La medicina degli affari
E’ recente la notizia di una nuova scoperta del Prof. U. Veronesi nella lotta al
cancro al seno. Secondo uno studio condotto dall’ex ministro della Salute, un
preparato a base di fenretinide, un analogo sintetico del retinolo o vitamina A,
dimezzerebbe, in donne al di sotto dei 40 anni, il rischio di ricadute dopo la
rimozione della prima neoplasia. E’ bene ricordare, però, che la vitamina A è un
componente della terapia antitumorale del Prof. Di Bella. Lo scomparso
professore venne “ufficialmente” bocciato. Veronesi invece, riceverà
presumibilmente, per questa “sua” nuova scoperta, un ennesimo premio. E’ la
storia del potere che prosegue il suo corso. Nell’attuale società, potere ed
affari, com’è risaputo, spesso convergono.
Ma è nella moderna medicina che tale diabolico intreccio raggiunge forse la sua
massima espressione. Modello esemplare di questa “medicina degli affari” è
quella parte preponderante dell’oncologia che, per i malati di tumore, continua
a propinare chemioterapici, che non guariscono mai, anche se si vuol far credere
il contrario, ma che consentono all’industria farmaceutica di realizzare
guadagni inimmaginabili.
E che dire riguardo all’accanita lotta al colesterolo? Le linee guida ufficiali,
dettate dagli esperti, pagati direttamente dai produttori dei farmaci per il
controllo del colesterolo, tendono ad abbassarne sempre più il limite al di
sopra del quale ci si deve rivolgere al medico. Numerosi studi confermerebbero
che la riduzione del colesterolo ridurrebbe anche i rischi di infarto e di
ictus. Ma le cose stanno veramente così? Ricerche contro corrente, e guarda
caso, non finanziate dalle solite case farmaceutiche, dimostrerebbero che l’uso
delle statine, (i farmaci usati per ridurre il livello di colesterolo), non
influenzerebbe affatto il rischio di malattie cardiovascolari. Questi studi non
vengono mai pubblicati, ovviamente, dalle più note riviste scientifiche, e ciò
basta a molti, purtroppo, per considerarli privi di fondamento. Ma quanto
rendono all’industria questi farmaci?
In un articolo pubblicato su Medical News Today, viene reso noto che il
fatturato ottenuto con le sole statine nell’anno 2003, negli Stati Uniti, è
stato di ben 26 miliardi di dollari. E quello attuale a quanto potrebbe
ammontare?
Il problema di fondo è che i mezzi di informazione medica, così come quelli
dell’informazione in generale, assai spesso non sono affatto espressione di
verità, ma rappresentano invece, nelle mani di pochi potenti senza scrupoli, un
temibile strumento per la salvaguardia dei loro sporchi interessi, a discapito
della collettività.
Sono poco noti, ma ormai numerosi, i casi di ricerche fasulle pubblicate da
riviste “autorevoli”. Dopo la truffa del ricercatore sudcoreano Hwang Woo Suk,
che aveva annunciato di essere riuscito a clonare cellule staminali “su misura”,
l’ultimo falso accertato, in ordine cronologico, coinvolge il Lancet.
Il noto ricercatore norvegese Jon Sudbo ha falsificato in toto un lavoro,
pubblicato dalla “prestigiosa” rivista nell’ottobre del 2005, che sosteneva
l’associazione degli effetti dell’uso a lungo termine di farmaci antinfiammatori
non steroidei con una riduzione di cancro al cavo orale. Si è scoperto che Sudbo
ha inventato tutto di sana pianta, persino i dati relativi a 900 pazienti (la
notizia è apparsa su “The Scientist”).
E’ ancora meno noto che il proprietario della casa editrice di Lancet, Reed
Elsevier, sia anche un trafficante d’armi. In una lettera a Lancet (Reed
Elsevier and international arms trade; Lancet 2005) diversi accademici hanno
dichiarato che “Oggi la stessa Lancet si trova connessa con i profitti del
commercio d’armi”. Richard Smith, ex curatore del British Medical Journal e ora
direttore generale di United Healt Europe, ha sostenuto (editoriale pubblicato
dalla rivista ad accesso libero “PLos Medicine”) che “Le riviste di medicina
costituiscono un’estensione del braccio del marketing delle compagnie
farmaceutiche”. Le riviste mediche ricevono ingenti quantità di danaro per le
pubblicità dei farmaci, ma il problema maggiore, secondo Smith, è quello dei
trial clinici finanziati dall’industria. “Per una compagnia farmaceutica"
afferma, "uno studio favorevole vale più di migliaia di pagine di inserzioni
pubblicitarie. Ecco perché le aziende spendono a volte milioni di dollari per
ristampare e diffondere in tutto il mondo i risultati delle ricerche”.
In
un famoso articolo pubblicato da The Indipendent nel 2003, l’inglese
Steve Connor, scrittore e giornalista scientifico pluripremiato, ci rivela che
Allen Roses, per molti anni vicepresidente della linea genetica della
GlaxoSmithKline, la più grande compagnia farmaceutica britannica, ha
sostenuto che “la stragrande maggioranza dei farmaci, più del 90%, funziona
solo nel 30-50% degli individui”. E dal momento che a rendere pubbliche
queste cifre è stato un importante rappresentante dell’industria c’è da credere
che la realtà sia ancora più tragica. L’elenco dei poco edificanti risultati di
questa moderna medicina, caratterizzata da stretti legami col mondo del business
e assai povera di scienza, potrebbe ancora continuare a lungo. Ma credo che
quanto detto basti a far sorgere almeno qualche dubbio, in chi già non ne
avesse, sulla sua credibilità. E ora che la medicina si riappropri dell’alto
valore morale e culturale che le si addicono e lasci finalmente da parte il
losco mondo degli affari, per il bene della scienza e soprattutto per il bene di
noi tutti.
Guglielmo Ferraro