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Nuestra America

L’assalto al palazzo presidenziale del 13 marzo 1957
da Granma Internacional 1997
Faure Chomón Mediavilla rivive i fatti nella sua testimonianza.


Quel giorno camminavo contento per le vie di La Habana. Guardavo la gente e mi dicevo: "Non immaginano che qui sta camminando un gruppo che tra qualche minuto inizierà un combattimento che scuoterà la nazione; non possono neanche immaginarlo...".
Eravamo felici dell’avventura.
Alla gioventù piace l’avventura e questa avventura può essere buona se è patriottica, rivoluzionaria, scientifica. Fino a oggi abbiamo combattuto nelle circostanze peggiori - meditai quel 13 marzo - tutti perseguitati; molti assassinati.
Adesso siamo un esercito in mezzo alla città; un ‘commando’ ben equipaggiato.
Qualcuno mi ha domandato poco fa se quel giorno non pensassi alla morte, e mi sono detto: "Se gli rispondo di no, sembrerò un irresponsabile". Ma la risposta è no, perché in quel momento - e questo te lo possono dire tutti quelli che hanno vissuto un combattimento - non c’è tempo per pensare alla morte, per aver paura - anche se la paura è naturale in un essere umano... - però quando giunge l’ora non si ha tempo di averla. Nemmeno quando sono stato ferito.
Ci avvicinavamo metro per metro al Palazzo Presidenziale. Un’auto viaggiava all’avanguardia, il camion al centro e un’altra auto in retroguardia. Il Palazzo si avvicinava. A quell’ora il traffico così intenso ci fece quasi perdere di vista. Chiesi al guidatore, Abelardo Rodríguez di non staccarsi nemmeno un metro dal camion in cui si trovava la maggior parte del ‘commando’. Era così bravo alla guida che potemmo arrivare esattamente all’ora prevista proprio fino alla porta del Palazzo, dopo aver attraversato un passaggio in cui sembrava che non ci sarebbe passata una bicicletta.
Non era stata nostra l’idea di attaccare il Palazzo Presidenziale. Quest’idea faceva parte dell’arsenale tattico della Rivoluzione ed era una magnifica eredità di Mella e Martínez Villena, un’idea che aveva ossessionato più di una generazione.
Durante la seconda tirannia di Batista, i vecchi rivoluzionari che avevano cominciato a cospirare contro il dittatore, avevano fatto loro questo progetto, ma non lo avevano attuato, sebbene disponessero di molti armamenti e risorse. Ma tutto era finito in un grande fallimento; era una farsa di Prío, un’avventura senza coraggio, che non prevedeva nessun sacrificio.
Noi lo abbiamo fatto davvero, con José Antonio come capo e questa è stata la cosa originale. Eravamo convinti che il Palazzo era il simbolo del potere contro il popolo; era il covo dove si rifugiavano i rappresentanti politici di quella società ingiusta, un simbolo che doveva essere distrutto per il bene della Rivoluzione. E attaccare il Palazzo era un impegno della gioventù cubana con la sua nazione, come lo era stata l’azione di Fidel e dell’avanguardia della nostra generazione del centenario.
In poche parole, quelli che abbiamo partecipato all’assalto eravamo giovani, ma proprio giovani giovani.
Agivamo, amavamo, giocavamo, lavoravamo, ridevamo. Eravamo come José Antonio: ottimisti, pieni di speranze, audaci, convinti che si doveva aprire una strada nuova per il nostro paese; da cui dipendeva la vittoria del nostro esercito liberatore; da cui dipendeva la frustrazione della generazione degli anni ‘30; convinti che un giorno avremmo avuto l’opportunità di portare a buon termine quell’era dei mambises cubani e delle generazioni precedenti.
Stavamo approfittando dell’opportunità che Batista ci aveva dato, di affrontarlo per il suo colpo di stato del 10 marzo 1952.
Al Direttorio Rivoluzionario si erano aggregati compagni molto rivoluzionari di altre organizzazioni, o indipendenti. Giovani coraggiosi come Evelio Prieto Guillaume e Eduardo García Lavandero, che erano depositari delle armi di Carlos Prío. Entrambi ammiravano molto José Antonio; per questo avevano accettato quando egli aveva chiesto loro che consegnassero l’arsenale spiegando che dare le armi ai giovani del Direttorio equivaleva darle alla Rivoluzione.
Con i detenuti del Direttorio che stavano nella prigione del Principe, avevamo scelto Daniel Martín Labrandero che volevamo come consigliere militare per l’assalto, per le sue conoscenze - era stato comandante della Guerra Civile spagnola. Volevamo liberarlo dalla prigione, ma morì nella fuga. Questo ci aveva avvicinato molto l’attendente di Daniel, Carlo Gutiérrez Menoyo.
Carlos era espero in azioni di ‘commando’. Al momento dell’arrivo al Palazzo, scese per primo. Indossava un giubbotto per nascondere la sua mitragliatrice M-3, quattro cartuccere e sei granate. Camminò fino alla porta come se fosse uno dei funzionari del regime. E quando fu sotto l’arcata incominciò a sparare con una maestria incredibile a una dozzina di guardie.
Un soldato di posta che stava ad uno degli angoli esterni del Palazzo, pensando forse che Carlos fosse un pazzo o un suicida solitario, si avvicinò sparandogli alle spalle, ma quando sentì le nostre pallottole, fece dietro-front e uscì correndo finché il fuoco non lo raggiunse. Ogni combattente è un’immagine impressionante, come quella di Machadito che, con impeto saliva da solo la scala dal secondo al terzo piano, coprendo la ritirata del ‘commando’ che aveva esaurito le munizioni.
Contavamo su un piano militarmente buono e un armamento sufficiente.
Avevamo la motivazione e la forza morale.
Però non trionfammo perché ci mancò il rinforzo che avrebbe dovuto prendere gli edifici limitrofi al Palazzo per neutralizzare la guarnigione dell’ultimo piano e della terrazza e darci la copertura necessaria per sostenere e rifornire il ‘commando’ con uomini e munizioni.
Questo rinforzo non arrivò mai per l’inettitudine e la codardia dei suoi capi, in particolare di Ignacio González, che non reagì, non diede gli ordini che avrebbe dovuto dare. Carlos si era fidato che Ignacio non avrebbe sbagliato poiché erano amici dalla guerra di Spagna.
Tuttavia, l’operazione fu perfetta. Vennero occupati il pianterreno e il secondo piano, dove c’era lo studio di Batista, che fuggì prima dell’arrivo del ‘commando’, lasciando sul suo tavolo di tiranno alcune tazze di caffè ancora fumanti.
Già con molti feriti, esaurite le munizioni e senza l’arrivo dei rinforzi, l’operazione franò. Ma non bisogna dimenticarsi che è una legge della Rivoluzione l’accumulo di forza. Ogni vita che si dà, ogni combattimento che si affronta, anche se si perde, si accumula a favore della causa della Rivoluzione. Ciò che non si accumula è quello che non si fa. L’attacco al Palazzo fu l’eroismo di due generazioni abbracciate in una medesima azione, della nostra generazione e di quella del ‘30, come si sono uniti in combattimento gli uomini del ‘68 e del ‘95 per l’indipendenza di Cuba. Con l’assalto al Palazzo abbiamo mantenuto, secondo noi, l’impegno di José Antonio con Fidel.
Indubbiamente è stata un’esperienza per i rivoluzionari. Ed anche per i potenti.
L’attacco al Palazzo è un anello della catena di lotta che comincia con il Moncada e prosegue con la guerra necessaria che ha inizio con lo sbarco del Granma e con lo stabilirsi della guerriglia sulla Sierra Maestra.
Nell’operazione il tiranno si spaventò a tal punto che mi raccontarono che Batista voleva andarsene e abbandonare il potere. Il giornalista Torres Momplé mi disse che in quella notte del 13 marzo lo vide più canuto, ciò che di solito accade quando si prova panico.
Fu terribile per me arrivare all’Università. Domandai di José Antonio e mi dissero che lo avevano ucciso. E’ la prima morte di cui ebbi notizia con certezza in quegli istanti. Io non avevo mai pensato alla possibilità della morte di José Antonio. Era quello che amavamo di più, il nostro capo. Provai molto dolore.
José Antonio aveva cominciato con l’assalto a Radio Reloj, poiché era la persona più indicata per parlare al popolo di quello che stava succedendo. Prima di partire per la sua missione mi aveva detto: "Non ti lascerò solo, Faure. Quando avrò finito a Radio Reloj e lasciato la gente all’Università, andrò con parte del gruppo a farmi carico direttamente dell’operazione del Palazzo".
Mentre combattevamo nel Palazzo, molti rivoluzionari, più di quelli convocati, si andavano avvicinando, posizionandosi nei caffè e negli edifici vicini. Erano persone che ammiravano e amavano molto José Antonio e stavano cercando il modo di partecipare. Quel 13 marzo sarebbe stato diverso se José Antonio fosse arrivato al Palazzo Presidenziale.
Dal 13 marzo al 20 aprile 1957, sono adesso 40 anni, mentre il Direttorio si riaggregava per ritornare all’attacco, sono caduti anche Fructuoso Rodríguez, Juan Pedro Carbó, José Machado e Joe Westbrook in Via Humboldt 7. In poco più di un mese sono stati crivellati di pallottole i due principali capi dell’organizzazione.
Ma la lotta non si è fermata. Anziché indebolirsi si è rafforzata. Migliaia di volontà si sono sommate; come è stato affermato nel manifesto del Direttorio sul 13 marzo, per ogni eroe caduto sorgevano centinaia di combattenti.