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A.G.E.S.C.I. Saronno 2     -----------------------------------------------------------------------------------------------

Condividi la tua debolezza 

 

[L'altro giorno Colleen, che vive in comunità da più di 25 anni, mi diceva: "Ho sempre voluto essere trasparente nella vita comunitaria. Volevo soprattutto evitare di essere un ostacolo all'amore di Dio per gli altri. Adesso comincio a scoprire qualcos'altro: io sono un ostacolo e lo sarò sempre. Ma la vita comunitaria non consiste forse nel riconoscere di essere un ostacolo, e nel riconoscere questo fatto con i miei fratelli e sorelle e nel chiederne perdono?".]

Non esiste la comunità ideale. La comunità è fatta di persone con le loro ricchezze, ma anche con le loro debolezze e povertà, che si accettano a vicenda e si perdonano. Più della perfezione e dell'abnegazione, l'umiltà e la fiducia sono fondamento della vita comunitaria.

Accettare le proprie debolezze e quelle degli altri è esattamente il contrario della sdolcinatezza. Non è un'accettazione fatalista, senza speranza. E’ essenzialmente una preoccupazione di verità per non essere nell'illlusione e per poter crescere a partire da quello che si è e non da quello che si vorrebbe essere, o da quello che altri vorrebbero che si fosse. E’ solo quando si è coscienti di quello che si è e di quello che sono gli altri, con le nostre ricchezze e le nostre debolezze, della chiamata di Dio e della vita che ci dona, che possiamo costruire qualcosa insieme. La potenza della vita deve sprizzare dalla realtà di quello che siamo.

Più una comunità s'approfondisce, e più i suoi membri divengono fragili e sensibili. A volte si potrebbe credere il contrario: perché i membri hanno una tale fiducia gli uni negli altri, dovrebbero diventare sempre più forti. E’ vero, ma questo non impedisce quella fragilità e sensibilità che sono alla radice di una nuova grazia, e che fanno sì che si divenga in un certo qual modo dipendenti gli uni dagli altri. Amare significa diventare deboli e vulnerabili; è togliere le barriere, è spezzare il proprio guscio nei confronti degli altri; è lasciare entrare gli altri in sé, e farsi delicati per entrare in loro. Il cemento dell'unità è la dipendenza reciproca.

[L'altro giorno, Didier spiegava questo a modo suo, durante un incontro comunitario: "Una comunità si costruisce come una casa, con pietre di tutti i generi. Ma quello che tiene insieme le pietre, è il cemento. E il cemento, lui, è fatto di sabbia e di calce, che sono materiali così fragili! Un colpo di vento e volano via, diventano polvere. Nello stesso modo, nella comunità, quello che ci unisce, il nostro cemento, è fatto di quello che c'è in noi di più fragile e più povero."]

La comunità è fatta di delicatezza tra persone nel quotidiano. fatta di piccoli gesti, di servizi e di sacrifici che sono segni costanti di "ti voglio bene" e "sono felice di stare con te". E’ lasciar l'altro passare avanti, non cercare durante le discussioni di dimostrare di aver ragione; è prendere su di sé i piccoli fardelli per scaricarne il vicino.

Se vivere in comunità consiste nell'abbattere le barriere che proteggono la nostra vulnerabilità, per riconoscere e accogliere le nostre debolezze per crescere meglio, è normale che dei membri separati dalla loro comunità si sentano terribilmente vulnerabili. Le persone che vivono sempre nelle lotte della società sono obbligate a crearsi intorno delle corazze per nascondere la loro vulnerabilità.

[E’ capitato talvolta che delle persone che avevano soggiornato a lungo nell'Arca tornino alla loro famiglia e scoprano in sé molti elementi di aggressività che hanno molta difficoltà a sopportare. Credevano che questi non esistessero più. Cominciano allora a dubitare della loro chiamata e della loro vera persona profonda. Queste aggressività sono normali. Queste persone avevano soppresso alcune barriere, ma non si può vivere restando vulnerabili con delle persone che non rispettano questa vulnerabilità.]

 

(Da: Jean Vanier, La comunità luogo del perdono e della festa, Jaca Book, Milano 1980, pp. 31-33)

 


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