RAFFAELE VIVIANI
La vita

Raffaele Viviani nacque da Raffaele e da Teresa Sansone a Castellammare di Stabia il 9 gennaio 1888. Suo padre era vestiarista teatrale, e gestiva in paese un locale estivo: l'Arena Margherita. Il debutto di Papiluccio avvenne a quattro anni e mezzo, a Napoli, dove Raffaele si trasferì con la Famiglia (aveva altri due fratelli maggiori: Vincenzo e Luisella); ed avvenne in circostanze straordinarie. Raffaele padre dava infitto i costumi al suo amico e socio Aniello Scarpati, impresario del Nuovo San Carlino al Largo delle Pigne: un localuccio dove alle rappresentazioni dell'opera dei pupi si alternavano numeri di varietà. Una sera venne a mancare al programma un certo Trengi, tenore e comico, e Papiluccio lo sostituì, indossando il tracchettino d'un pupo, aggiustatogli addosso da sua madre. L'anno dopo (1893) Raffaele padre costruì un suo teatro, il Masaniello, nei pressi di Porta Capuana; e Papiluccio debuttò in prosa in un dramma intitolato appunto Masaniello, dovuto ad un Quartetto. Nel 1895 egli cominciò ad eseguire canzoncine da solo e duetti con sua sorella Luisella, in un secondo teatro Masaniello, anche questo di gestione paterna, che era sito in Via Marina. Tre anni dopo il vecchio Raffaele costruì un terzo teatro Masaniello al Corso Garibaldi: teatro che divenne un centro popolare assai vivo, proprio in que tempo ed in quel luogo in cui, nell'estate, dovevano scoppiare i famosi moti operai del '98.

Nel 1900, diventato orfano di padre, Papiluccio e Luisella furono costretti a lavorare per dura necessità. Comincia il periodo più disperato della vita di Raffaele: "…a dudece anni, a tridece, cu 'a famma e cu 'o ccapì, dicette: -Nun po' essere: sta vita ha da fernì. Pigliai nu sillabario. Rafele mio, fa tu! E me mettete a correre cu A. E. I .O. U." . Nel 1904, a quattordici anni, è scritturato in un Circo equestre ed interpreta il famoso "contrasto" settecentesco La Canzone di zeza. L'anno dopo riesce a debuttare al Teatro Petrella a Basso Porto, dove ottiene uno straordinario successo ne Lo scugnizzo di Capurro e Buongiovanni. Successivamente è all'Arena Olimpia alla Ferrovia; e già crea con Fifi Rino la sua prima canzone comica, versi e musica. L'esito ottenuto lo spinge a perseverare, diventa poeta e musicista come era diventato istruito: tutto forza di volontà. Nell'inverno di quello stesso anno ritenta una nuova tournée in Alta Italia (la prima, tentata nel 1904, s'era conclusa a Civitavecchia, dove, rimasto affamato sulla piazza, era stato tratto in arresto, prima di poter essere rimpatriato dalla Questura). Viene scritturato dalla compagnia di varietà di Bova e Carmelingo e parte per Milano, in un carrozzone da Circo equestre. Nel 1907 è a Malta: nel 1908 riesce a debuttare all'Eden di Napoli, uno dei maggiori varietà cittadini, ed il suo genere realistico impressiona. Nell'estate dello stesso anno è al Teatro Nuovo e quindi a Roma, al Teatro Sorinelli, con Petrolini. Qui interpreta tre film di costume: uno dei quali, Amore selvaggio, avendo ad antagonista Giovanni Grasso. Tre anni dopo è a Budapest dove crea le sue pantomine di sapore avanguardistico; e di là, tornato in Italia, conquista i maggiori pubblici di varietà della Penisola con il suo numero originale. A Roma lo scopre Tommaso Salvini; e Mario Corsi sulla Tribuna gli dedica un saggio critico in terza pagina. Nel 1912 sposa Maria Di Maio, nipote di Gaetano Gesualdi, e cioè del reale creatore del Teatro dell'Arte Napoletana, in quanto capitalista del Molinari, impresario del Teatro Nuovo. Ormai è un artista celebre, al pnto da contendere a Petrolini persino il successo alla Sala Umberto di Roma, nella stagione del 1914, che fu una straordinaria rassegna di tutto il varietù italiano. Nel 1917 fu a Parigi; ma non interessò. Al ritorno in Italia, a causa della disfatta di Caporetto, ed essendo venuto l'ordine governativo di chiusura ei varietà, organizzo una compagni di prosa e musica e debuttò al Teatro Umberto di Napoli con l'atto unico 'O vico. Il "vicolo" napoletano, con i suoi "bassi" e la sua miseria era stato sempre, per Viviani, lo scenario più familiare e più vivo di quel mondo della strada da cui tutte le sue creature erano emerse; e ne l vicolo ambientò la sua prima commedia" Cominciò da qui per Raffaele Viviani un'attività febbrile; in pochissimo tempo scriveva versi, prosa e musica, metteva in scena e recitava, pretendendo ed ottenendo da attori completamente nuovi una recitazione a memoria. In tutti questi lavori, Viviani porta sul palcoscenico le strade di Napoli; porta se stesso e la gente che ha conosciuto da vicino.

E' ammirato da Eduardo Scarpetta, Roberto Bracco, Matilde Serao, Salvatore Di Giacomo; Gemito vagheggia su di Lui un ritratto, che eseguirà nel 1926; così Saveri Gatto, Luca Postiglione, Ezechiele Guardascione (l'ultimo a dipingerne i tratti sarà Luigi Cresconio nel 1947)

Egli rimase all'Umberto nella stagione del 1918, '19 e '20: quindi cominciò a girare per i teatri della Penisola. Nel 1921 i suoi primi comici lo abbandonarono e Viviani in pochi giorni li sostituì, ottenendo ancora più successo. Agli atti unici aveva aggiunto lavori in due atti ed anche in tre. Fu a Tripoli nel 1925; e, quattro anni dopo, si recò nell'America Latina (Argentina, Uruguay, Brasile) dove dimorò circa un anno, ottenendo memorabili successi, e dove fu vittima di un'avventura politica: lui che politicamente era innocente, a dire di un suo biografo, alla Balzac. Al ritorno in Italia fu interprete del Cerchio della morte di Cavacchioli al Lirico di Milano e due anni dopo fu protagonista de La tavola dei poveri: un film da lui steso tratto da una sua commedia, allora appena abbozzata, e per la regia di Alessandro Blasetti, Gino Rocca, nel 1934, lo chiamò a Venezia, interprete del personaggio di Don Marzio, nella Bottega del caffè di Carlo Goldoni, data in Campo San Luca. L'anno dopo fu a Tunisi; nel 1936 fu il protagonista dell'Ammalato immaginario di Molière ed a Torino, città particolarmente vivianesca, conobbe, tramite Tatiana Pavolova, sua grande e fedele amica, Nemirovic Dàncenco, fondatore del Teatro di Stato di Mosca, che lo avrebbe voluto per una stagione in Russia.

Sono gli anni più duri per Raffaele Viviani quelli che precedono la seconda guerra mondiale. La lotta al dialetto, voluta dal regime di allora, fa sì che la Direzione dello Spettacolo gli neghi i teatri. A questo s'aggiunga la funzione di copertura del trust delle sale di spettacolo perseguita dalla sedicente U.N.A.T., la quale dà addirittura l'ostracismo a Viviani: che però eroicamente resiste e combatte, continuando a scrivere ed a recitare. Fa un film L'ultimo scugnizzo per la regia di Righelli; nel 1940 recita in Miseria e nobiltà di Eduardo Scarpetta e in Chicchignola di Petrolini; e l'anno dopo fa conoscere Antonio Petito, interpretandone una commedia ed indossando egli stesso il camiciotto bianco di Pulcinella; fermatosi a Napoli nella stagione del 1942, recita tre mesi, ininterrottamente, al Teatro delle Palme, noncurante delle incursioni aeree che sconvolgono la città. Qui interpreta una novità di Pirandello: Bella vita (la sua terza interpretazione all'Agrigentino dopo La patente e Pensaci Giacomino). E intanto collabora alla sceneggiatura del suo dramma I pestacori, film che non riesce ad interpretare perché una crisi fisica glielo impedisce. Si riprende a stento dal male che lo mina e, dopo la liberazione, torna per un breve periodo alle scene nel 1945, chiudendo definitivamente la sua carriera nel giorno di Pentecoste di quell'anno con 'O vico: il suo primo lavoro. Da allora, chiuso nella sua casa al Corso Vittorio Emanuele, scrive con la collaborazione del figlio Vittorio I dieci comandamenti, riordina le sue Poesie edite ed inedite, la sua Autobiografia, e tenta ancora due commedie rimaste incompiute: Cavalli ed asini e Trovare un posto.

Muore il 22 marzo 1950.


Raffaele Viviani e la sua città

"Nacqui a Castellammare di Stabia la notte del 10 gennaio 1888, all'una e venti, figlio di un cuor d'oro di donna e di un padre cappellaio, che più tardi divenne vestiarista teatrale.."

Cento anni di un rapporto continuo, costante, ma mai pacifico, intessuto di grandi clamori e di altrettanto grandi silenzi, di amori improvvisi, di singolari nostalgie. La Castellammare di Raffaele Viviani, città nella quale nacque tra il 9 e il 10 gennaio del 1888, all'1 e 20 di notte, come lui stesso annotava, oggi sembra aver preso finalmente coscienza della grandezza del personaggio cui diede i natali. E nel quadro per le manifestazioni organizzate per l'anniversario (1888-1988) ha sponsorizzato una bella pubblicazione (Guida editore) che raccoglierà tutti gli scritti teatrali, testi, spartiti, versi. E' il primo tentativo di raccogliere insieme l'intera opera di Viviani, poeta dei poveri, commediografo, attore, capocomico, artista singolare, che nel corso di tutta la sua vita mantenne sempre stretti i legami con la sua città natale. A Castellammare tornava spesso in tournée con le sue commedie, ma tornava anche per visitare parenti e amici coi quali usava trattenersi nel salone di "Santulillo" il barbiere della Caperrina, cuore del centro storico stabiese, a pochi passi dalla casa dove era nato e che oggi lo ricorda con una lapide, all'inizio della vecchia Via De Turris diventata Via Viviani.

Raffaele Viviani era figlio di questa Castellammare più antica, di un quartiere, quello della Caperrina, appunto, dove affondano le radici della cultura locale, il nucleo abitativo alle spalle del porto, arrampicato in alto verso la collina di Quisisana sede della reggia borbonica e delle ville dei nobili napoletani. Un posto dove, più che altrove, si scontravano l'opulenza dei ricchi e la miseria dei diseredati, tanti di quei personaggi trasferiti successivamente nelle opere dell'artista. Più di tutto, però, Viviani conservava di Castellammare la lingua. Un dialetto napoletano meno dolce, fatto di parole tronche, aspre, molto diverso da quello parlato nella vicina Napoli. Raffaela a Castellammare passa pochissimi anni della sua infanzia. A quattro anni, quando il padre, costumista teatrale, trova lavoro a Napoli, la famiglia si trasferisce nel capoluogo. E a soli quattro anni e mezzo il piccolo Viviani debutta a Porta Capuana sulle tavole di un palcoscenico come cantante comico; gli mettono addosso il frac di un pupo, compresa una tuba. L'esperienza dura un paio d'anni ed è interrotta drasticamente: il teatrino va in fiamme e con esso bruciano le misere speranze della famiglia Viviani. E Raffaele viene rispedito a Castellammare ospite della famiglia della madre, Teresa Sansone, dove resta fino ai dieci-undici anni. Ed è nel corso di questo lungo soggiorno nella città che il futuro commediografo intreccia stretti legami d'amicizia con alcuni stabiesi e nella sua formazione culturale assorbe le tradizioni locali, i modi di fare e di parlare della gente, individua personaggi e situazioni che ripeterà nelle sue opere. Tornerà nella sua città natale spessissimo quando si sarà dedicato a scrivere e a mettere in scena i suoi singolari atti unici, le sue commedie, a metà tra le farse e il melodramma a sfondo sociale, dei quali è sempre protagonista la plebe alla quale dà un'anima trasformandola in popolo.

La gente, i volti, i suoni di Castellammare sono sempre presenti. Fino a quando, negli anni bui del fascismo, mentre la sua opera era osteggiata e la sua compagnia rifiutata dalle maggiori piazze, un gruppetto di amici stabiesi non gli chiede di scrivere qualcosa ambientato in città. Nasce così "Padrune 'e varche": ci sono i cantieri navali, gli operai, la festa del patrono, San Catello. E' rappresentata una Castellammare vera, nient'affatto oleografica, che fa da sfondo ad una storia di gente comune. La commedia viene messa in scena e rappresentata spesso dalla compagnia di Viviani al Teatro Savoia, oggi Supercinema, con le porte aperte sul centrale Corso Vittorio Emanuele. Lo stesso palcoscenico che vedrà altre opere dell'artista fino al 1940 con "L'ultimo scugnizzo". Dopo la morte è il figlio Vittorio a riproporre i testi di Viviani anche a Castellammare. Siamo negli anni dell'immediato dopoguerra e viene allestito "Napoli in frac". Sempre in quest'epoca è Castellammare che vede la prima rappresentazione dei lavori proposti da Enrico Fumo, da Salvatore Cafiero e dai fratelli Maggio. Poi il silenzio. Ed è solo negli anni sessanta che intorno a Viviani si tenta di far gravitare la rinascita culturale della città. Si organizza al Circolo Internazionale il premio "Ambasciatori di Stabia", la cui prima edizione va ai figli riuniti del grande Raffaele. Nel '65 nasce il premio di poesia "Raffaele Viviani". In questi anni, una cooperativa locale, il Cat, che faceva capo a Ciro Madonna, ripropone le opere di Viviani in teatro allestendo "L'ultimo scugnizzo", "La ballata popolare" e "Fatto di cronaca". Tutti tentativi encomiabili, portati avanti da un gruppetto di appassionati privi di strutture e di mezzi, che fanno del teatro di Viviani la propria bandiera, ma non riescono ad uscire dall'ambito locale. Occorrerà attendere il fermento del centenario dalla nascita per rivedere un'opera di Viviani in un teatro stabiese e la proposta dell'Amministrazione di acquistare l'edificio del cinema Nazionale e farne il "Teatro Viviani", struttura base di future iniziative intorno alla figura dell'artista. Proposta che però ad oggi resta ancora sulla carta.


Il teatro di Viviani

Il tempo non ha reso pieno onore al teatro di Raffaele Viviani, cancellando gran parte dei suoi atti unici e dei suoi bozzetti, ma la sua Napoli "stracciona e pidocchiosa", come la definirono le autorità politiche, resta una gemma nella storia della drammaturgia e della letteratura moderna.

Vittorio Viviani, scrittore, poeta e regista, diceva spesso: "Raffaele Viviani ha sempre avuto una gran voglia di riprendere la Festa di Montevergine ma non ha mai potuto realizzare il progetto: occorrevano molti soldi per alestire il lavoro nella sua versione originale. E prima ancora dei soldi occorrevano molti attori, come li voleva Viviani". Diceva così, di suo padre, l'autore dell'unica vera storia del teatro napoletano, uomo di straordinaria cultura scomparso troppo presto e non ' un caso che la morte di Vittorio sia coincisa con l'esplosione della confusione, da allora più sovrana sulle scene di Napoli e dintorno. A sessant'anni dalla prima , quella "Festa di Montevergine", così come l'aveva pensata e disegnata Raffaele Viviani, è tornata in scena in una splendida notte d'estate in quel Teatro Grande di Pompei che conserva intatte le sue millenarie suggestioni. Viviani l'aveva offerta al pubblico del napoletano Teatro Fiorentini la sera del sabato santo del 1927. Poche repliche, gran successo come scrisse Carlo De Flaviis su "Comoedia". Poi Viviani aveva messo da parte il lavoro che riprese anni dopo rappresentandone soltanto il terzo atto, con gran dispiacere di uno dei suoi attori più fedeli, Pasquale Fiorante, "primo beccaio" nell'edizione del Fiorentini. A proporre "La Festa di Montevergine", nel centenario della nascita del Grande Napoletano e nel commosso ricordo di Nino Taranto, lo stupendo interprete al quale si deve, al di là delle omissioni volute da certi teatranti, abbondantemente finanziati, la riscoperta del repertorio di Viviani, è stata Luisa Conte, con il legittimo patrocinio della Regione Campania. "La festa di Montevergine" disegna perfettamente, attraverso tipi e situazioni, una delle più antiche feste del sud per diventare un autentico documento di costume, un panorama di varia umanità napoletana e popolare. Sfarzo, vanità, piccole truffe, il traffico delle grazie, le sfide dei declamatori, i giochi da osteria, i canti a dispetto, le risse, gli inni sacri, le processioni, il fanatismo religioso nei suoi eccessi. E, al centro di tutto, una storia. Un kolossal in piena regola sul piano dell'allestimento e per la presenza di oltre 50 attori: la "Festa" è stata definita anche così. Al di là dei suoi alti contenuti sul piano della drammaturgia, possiamo con certezza definirla una straordinaria dimostrazione di quel che Napoli può dare al miglior teatro. Non solo italiano.


  • SO' BAMMENELLA 'E COPP' 'E QUARTIERE
  • So' "Bammenella" 'e copp' 'e Quartiere;
    pe' tutta Napule faccio parla'
    quanno annascusa p' 'e vicule, 'a sera,
    'ncopp' 'o pianino me metta a balla'.
    Veco 'a 'mbulanza, 'int'a niente m' 'a squglio!
    E si m'afferra me torna a lassa'!
    'Ncopp' 'a Qusitura, si 'e vvote ce saglio,
    è pe' furmalità.
    Cu 'a bona maniera
    faccio cad'e 'o brigadiere
    piglio e lle vengo 'o mestiere:
    dico ca 'o tengo ccà.
    'O zallo s' 'o mmocca,
    l'avota 'a capa e s'abbocca,
    ma nun appena me tocca,
    me n'ha da manna'.
    Me fanno ridere cierti perzone
    quanno me diceno: Penza p''e tte!
    Io faccio 'ammore cu 'o capo guaglione
    e spengo 'e llire p' 'o fa' cumpare'.
    Sto sotto 'o debbeto, chisto è 'o destino:
    ma c'è chi pava, pirciò lassa fa'.
    Tengo a nu bello guaglione vicino
    ca me fa rispetta'!
    Chi sta 'int' 'o peccato
    ha da tene' 'o nnammurato
    ch'appena doppo assucciato
    s'ha da sape' appicceca'.
    E tutte 'e sserate,
    chillo m'accide 'e mazzate!
    Me vo' nu bene sfrenato,
    ma nun 'o dà a pare'!
    Mo so' tre mise ca 'o tengo malato,
    sacci'io che spenno pe' farlo sana'!
    Però 'o dottore cu me s'è allummato,
    pe' senza niente m' 'o faccio cura'.
    E tene pure 'o mandato 'e cattura.
    Priesto 'a 'mbulanza s' 'o vene a piglia'.
    Io ll'aggio ditto: sta' senza paura,
    pe' tte ce stongo io ccà!
    Cu 'a bona maniera
    faccio cade' 'o brigadiere.
    Mentr'io lle vengo 'o mestiere,
    isso have 'o canzo 'e scappa'.
    Pe' mme 'o 'ssenziale
    è quanno me vasa carnale.
    Me fa scurda' tutt' 'o mmale
    ca me facette fa'!
  • Questo famosissimo canto di Viviani, fu portato per la prima volta al successo (1912) da una stupenda interpretazione di Luisella e, poi, inserito nell'atto unico "Tuledo 'e notte". Luisella Viviani, nata a Castellammare di Stabia nel 1885, sorella di Raffaele, fu, prima, acclamatissima interprete di canzoni, poi, tra le più grandi attrici del nostro teatro: diede vita, tra l'altro, a centinaia di splendidi personaggi scritti per lei dal celebre fratello. Morì a Napoli nel 1968.

     "PADRONI DI BARCHE" - atto primo

    PEDECONE - Don Catie', comme va, ogge avite cagnat'acqua?

    CATIELLO - Pecché?

    PEDECONE - Chella d'aiere era acqua acidula…

    ETTORE - …diuretica.

    PEDECONE - Pe' caccia' 'a bbile?

    CATIELLO - No, pe' mme renfrisca'.

    ETTORE - Bile nun se ne piglia.

    PEDECONE - 'A fa piglia'?

    CATIELLO - Forse. Chesta invece è acqua ferrata.

    ETTORE - P' 'o fa' rinfurza'.

    CATIELLO - Ogne surzo è nu turlo d'uovo frisco!

    ETTORE - (mesce e beve) Ah, sulo p' ll'acqua Castiellammare avarrìa tene' furtuna!

    PEDECONE - E' overo!

    CATIELLO - Siente, io fino a chesta età, nun so' trasuto maie dint'a na farmacia.

    Qualunque disturbo, trovo ll'acqua adatta; e 'o disturbo passa!

    ETTORE - Embè, 'a ggente va all'ati pparte e nun vene ccà!

    CATIELLO - E che ce vuo' fa'? Le nostre acque so' com'a chelli signurine ca nun ghiesceno 'a dint' 'a casa; o al massimo fanno dduie passe 'a dummeneca pe' dint' 'a villa, cu ll'uocchie 'nterra. E quanno so' 'e nnove giù stanno dint' 'o lietto e cu 'a capa sott' 'e cuperte. Chi 'e ccunosce? Chi nne parla? Nisciuno! Ll'acque 'e ll'ati paise, invece, so' signurine evolute, attrezzate al commercio, 'a comme se vestono a comme se presentano: chiene d'etichette. Nun stanno 'mbuttigliate: appena se fanno cunoscere, se fanno sbuttiglia'! E, comm'oggette 'e lusso, ogne surzo, sette e nuvantacinche! E ll'acque noste? Niente! (pausa) Eppure è ricchezza ca scorre! Esce d' 'a terra benedetta pe' gghì a fernì pe' tre quarte dint' 'e ffogne! E' quase nu sacrilegio! N'offesa a Dio! E comm'a ffiglio 'e Castiellammare, è na cosa ca nun ce pozzo penza'! St'acqua mm'è ssanghe, mme coce!

    PEDECONE - (a Letterino, dandogli uno scappellotto) - 'Mparate, comme se fanno 'e castelluoneche!

    La scena: a Castellammare di Stabia, un angolo deserto del porto, dietro la Capitaneria, il Deposito Sali e i Magazzini Generali… La strada ferrata sul ripieno pietroso corre trasversalmente… Alcuni scaricanti sono fermi, come in ozio, sulla banchina. Ai piedi della grua, un vecchio, immobile, pesca. Un uomo, sdraiato dorme. Si odono due voci maschili all'unisono: è l'avvio di marinai invisibili che tirano una fune, per alzare una vela. Con questa commedia, Raffaele Viviani lasciò in testamento di un immenso amore per la sua città natìa e, insieme, anticipò, sintetizzandole con geniale intuizione, le amarezze degli stabiesi. Di ieri e di oggi, almeno.

  •  La Rumba degli scugnizzi

    Chesta è 'a Rumba d' 'e scugizze

    ca s'abballa a tutte pizze.

    Truove 'e dame 'mpizze 'mpizze

    ca te fanno duie carizze.

    Si te fa passa' 'e verrizze,

    strette 'e mane, vase e frizze,

    pruove gusto e te ce avvizze,

    cchiù te sfriene e cchiù t'appizze.

    Comme a tante pire nizze

    te ne scinne a sghizze a sghizze

    fino a quanno nun scapizze.

    Chesta è 'a Rumba d' 'e scugnizze

    'O rilorgio, mo capisco

    pecchè 'o cerco e nun 'o trovo,

    steva appiso, è gghiuto 'o ffrisco:

    c'è rimasto sulo 'o chiuovo.

    'O chiuovo io tengo…

    cic cic cic cì…

    Belle 'e 'ammere!

    Cic cic cic cì…

    Scarola riccia p' 'a 'nzalata.

    Cicche cicche cicche cì…

    Fenocchie!

    Cic cic cic cì…

    'O spassatiempo!

    Cic cic cic cì…

    Capillo'!

    Cic cic cic cì…

    Mo t' ' ccoglio e mo t' 'e vvengo!

    Cic cic cic cì…

    Gue', l'aglio!

    Chesta è 'a Rumba d' 'e scugnizze.

    Assettateve assettateve!

    Ca s'abballa a tutte pizze.

    'O quadrillo e 'a figurella!

    Truove 'e dame 'mpizze 'mpizze

    O mastrillo e 'a grattacasa!

    ca te fanno duie carizze.

    Quanto è bell' 'o battilocchio!

    Pruove gusto e te ce avvizze,

    pe chi tene 'a moglie pazza!

    cchiù te sfriene e cchiù t'appizze.

    Quatto sorde 'o finucchietto!

    Comme a tanta pire nizze

    te ne scinne a sghizze a sghizze

    fino a quanno nun scapizze.

    Chesta è 'a Rumba d' 'e scugnizze.

    Puparuole e aulive

    Magnateve 'o cocco! Magnateve 'o cocco!

    Rroba vecchia!

    Pallune p' 'allesse! Pallune p' 'allesse!

    'E mellune chine 'e fuoco1

    Na bona marenna! Na bona marenna!

    Cotogne!

    Gelati! Gelati! Gelati! Gelati!

    Concia tielle…

    A pizza cu 'alice! 'A pizza cu 'alice!

    Furno 'e campagna!

    E lazze p' 'e scarpe! 'E lazze p' 'e scarpe!

    D' 'o ciardino tutte secche!

    'A capa d' 'o purpo! 'A capa d' 'o purpo!

    'O Roma!

    Chella bella mamma d' 'o Carmine v' 'o ppava!

    Nun m' 'o ppozzo fatica'!

    E' bellella 'a paparella!

    Accattateve 'e piatte!

    Sei tuvaglie cinche lire!

    N'ata pianta p' 'o salotto!

    Nocelline americane!

    Tengo 'o ggrano p' 'a pastiera!

    Pacchiane', chi s' 'o penzava?

    Tieno chisto campo 'e fave!

    Cicchignacco 'int' 'a butteglia!

    'O zi' monaco 'mbriacone!

    'O veleno p' 'e scarrafune!

    A dummeneca addo' t' 'a faie?

    Comme a tanta pire nizze

    te ne scinne a sghizze a sghizze

    fino a quanno nun scapizze.

    Chesta è 'a Rumba d' 'e scugnizze.

  •  Il nome "Scugnizzo" deriva dal verbo "Scugnare" che, molto sinteticamente, significa: scalfire, trafiggere, eliminare con l'apporto di un cuneo. I "monelli" napoletani di un tempo - che non venivano ancora chiamati "scugnizzi" - amavano giocare con delle piccole trottole di legno (gli strummoli) che giravano grazie alla trazione generata da una cordicella ('a funicella). Era un gioco di alta destrezza ed al vincitore spettava lo sfizio di incuneare la trottola dell'avversario perdente: lo scugnava; quindi da "quelli che scugnano" è nato "scugnizzo". Ma se l'etimologia del nome è stata più o meno accertata, la presenza, la nascita e l'ascesa dello scugnizzo nel quotidiano partenopeo è ancora oggi un mistero. C'è stato un tempo non molto lontano che Napoli veniva simbolicamente citata con la pizza, il Vesuvio, il clima e gli scugnizzi.

    Eccolo lo scugnizzo: genio e sregolatezza, sberleffo vivente della gaudente e "molle società" della belle epoque napoletana… Eccolo lo scugnizzo, amara realtà "del paese del sole" "della terra delle sirene" "del pianeta della canzone"… Eccolo lo scugnizzo: geniale, intelligente, furbo, strafottente, lavoratore instancabile nel trovare il modo per inventarsi la giornata… Eccolo lo scugnizzo: è Raffaele Viviani! Il più geniale, il più vero, il più critico, il più innamorato, il più artista tra tutti gli artisti che Napoli abbia avuto. Egli che fu scugnizzo per esigenze, egli che visse la strada con le sue insidie, ma con la sua "scuola", ne fece poi un simbolo nel suo teatro, una bandiera nei suoi canti veraci. E' la "Rumba d' 'e scugnizze" è un elogio a loro, ai diseredati vincenti, ai filosofi del "tirammo 'a campà", un elogio alla Napoli viva, la Napoli degli scugnizzi di un tempo.

    PER SAPERNE DI PIU' SU VIVIANI

    "Ritorno a Viviani", Paolo Ricci, Editori Riuniti, 1979

    "Teatro di Raffaele Viviani", due volumi a cura di Lucio Ridenti, Introduzione di Eligio Possenti, ILTE Torino, 1957

    "Dalla vita alle scene", Raffaele Viviani, Guida, 1974

    "Il teatro di Raffaele Viviani", Volume I, a cura di Guido Davico Bonino, Guida, 1988

    "Memorie di un canzonettista", Rodolfo De Angelis, ASACSE Milano, 1940

    "Viviani", Roberto Minervini, Editori Bideri Napoli, 1940

    "Le due Napoli"; Domenico Rea, Mondadori, 1950

    "Scritti di teatro", Corrado Alvaro, Ed. Abete, Roma, 1986

    "Poesia dialettale del Novecento", Pier Paolo Pasolini, Guanda, 1952

    "Antologia del Grande Attore", Vito Pandolfi, Laterza, 1954

    "Storia del varietà", Luciano Rama, Garzanti, 1956

    "Antologia dei poeti napoletani", Alberto Consiglio, Parenti, 1957

    "Raffaele Viviani, poesie", a cura di Vasco Patrolini e Paolo Ricci, Vallecchi, 1961

    "Raffaele Viviani", Giulio Trevisani, Cappelli, 1961

    "Storia del teatro", Vito Pandolfi, UTET, 1964

    "Raffaele Viviani a 25 anni dalla morte", scritti di Roberto Virtuoso, Mario Stefanile, Eduardo De Filippo, Michele Prisco, Paolo Ricci, Vittorio Viviani, Roberto De Simone, Achille Millo, Antonio Ghirelli, Franco De Ciuceis, volume a cura del Comitato per le celebrazioni di Viviani, Napoli, 1975

    "Napoli italiana", Antonio Ghirelli, Einaudi, 1977

    "Storia del teatro napoletano", Vittorio Viviani, Guida, 1969

    "Enciclopedia dello spettacolo", Volume IX, Ed. Le Maschere, 1962

    "Incontri di studio sull'opera di Raffaele Viviani", Edizioni Lan, 1988

    "La letteratura 1860-1930", Antonio Palermo, SEN 1964

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