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La Rivoluzione è sempre giovane

Kenia Serrano ci racconta il mondo, le idee, le paure e le aspettative, i sogni e le contraddizioni della nuova generazione cubana

di Vittorio Locatelli


Sicura di sé, convinta e determinata, ma aperta al confronto e al dialogo. E’ questa la nuova generazione dei cubani, giovani che conoscono la storia del loro Paese e lavorano per il futuro. Giovani che ben rappresenta Kenia Serrano Puig, responsabile ideologica dell’Unione Giovani Comunisti, che abbiamo incontrato a Milano dove si trovava nei giorni scorsi per una serie di conferenze e di incontri politici.
Di Cuba tutti sanno tanto, ma pochissimi sanno davvero. Cosa vuol dire essere giovani oggi a Cuba? Che speranze si hanno, che certezze, quali dubbi?
"A mio parere la gioventù cubana ha un privilegio. Essere nata in un paese dove la cosa essenziale, la più importante è l’essere umano. Dove al centro della vita ci sono i bambini, le bambine, lo sviluppo della persona e la sua formazione. Credo che questo sia all’origine delle speranze, delle certezze e anche dei dubbi. La gioventù cubana non è una "bestia rara", è come tutte le altre gioventù. E’ ribelle, chiede i cambiamenti, come in tutto il mondo. La nostra speranza principale è che Cuba possa continuare ad andare avanti, possa raggiungere quello che si è proposta da più di un secolo: continuare ad essere un Paese indipendente a 90 miglia dagli Stati Uniti. Noi abbiamo la certezza che Cuba può continuare ad esistere se noi giovani non dimentichiamo la storia della Rivoluzione, in ogni momento. Se parliamo dei dubbi che può avere la gioventù cubana direi che se non si uniscono gli sforzi a livello internazionale il mondo può scomparire, la vita può sparire dal pianeta. E tutto quello che è stato fatto per il bene del mondo si perderà. Per colpa di una piccola minoranza che concentra la maggior quantità di ricchezze e tiene le redini dei destini dell’umanità".
Come si pongono i giovani cubani rispetto al movimento no global, a Porto Alegre. Si sentono in sintonia, si sentono parte di questi movimenti?
"Noi ci sentiamo parte di questo movimento perché è un movimento internazionale che, rispettando le diversità dei singoli paesi, ha incontrato un consenso nella lotta contro il tipo di globalizzazione che si sta attuando oggi, che è la globalizzazione neoliberista. Pensiamo che tra i no global ci siano diversità. In particolare pensiamo che dobbiamo opporci alla globalizzazione neo-liberista. Ma siamo cittadini del mondo, dobbiamo accettare che la globalizzazione è ineluttabile, ma allora siamo a favore della globalizzazione della solidarietà, della globalizzazione del rispetto delle diversità, della globalizzazione della lotta contro quello che danneggia l’essere umano, siamo contro la globalizzazione neo-liberista che è contro il rispetto delle culture, che vuole che l’economia sia governata dal Fondo Monetario Internazionale, che vuole la privatizzazione dell’educazione, che vuole che il cittadino sia un fruitore del prodotto educazione. Ma opporsi alla globalizzazione senza distinguere è come opporsi alla forza di gravità. Ma dopo l’11 settembre il processo di globalizzazione ha assunto un altro aspetto. C’è un’alleanza militare mondiale delle potenze per attaccare tutti coloro che si oppongono allo status quo. E’ questo ciò che allarma noi giovani".
Questa alleanza del dopo 11 settembre, nata succube degli Usa forse è già in crisi. Sull’attacco all’Iraq anche in Europa c’è chi non vuole la guerra all’Iraq, governi e popoli: Anche negli Usa c’è chi è contro la guerra.
"Vedo questo come un aspetto dell’impunità che tutto il mondo ha visto per l’attacco all’Afghanistan. Tutti hanno viso che è stato fatto alle spalle delle Nazioni Unite e di tutte le istituzioni internazionali. Senza risolvere il problema. Era una "guerra per giustiziare Bin Laden per le sue responsabilità per l’11 settembre". Ma è importante ricordare che prima dell’11 settembre George Bush era arrivato al livello più basso di popolarità nel suo paese. Subito dopo l’inizio della guerra la sua popolarità è salita. La guerra all’Iraq "deve" essere fatta dopo i gravissimi scandali economici scoppiati negli Usa e con una grande recessione economica in corso. Le potenze (e) che non appoggiano tatticamente gli Usa stanno salvando un poco la loro immagine di fronte alla comunità internazionale, però essenzialmente sono disposte ad unirsi a Bush, a discutere la loro partecipazione alla guerra".
Parliamo della vittoria di Lula in Brasile. Cuba ha sulla testa il martello degli Stati Uniti: guarda all’America Latina con speranza? Con che occhi?
"Nel caso del Brasile è legittimo che accada che un movimento nazionale, che per molti anni trova un’unità all’interno delle forze progressiste che si oppongono al neoliberismo, vinca le elezioni democratiche. E Cuba vedrà sempre con molta felicità il fatto che ciascun paese decida il proprio destino senza che arrivi nessuno da Washington a condizionarlo".
Cosa si aspettano i cubani, i giovani cubani in particolare, dalle aperture di molti paesi occidentali agli scambi economici e culturali con il loro Paese? A parte i vantaggi economici non vedi il pericolo che nasca nei cubani la voglia di vivere come gli "occidentali", con i beni del consumismo e tutto quello che ne consegue?
"Il maggior interscambio di Cuba va preso con i vantaggi e gli svantaggi che implica. Ma a differenza del mondo capitalista a Cuba non c’è l’aspetto consumistico del mondo occidentale. Per sua natura l’essere umano ha "bisogno" di cose materiali che soddisfino i propri desideri, le proprie necessità; e ha sempre l’istinto di desiderare quello che non ha. La differenza che vedo tra i cubani e il resto del mondo è che noi, nel sistema socialista cubano, abbiamo imparato a valutare. Per noi è molto importante che la persona abbia una vera cultura e in questa cultura ognuno sappia definire quello che è fondamentale. Non dimenticherò mai una pubblicità che ho visto quando sono stata negli Stai Uniti: "be someone, buy something" ("per essere qualcuno compra qualcosa"). Per me in questo slogan pubblicitario si riassume lo spirito del capitalismo: se non compri non sei nessuno. A Cuba invece la gente compra le cose, ha piacere di avere comodità nella vita, nelle proprie case: ma l’essenza della vita non sono i beni di consumo, perché la Rivoluzione cubana ci ha fatto capire che senza il valore umano della persona non si progredisce. C’è un pericolo per tutti i Paaesi come il nostro: il fatto che tutto intorno sia "differente". Ma l’attuale generazione di cubani ha possibilità migliori per difendere il modo di pensare che ho io. Quando trionfò la Rivoluzione, a Cuba c’era un tasso di analfabetismo del 30 per cento. Attualmente praticamente l’analfabetismo non esiste più. Perché per noi la cultura è libertà. E la nostra cultura, la cultura del rispetto di tutte le culture, ha fatto sì, per esempio, che nelle nostre manifestazioni non si è mai bruciata una bandiera americana. Che durante le grandi mobilitazione per il bambino Elian neanche un sasso sia volato contro l’Ambasciata americana. Noi viviamo senza il paraocchi, degli Stati Uniti conosciamo tutto, la Coca Cola non è per noi un oggetto misterioso (l’abbiamo, solo che è prodotta in Messico) così come tutte le cose che appartengono alla cultura occidentale. Ma oggi la Rivoluzione è cambiata, ha nuovi obiettivi, nuovi traguardi. Per esempio è nato un nuovo canale televisivo, un canale educativo che porterà l’Università in casa di tutti, e il primo corso è un corso di inglese".
Un’ultima domanda. Prima o poi, un giorno, si dovrà affrontare il "dopo-Fidel". Non c’è la paura che la Rivoluzione finisca con lui?
"Lo scorso 8 ottobre sono stati 35 anni dalla morte del Che. Lui non è mai stato il nostro presidente eppure "vive" ancora oggi nei nostri cuori e nel nostro modo di essere. Con Fidel succederà lo stesso, con la differenza che "l’inefficienza" della Cia gli ha permesso di avere molto più tempo per realizzare i suoi obiettivi. Oggi molta gente è cresciuta, si è formato un nuovo gruppo dirigente a Cuba; il 10 per cento dei parlamentari ha meno di 30 anni, il 21 per cento sono donne. Fidel non ha lavorato per se stesso, ha lavorato perché tutti "partecipassero" alla Rivoluzione ed è successo. Gli uomini muoiono, le idee no. Sono convinta che il grande dolore per la sua assenza sarà il dolore per la sua fine, non certo la fine della Rivoluzione".