Incontro col pittore Beppe Vargiu
Se non è espressivo, non è
di Gianni Manis
con la collaborazione di Giovanni Secci
Beppe Vargiu, 45 anni,
insegnante di educazione artistica.
Fin da ragazzo impegnato nella pittura, svolge da anni una ricerca
artistica; ha tenuto ultimamente mostre a Cagliari e Sassari.
Lo abbiamo incontrato nella sua casa, tra le sue opere.
Cos'è per te il bello?
"Perché non dire cosa è l'espressivo? Il bello è qualcosa
di espressivo, saputo rendere attraverso il linguaggio specifico.
Ma l'espressivo non è necessariamente ameno, dolce. Espressivo
è anche il drammatico, il tragico perché il mondo è anche questo. Espressivo
è anche quello che in altri tempi sarebbe risultato disgustoso, ripugnante,
reietto.
Il bello non solo portatore del positivo ma anche del
negativo.
Qui mi viene in mente quanto diceva Dmitrij Karamazov
nel celebre romanzo di Dostoevskij: "La bellezza è una cosa terribile
e paurosa perché indefinibile e definirla non si può, perché Dio non
ci ha dato che enigmi. Qui le due rive si uniscono, qui tutte le contraddizioni
coesistono […] La cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile,
ma è anche un mistero. È qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo
di battaglia è il cuore degli uomini"".
Ma oggi ci sono gli strumenti per formare il gusto
artistico?
"Qui dobbiamo cambiare registro. Le scuola deve dare gli
strumenti, io come docente cerco di farlo. Cerco di fornire ai miei
allievi gli strumenti che gli consentano di avvicinarsi all'arte".
"Ci si chiede perché le città sono brutte?
La risposta non può che essere perché la gente ha perso
il gusto per l'opera d'arte. Perché la gente deve preoccuparsi di avere
una bella città se le belle immagini le vede già alla televisione?
Questo perché la gente sta perdendo sempre più il gusto
di partecipare creativamente anche alla percezione di situazioni che
impongono un contatto reale con l'ambiente e non fittizio, come fanno
le immagini virtuali.
Naturalmente questo discorso può essere esteso a molte
altre attività umane".
Oggi ha senso l'arte?
"L'arte non deve integrarsi con il sistema, con il conosciuto,
con il quotidiano. L'arte deve mettere in crisi i valori, lo status
quo. Deve essere una forza critica, di apertura, l'arte ha senso se
riesce ad essere controcorrente.L'arte ha una carica di utopia che non
deve perdere se vuole restare arte".
"L'arte deve avere una forza critica, deve negare dialetticamente,
deve porsi controcorrente, deve confrontarsi in senso critico, non deve
competere con l'apparato tecnico dei media o delle immagini tecnologiche
perché a quel punto è già perdente, perché dinanzi alla linea di una
macchina, alla texture di certi tessuti o alle sofisticate immagini
virtuali la pittura non reggerebbe se dovesse confrontarsi a livello
di precisione e resa tecnica, in quanto è la caratteristica di queste
immagini tecnologiche essere più accattivanti e suggestive per il gusto
corrente, anche se si situano ad un livello di espressività piatto e
omologante, mentre la pittura è qualcosa di irriproducibile e specifico
dell'umano.
Insomma, l'arte ha senso se agisce su un altro campo".
L'arte deve porsi necessariamente controcorrente?
"E perché no? Forse arte è stare nel seminato? Nel gareggiare
col sistema?
Un computer qualunque, la televisione ti batte. Le immagini
sono migliori, più suggestive e soprattutto più accattivanti per l'ingenuo
gusto corrente. A quel punto ti accontenti di quelle e l'arte non ha
più senso".
"L'arte ha senso se è altro! L'artista deve riacquistare
la sua specificità, deve negare il preconfezionato".
Un'opera dell'autore
|
Cos'è per te la pittura, la tua pittura?
"Penso che siano gli altri a dover dire cosa è la mia
pittura, perché spetta a questi cogliere ciò che voglio comunicare".
Ma questo, per il pittore, non è un porsi al di sopra
degli altri?
"No tutt'altro. È una posizione molto sommessa da parte
del pittore: lui realizza l'opera poi gli altri ne usufruiscono. L'opera
una volta conclusa non è più del pittore ma vive di vita propria, senza
che l'artista condizioni chi ne usufruisce. Il pittore deve parlare
il meno possibile, stare in silenzio è l'opera che parla da se. L'opera
contiene un segreto che neanche il pittore conosce; viene guidato dall'opera,
è lei che ci pone dei problemi e dobbiamo essere pronti ad accoglierli
e a dare qualche risposta".
Ma cosa vuole esprimere il pittore nelle sue opere?
"Per quel che mi riguarda esprime aspetti fondamentali
dell'esistenza, dal disagio dell'uomo al degrado antropologico dell'uomo
stesso e infine i grandi drammi della società.
Poi, in che modo questi temi vengono comunicati nel linguaggio
visivo, sta al pittore realizzarli e declinarli dialetticamente attraverso
diverse categorie estetico-espressive.
Molto importante mi sembra il rapporto con la civiltà
dell'immagine che trionfa in modo volgare e totalizzante; credo che
per un pittore sia oggi importante un atteggiamento critico di "negazione
determinata" come dice il filosofo francofortese Adorno".
"Il pittore deve esprimere qualcosa nella posizione di
chi osserva questo mondo non in modo frontale, ovvio, usuale ma in modo
obliquo. Comunque credo che in qualunque opera d'arte ci sia celato
in modo più o meno esplicito un problema fondamentale: la morte".
Cos'è per te la luce?
"È una domanda molto stimolante, infatti una mostra che
ho tenuto a Cagliari al Centro Culturale "Man Ray" aveva come titolo
"Enigma della luce".
Da qui si capisce il mio interesse a tutte le problematiche
che si aprono intorno alla metafora della luce. La metafisica classica
ha inteso la luce come momento di "svelamento", di manifestazione più
alta della verità, come manifestazione di un eccesso di chiarore identificabile
con la totale luminosità".
"Non intendo la luce nei termini poc'anzi espressi della
metafisica classica ma la luce come qualcosa che illumina, ma tuttavia
porta intorno a se un alone di oscurità che continuamente svela e cela
la verità.
Qui mi avvicino al concetto di "Lichtung" del filosofo
Martin Heidegger. La luce che cerco di utilizzare nelle opere si muove
nella direzione, dove c'è sì il momento della illuminazione che apparentemente
rivela (aspetto sacrale) e che tuttavia nello stesso tempo revoca e
problematizza tutto; la luce non ti fa apparire solo il positivo ma
spesso anche il negativo, forme lacerate e inquietanti.
Credo comunque che la luce sia inseparabile dalla temporalità
che insieme concorrono nella resa pittorica a rendere lo spazio più
complesso, ubiquo. Una luce che non solo illumina l'oggetto ma lo corrode,
lo divora, lo trasforma".
Quali artisti ti hanno influenzato?
"Inizialmente da ragazzo mio fratello Salvatore, soprattutto
nella fase della formazione. Successivamente i professori delle scuole
medie e del Liceo artistico.
In periodi più recenti gli amici e pittori del "gruppo
91" di cui sono uno dei fondatori. In realtà per questi ultimi più che
di vera e propria influenza si può parlare di collaborazione culturale,
in particolare con il pittore e teorico Giuseppe Pettinau".
"Tra i grandi pittori della storia dell'arte fin da ragazzo
Van Gogh, ma anche Kandinski e inoltre Klee e gli "informali"".
Secondo te il pittore è in polemica anche con l'arte
del passato?
"In qualunque pittore non possiamo non rintracciare "l'Arcaico"
cioè ciò che riguarda la nostra ontogenesi e filogenesi.
Convive sia la polemica che la dialettica con l'arte del
passato. Il passato non è chiuso, è continuamente aperto. Bisogna aprirlo
e confrontarsi".
C'è più soddisfazione o sofferenza nel fare l'opera?
"Sono due cose che vanno di pari passo.
C'è molta sofferenza, ci sono momenti di panico, soprattutto
quando ti trovi la tela bianca, ma dopo è l'opera stessa a guidarti.
Una volta poste delle premesse il risultato dopo una lunga meditazione
metodologica espressiva nell'iter creativo è quasi obbligato ma non
scontato.
È quasi un concetto di ermeneutica, è il testo che ti
interroga e non tu che interroghi lui, qui però voglio intenderlo in
senso dialettico. Il quadro cioè ti guida verso la sua forma definitiva
non in senso lineare e consequenziale ma in modo articolato e spesso
imprevisto".
"La sofferenza si mostra nel momento in cui il quadro
una volta iniziato ti pone il problema di come concluderlo. Sei tu che
devi portarlo a termine seguendo le domande che esso ti pone.
Quindi c'è sofferenza, e la soddisfazione non è ne immediata
ne aleatoria ma viene alla fine del processo compositivo. È una soddisfazione
che non si conclude mai perché l'attività del pittore è una continua
elaborazione. Nel momento in cui provi soddisfazione sei nuovamente
in movimento perché l'opera ti pone nuove domande.
Nell'opera c'è sempre un senso di incompiuto".
Quindi nei tuoi quadri cerchi di rispondere a delle
domande?
"Si certo. Però non tutto ciò che un artista pone in un
quadro nasce coscientemente.
Confluiscono nel quadro parti segrete di noi stessi di cui non abbiamo
coscienza, per ciò si può dire che il pensiero, per certi versi, sfugge
ad una totale esplicitazione linguistico-formale.
Non tutto è riducibile a un soggetto o realtà empirica
poiché c'è l'aspetto trascendente".
Da poco hai tenuto una mostra al Centro Culturale Kairos
di Sassari. È positivo che venga molta gente.
"Fa piacere che venga molta gente.
Mi piacerebbe che per il pubblico ci fosse la possibilità
di vederla con più attenzione e profondità eliminando l'aspetto mondano.
È positivo che si sia svolta presso un centro culturale,
ricco di stimoli e di fermento culturale.
È stato interessante confrontarsi con una realtà culturale
diversa come è, appunto, quella del "capo di sopra"".
Perché il pubblico si rivolga all'arte con maggiore
profondità è necessaria una maggiore educazione. Non pensi che anche
gli artisti dovrebbero aprirsi di più?
"Guardate che la mostra non è una mostra fisica del pittore
ma delle opere. Il pittore deve apparire, in senso simbolico, il meno
possibile, non deve condizionare la fruizione dell'opera.
Ribadisco che non è l'artista che deve spiegare l'opera.
È difficile che l'artista riesca a spiegare l'opera a chi non l'ha compresa.
Ma poi ci si chiede cosa si deve capire? Chi osserva deve
ascoltare se stesso e incominciare a vedere l'opera. Talvolta sono errati
i presupposti e così si cerca nell'opera ciò che non c'è".
"Ribadisco non è l'artista che deve chiarire l'opera.
Se lo facesse non lascerebbe niente al fruitore. Uno deve azzerare le
proprie aspettative e percepire ciò che realmente l'opera cerca di esprimere.
Comunque l'opera non è mai totalmente ciò che l'artista
vuole esprimere, c'è sempre qualche elemento dell'artista che neppure
lui conosce di se stesso".
Ma, insomma, cos'è l'arte?
"L'arte è rifuggire dall'usualità delle immagini che continuamente
ci vengono proposte, è far emergere quelle istanze profonde dell'esistenza
proponendo, ribadisco, quella dimensione utopica come superamento di
un mondo sempre più ricco di tecnica ma povero antropologicamente".
Quando avremo una tua mostra a Quartucciu?
"Quando ci saranno le condizioni. Fino a oggi le mostre
le ho fatte all'interno di programmi culturali o di gruppo. Vedremo
più in là".
Gianni Manis e Giovanni Secci.
...Non pubblicato nella versione cartacea:
Dicevamo che nei quadri ci sono vincoli, premesse,
....
"Da un lato sono vincoli che riguardano la mia poetica.
Invece nello specifico svolgimento i vincoli sono dati dalle premesse.
C'è uno scarto tra ciò che pensiamo e ciò che realizziamo. L'ostacolo
terrificante è che c'è una parte del nostro pensiero che risulta indicibile
per cui c'è uno scarto tra ciò che pensi e ciò che fai".
Beppe, hai parlato dell'immagine di città. Ti diamo
un'immagine: il palazzo della civiltà e del lavoro a Roma - Eur.
"Senza rievocare le critiche famose come quelle di Bruno
Zevi possiamo comunque dire che è una immagine falsa. Ripropone l'immagine
della romanità in un contesto sbagliato.
La funzione non c'è, è pura e semplice celebrazione regime".
In sostanza, sono sbagliate le premesse e quando queste
sono sbagliate, risultano tali anche i risultati, e contemporaneamente
non ha una funzione da adempiere se non per l'appunto quella di celebrare
il regime".
Può esistere un'architettura che sia opera d'arte,
oggi?
"Quando sono state tali erano legate all'esigenza di rispondere
a delle funzioni estetiche, psicologiche, simboliche e spirituali; ma
solo dopo sono state opere d'arte."
"Si può comunque fare architettura che sia arte anche
oggi, però serve preparazione e conoscenza dei problemi. Chi progetta
deve avere un'anima -non è un semplice calcolo di metri cubi o di indici-
deve sentirsi coinvolto criticamente in contesti antropologici esistenziali
della gente".
Nel passato hai avuto un ruolo di rilievo nella politica
amministrativa della nostra comunità, sei stato assessore all'urbanistica
della giunta del sindaco Gesuino Murru, la prima dopo l'autonomia. Già
da allora parlavi di "centro storico". Oggi dopo quasi venti anni quasi
tutti hanno capito l'importanza e il valore del "centro storico". A
cosa è dovuto un tale ritardo?
"Le novità non si colgono subito. Manca la capacità di
immaginare e di anticipare l'evoluzione dei tempi. Ci si accorge di
ciò solo quando il problema è impellente oppure quando ormai è diventato
di dominio pubblico e quindi di continua e generalizzata discussione.
Ho i miei dubbi sul fatto che tutti abbiano capito l'importanza
del "centro storico". Così penso che anche i nostri amministratori non
ne hanno colto il valore tant'è che ancora a Quartucciu non si è predisposto
il piano particolareggiato".
"Non c'è la capacità di ipotizzare qualcosa di diverso
perché manca l'utopia".
È una questione di cultura?
"Sì, di cultura e di valori.".