che soffrono di malnutrizione.
I valori di questi indicatori di povertà risultano oggi notevolmente più elevati rispetto al passato, nonostante l'impegno dichiarato dagli Stati Uniti a contribuire alla loro riduzione.
Tra i progetti scaturiti negli ultimi vertici, quello su cui maggiormente si sono concentrate le speranze dei Paesi Latinoamericani, che da esso si aspettano un aumento dei posti di lavoro e un rafforzamento della loro economia, è stato il piano relativo alla creazione dell'Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA), che si prevede di realizzare entro il 2005.
Il suo sviluppo è stato tuttavia condizionato dall'opposizione del Congresso degli Stati Uniti che, già a partire dal 1994, ha negato all'allora presidente Clinton la prerogativa del fast track - la via rapida - impedendo in questo modo al capo dell'esecutivo di stingere accordi commerciali in prima persona. Il Congresso sembra deciso a dare del filo da torcere anche al nuovo presidente Bush, il quale, da parte sua, ha già espresso l'intenzione di avvalersi quanto prima di tale potere, che gli consentirebbe di sottoscrivere accordi commerciali con gli Stati latinoamericani senza doverli sottoporre alla verifica del potere legislativo.
Tuttavia, secondo USA Today - il quotidiano più letto negli Stati Uniti, che ha affrontato di recente il tema del Trattato di Libero Commercio stipulato con il Messico (NAFTA) - accordi commerciali di questo tipo influiscono negativamente sulle condizioni di vita della popolazione. Infatti "sia dal punto di vista economico che da quello sociale, si è ampliato il divario tra i più ricchi e i più poveri, in conseguenza del fatto che i profitti sono confluiti nelle tasche di pochi privilegiati".
Cuba, come al solito, aleggerà come un elemento perturbante sull'intero vertice: la qualità del suo sistema educativo, sanitario e di sicurezza sociale - riconosciuta in tutto il mondo - costituisce un chiaro esempio di come sia possibile dare una soluzione ai problemi del continente.
La sistematica esclusione di Cuba da queste riunioni dimostra la superficialità e la retorica che contraddistinguono la loro impostazione, dovuta all'atteggiamento di assurda superiorità nei confronti del sud manifestato da coloro che considerano tali vertici solo come una maniera di difendere i propri interessi.

Priorità assoluta alla realizzazione di un’economia comune
Torna a inizio pagina
marzo 2001
- Di fronte alla crescente minaccia rappresentata da un mondo dominato dal neoliberismo e dalla globalizzazione, i cui rappresentanti – i Paesi ricchi – pretendono di determinare i destini del resto dell’umanità, la Comunità degli Stati Caraibici (CARICOM) attribuisce priorità assoluta al suo progetto di "Economia e Mercati Unici", al centro delle discussioni durante il recente 12° Vertice dei Capi di Stato e di Governo della regione.
In occasione di questo summit - che ha avuto luogo a Barbados, dal 14 al 16 febbraio scorso – l’assemblea ha riconosciuto l’importanza di procedere uniti verso la costruzione di un’economia comune, obiettivo la cui realizzazione è prevista per il 2003 e che si considera addirittura prioritaria rispetto all’entrata in vigore dell’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA), supportato dagli Stati Uniti.
Secondo gli esperti, il progetto "Economia e Mercati Unici" rappresenta l’alternativa maggiormente praticabile per permettere alle deboli economie caraibiche di sostenere la concorrenza commerciale di nazioni molto più forti.
Decisiva in questo senso è stata la firma del trattato in base al quale la Corte di Giustizia dei Caraibi diventa l’istituzione fondante per la creazione della base giuridica necessaria alla progettata unione economica.
Tale corpo legislativo, che sostituirà il Consiglio Privato di Londra e servirà sia come meccanismo ultimo di ricorso per regolare cause civili e penali, sia per dirimere contrasti commerciali all’interno del processo di integrazione regionale, è stato definito negli interventi degli oratori il risultato di un gesto storico, una decisiva affermazione di indipendenza e sovranità da parte dei Paesi membri della CARICOM.
Un documento reso noto dalla stessa CARICOM, e ripreso da Prensa Latina, conferma che dal vertice sono scaturite diverse misure previste già per il 2001, tra cui la necessità di approvare leggi a livello nazionale che permettano il libero movimento di laureati, musicisti e giornalisti e altre che favoriscano il comune riconoscimento dei benefici della previdenza sociale.
Nei prossimi mesi si provvederà inoltre all’abolizione delle restrizioni alla libera circolazione di capitali e servizi tra i Paesi membri della Comunità; alla messa a punto di sistemi di valutazione per permettere il riconoscimento e l’equiparabilità di qualifiche professionali e gradi di formazione; alla creazione, infine, di un ente regionale preposto alla certificazione della qualità e al controllo delle normative, nel campo della produzione industriale..
Altrettanto significativi sono i punti che riguardano l’impegno a eliminare gli ostacoli alla libera circolazione dei cittadini, attraverso la semplificazione e l’alleggerimento delle pratiche burocratiche (documenti, formulari ecc.)
Uno dei temi maggiormente dibattuti all’interno del forum è stata la decisione di attribuire ad Haiti lo status di membro permanente della Comunità, dopo che dal 1997 ha sempre preso parte ai summit in qualità di membro provvisorio.
Per quanto riguarda infine la prevista conclusione di un accordo commerciale con Cuba, che stabilisce condizioni preferenziali per prodotti come succhi di frutta naturali e cemento, la sua approvazione definitiva è stata rimandata alla prossima riunione del vertice annuale, che avrà luogo in luglio alle Bahamas.
Al vertice delle Barbados ha partecipato una delegazione cubana capeggiata dal ministro Ricardo Cabrisas, che ha incontrato il Ministro del Turismo di Barbados, Noel Lynch, per una valutazione delle ampie opportunità di collaborazione tra i due Paesi proprio nel campo dello sviluppo turistico. I rappresentanti dei due Governi sono stati inoltre concordi nell’individuare nella prossima Convenzione del Turismo, che si terrà a Cuba, l’occasione più propizia per lanciare l’immagine dei Caraibi come meta privilegiata della cosiddetta "industria senza ciminiere".
Cabrisas ha incontrato anche il Ministro del Commercio e degli Scambi Internazionali, Reginald Farley, che ha sottolineato l’importanza delle relazioni diplomatiche e commerciali tra i due Paesi, ricordando la visita ufficiale del Presidente Fidel Castro nell’agosto del 1998, per la cerimonia di inaugurazione del Monumento ai Martiri di Barbados, in memoria delle vittime dell’attentato del 1976, quando un aereo della Cubana de Aviación esplose in volo con 73 persone a bordo.

Il secolo perduto dell’America Latina
Torna a inizio pagina
gennaio 2001 - Alle soglie del nuovo millennio, trascorsi gli anni ‘80 e ‘90, in America Latina i presunti miglioramenti sociali ed economici stentano a realizzarsi. A che cosa sono serviti dunque i miracolosi provvedimenti "caldeggiati" dal FMI e dalla Banca Mondiale? In effetti, dagli anni ‘80 fino a ora, da quando cioè si è dato avvio alle politiche di aggiustamento economico, in ottemperanza alle condizioni poste dai paesi industrializzati per concedere i loro prestiti, nell’intera regione regnano contraddizioni e incertezze.
D’altra parte, la pianificazione, da parte degli organismi finanziari internazionali, di strategie economiche da introdurre nei paesi sottosviluppati – senza tra l’altro tenere conto delle particolarità che contraddistinguono ciascuno di essi – così come la privatizzazione indiscriminata o i provvedimenti diretti alla riduzione della spesa sociale, si sono dimostrati un fallimento. Il debito estero, aggravato dai costi derivanti dal pagamento degli interessi, ha rappresentato dagli anni ’80 una vera catastrofe per l’economia dell’area latinoamericana e costituisce attualmente un ulteriore fattore di pressione da parte dei paesi ricchi.
Tra il 1982 e il 1990, questo "debito eterno", come lo ha definito l'argentino Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la Pace, è costato da solo al continente americano qualcosa come 388.000 milioni di dollari di interessi, più altrettanti di spese di ammortamento, per un totale di 773.000 milioni di dollari.
Più che un circolo vizioso assomiglia a un girone infernale, dato che, a conclusione di tutti questi calcoli, gli aiuti che l’America Latina ha ricevuto dagli accondiscendenti paesi industrializzati ammontano circa alla stessa cifra che ha dovuto pagar loro di interessi.
Il pacchetto di misure neoliberiste è fallito. Dopo aver aperto i mercati interni ai prodotti delle multinazionali e aver permesso che i capitali stranieri entrassero e uscissero liberamente dal paese, tramite la vendita delle imprese statali ai grandi consorzi esteri – facilitando, in questa maniera, il dilagare della speculazione - la nuova tendenza liberista impone l’adozione del dollaro come moneta unica per il mercato interno - la cosiddetta "dollarizzazione" (N.d.T.). Tutto ciò con conseguenze insostenibili per la già debole struttura sociale delle nazioni latinoamericane.
Lo stato di Panama ha attuato la conversione al dollaro già vari decenni fa, come conseguenza di una sua particolare situazione storica, condizionata in maniera determinante dall’influenza del capitale nordamericano sulla propria economia. In Uruguay invece la moneta statunitense viene utilizzata per il mercato delle auto e per quello degli immobili, mentre la moneta nazionale continua a essere usata in tutti gli altri settori commerciali e nella vita di tutti i giorni. Tuttavia nessuno di questi due casi rientra nell’operazione di "aggiustamento" economico in atto in America Latina.
Sembra per esempio che il sucre – la valuta ecuadoriana – sia stata la prima vittima finanziaria della globalizzazione. L’ex presidente, Jamil Mahuad, dovendo far fronte a un paese in piena crisi inflazionistica, decise di avviare il processo di dollarizzazione. Ciononostante, nel momento in cui, nel gennaio 2000, si decretò l’entrata in vigore del provvedimento, il sucre era già morto. La banconota da 1 sucre era scomparsa da tempo dal mercato, perché ormai di nessun valore – tanto che diverse generazioni di ecuadoriani non ne hanno mai visto una, essendo abituati a utilizzare le monete da 100 e le banconote da 1.000 fino a 50.000. Che cosa è accaduto in Ecuador? La dollarizzazione fu introdotta nel pieno di una crisi finanziaria spaventosa: la Banca Centrale stava emettendo carta moneta senza copertura e invece di portare a compimento una politica di risanamento, incominciò a fare prestiti. Nel gennaio 2000 la crisi in cui si trovavano le finanze del paese era diventata insostenibile: il tasso di cambio raggiunse valori altissimi – in pochi mesi si arrivò a cambiare 25.000 sucre per 1 dollaro, con conseguenze devastanti per l’economia. L’inflazione, che nel 1999 aveva raggiunto il 66 %, avrebbe raggiunto nel 2000, secondo le proiezioni, il 96.6 %.
Dal punto di vista dei lavoratori e di altri settori della popolazione, non ha tanta importanza il tipo di valuta che si è deciso di adottare, quanto le conseguenze di una scelta che, privilegiando proprio il dollaro, ha sancito la sconfitta della sovranità nazionale di fronte all’avanzare della dominazione economica nordamericana, che del dollaro si serve come di una scudo e di una lancia allo stesso tempo.
Intanto le misure neoliberiste continuano a porre vincoli ai servizi sociali, creando problemi che una moneta straniera non ha certo interesse a risolvere.
In Argentina la moneta statunitense si utilizza dal 1991, attraverso un sistema chiamato "Cassa di Conversione", in base al quale la quantità di pesos circolante nel territorio nazionale deve essere pari a quella dei dollari in possesso della Banca Centrale. In base a questo sistema, il valore della moneta nazionale viene condizionato pesantemente dall’andamento discontinuo degli investimenti stranieri e dell’economia internazionale.
Gli esperti hanno giustamente fatto notare che l’adozione del dollaro nel mercato interno determina la subordinazione della politica economica nazionale alle direttive della Riserva Federale degli Stati Uniti, dato che la Banca Centrale locale perde non solo la sua funzione di controllo della politica monetaria, nonché dell’inflazione, ma anche quella di garante della stabilità della moneta stessa.
Pérez Esquivel ha denunciato recentemente gli effetti negativi di tale scelta in Argentina: il patrimonio pubblico è stato venduto, è aumentato l’analfabetismo, tanto che il 54 % della popolazione infantile non arriva a terminare la scuola primaria. Inoltre, ogni giorno, oltre 50 bambini muoiono di fame. Secondo l’economista Jorge Bernstein l’adozione di politiche neoliberiste ha avuto come conseguenza un aumento vertiginoso del debito estero, che in meno di vent’anni si è triplicato, passando da 60.000 milioni a 180.000 milioni.
Il tasso di disoccupazione, infine, si è attestato nell’ottobre 2000 al 14.7 %, mentre la sottoccupazione era al 14.6 %: ciò significa che 3.9 milioni di persone si trovano a dover fare i conti con una crisi per la quale finora non si prospettano soluzioni.
Dall'analisi di situazioni come questa sembra che la globalizzazione neoliberista serva unicamente ad arricchire le multinazionali, i cui ricavi sono tali da superare addirittura il PIL di un paese come El Salvador, uno dei più poveri del mondo.
Ramón Muñoz, esperto della Banca Centrale di Cuba, ha spiegato a Granma Internacional che la prima e principale conseguenza del processo di liberalizzazione è la perdita del controllo della politica monetaria nazionale. "In Argentina hanno persino festeggiato quando gli Stati Uniti hanno ridotto i tassi di interesse, senza rendersi conto che ciò è avvenuto perché gli faceva comodo, non certo per fare un favore alle economie latinoamericane".
Uno degli svantaggi della dollarizzazione è rappresentato dalla perdita di competitività delle esportazioni, dovuta all'aumento del prezzo delle merci, mentre un ulteriore svantaggio deriva dalla scomparsa del sistema di prestiti di "ultima istanza": le banche nazionali non sono infatti più autorizzate a concedere prestiti, lo fanno al loro posto le filiali delle banche straniere sul territorio.
Anche i paesi del Centroamerica sembrano orientati a percorrere lo stesso cammino verso l'adozione del dollaro, tanto che stanno programmando la sua prossima introduzione, incoraggiati soprattutto da El Salvador. Tuttavia questo paese - secondo quanto afferma l'agenzia di stampa Notimex - a nove anni dalla conclusione degli accordi di pace, avvenuta sotto la supervisione delle Nazioni Unite, sta attraversando un periodo di tensioni politiche e sociali proprio in opposizione alla legge - entrata in vigore il 1° gennaio scorso - che ha sancito l'avvio della dollarizzazione. Il Fronte Farabundo Martí, rappresentato all'interno del Congresso da 31 degli 84 deputati, è il principale oppositore della cosiddetta Legge di Integrazione Monetaria (LIM), approvata il 30 novembre 2000, che ha permesso la libera circolazione della moneta statunitense nel territorio nazionale.
L'opposizione nei confronti di questa misura economica - che ha condotto alla sostituzione della moneta nazionale, il colón, con il dollaro - ha dato origine a una mobilitazione della cittadinanza che, sostenuta dal Fronte, ha manifestato per difendere quella che la gente chiama "la nostra sovranità".
La dollarizzazione non farebbe infatti che peggiorare una situazione economica che, dopo aver attraversato decenni di crisi, è stata pesantemente condizionata da disastri storici e ambientali.
A pagare il prezzo più alto della povertà in America Latina sono i bambini: le stime parlano di 224 milioni di persone che vivono in povertà, dei quali 95 milioni sono bambini. Alle richieste dell'UNICEF, di vincolare gli interventi di aggiustamento economico a quelli nel sociale, le disastrate economie latinoamericane hanno risposto con tagli al bilancio preventivo relativo proprio a questo settore.
Secondo l'opinione di una rivista europea, che ha condotto un'analisi del fenomeno, questa generazione potrebbe essere definita come la prima generazione perduta del XXI secolo, oppure l'ultima del XX. Speriamo che i posteri non debbano giungere a conclusioni simili quando il secolo appena iniziato sarà concluso.
Nel mondo, sono molti coloro che si interrogano sui motivi dell'utilizzo del dollaro nel mercato interno cubano. E' necessario precisare innanzi tutto che a Cuba questa operazione si distingue nei procedimenti, nei risultati e negli obiettivi dal resto dell'America Latina. Per Cuba, spiega Ramón Muñoz, ha rappresentato una misura circostanziale, una necessità obiettiva, determinata dalle condizioni in cui si trovava l'economia all'inizio degli anni ‘90, quando si trovò privata in pochissimo tempo dell'80 % dei suoi mercati. "Che cosa sarebbe successo all'Ecuador, se si trovasse improvvisamente a dover affrontare questa eventualità? Sarebbe scomparso come nazione" - precisa Muñoz.
Il processo a Cuba è incominciato con la liberalizzazione della divisa statunitense. A poco a poco si sono ampliate nel mercato interno le offerte in moneta nazionale e in dollari; sono stati incoraggiati gli investimenti stranieri diretti, ma in maniera selettiva, mediante la creazione di imprese miste con la partecipazione di capitale cubano in settori dove era possibile sviluppare nuovi mercati; si sono attuati infine provvedimenti finalizzati al risanamento delle finanze e alla riduzione del deficit fiscale.
Questo provvedimento tuttavia non è stato imposto da organismi finanziari internazionali, né ha avuto conseguenze traumatiche sulla popolazione. I prezzi dei generi alimentari, del gas, del telefono e dell’elettricità si sono mantenuti bassi, mentre i servizi pubblici relativi a sanità ed educazione hanno continuato a rimanere gratuiti, tantomeno si sono gettati dei lavoratori in mezzo a una strada. Un altro particolare di notevole importanza è rappresentato dal fatto che a Cuba quasi il 90 % della popolazione è proprietario dell’abitazione in cui vive. Tutti questi aspetti dimostrano la differenza fondamentale esistente tra le strutture economiche a Cuba e nel resto del continente americano. Negli altri paesi è infatti molto difficile trovare cittadini che spendono 1 dollaro di elettricità o 50 centesimi di tariffa telefonica, tali infatti sono le cifre che si ottengono se si calcola il corrispondente in dollari del costo in moneta nazionale, secondo il cambio che vige attualmente nel mercato cubano, di 20 pesos per 1 dollaro.
In meno di sette mesi, dopo l’introduzione dei primi provvedimenti, risalenti al 1993, il peso cubano si è rivalutato di ben sette volte.
I cubani continuano comunque a pagare i servizi e gli alimenti di base – sovvenzionati dallo stato – in moneta nazionale, dato che anche i salari vengono corrisposti in pesos. Nei settori dove vige la legge della domanda e dell’offerta, invece, i prezzi si fissano sulla base del cambio interno. Ciò spiega come mai diversi prodotti mantengono prezzi troppo alti, soprattutto nel mercato dei prodotti agricoli, dove una libbra di carne di maiale o di montone arriva a costare 25 pesos.
Se si considera inoltre che attualmente il salario medio di un lavoratore si aggira intorno ai 198 pesos mensili, anche i prezzi degli alimenti che si vendono nei negozi che commerciano in valuta risultano elevati – un litro di latte costa infatti più di un dollaro.
Lo stato, da parte sua, garantisce una fornitura base ai nuclei familiari, assicurando una certa quantità di prodotti per la pulizia e soprattutto alimentari irrinunciabili – cereali, zucchero, uova, sale, banane e in alternanza differenti tipi di carne – a un prezzo molto basso, da pagarsi in moneta nazionale. Il latte è garantito a tutti i bambini fino al settimo anno di età e agli adulti che ne abbiano necessità per motivi di salute.
"Il Governo cubano non intende favorire la dollarizzazione, al contrario, il suo obiettivo è quello di creare le condizioni adeguate affinché la moneta nazionale sia in grado di sostituirsi definitivamente al dollaro nel mercato interno" – afferma Muñoz – e il continuo recupero dell’economia cubana sembra dargli ragione.