E' inutile provare a decifrare e dar senso alle
scritte enormi e variopinte che, quasi, invadono il nostro sguardo quando
passeggiamo o siamo in attesa che scatti il verde al semaforo...
Pare che trovino la loro origine nel sanscrito o nell'arabo, ma con
entrambe le lingue le strane lettere non hanno nulla a che vedere. Eppure
qualcosa dovranno pur significare, qualcosa indubbiamente bisbigliano,
dicono, urlano!
Sono i graffiti, quei grandi "monumenti" di colore che con prepotenza
occupano i muri delle città, dei paesi, delle periferie.
E'
il "teppismo colorato" che ormai ben accetto o, il più delle volte,
assolutamente detestato, se non addirittura aborrito, ricopre ponti,
muri grigi, stazioni ferroviarie, grandi caseggiati. Ovunque ci si giri,
con tacita rassegnazione degli uomini della sicurezza, o degli amministratori
comunali, si possono scorgere, con o senza disappunto, disegni e scritte
policrome.
Si tratta di teppismo nella sua forma più meschina o quelle (chiamiamole
con benevolenza) "grafologiche intemperanze" sono, come i quadri per
gli artisti "veri", semplicemente specchi che riflettono e ci raccontano
le emozioni, la vita di chi le ha tracciate?
Sono atti di puro vandalismo, o è un modo come un altro, per comunicare
col mondo? E' pura tendenza a distruggere, o è avvisaglia di un nuovo
tipo d'arte?
L'opinione
della gente è controversa. Molti sostengono che non riuscirebbero ad
immaginare quei muri se non così colorati; molti auspicano un inasprimento
delle sanzioni, oggi limitate ad una multa di 100.000 lire; molti sono
convinti che stiano deturpando gli ambienti e sperano in una resa dei
conti, per lo meno personale, giacché è stato imbrattato un muro di
loro proprietà...
Taluni sono però convinti che nel "pentagramma" di vernice, in cui
si percepiscono note apparentemente stonate, si possa cogliere un'armonia
a volte palpitante di vitalità, a volte intrisa di malinconia...
Una cosa è certa: il fenomeno dei graffiti urbani esiste, ed è ormai
dilagante; l'unico punto che ci resta è cercare di capire se sono solo
segnali di prepotenza ed inciviltà, o anche espressioni d'arte.
Sul banco degli imputati, del tribunale delle definizioni, sono i giovani.
Armati di bombolette spray, indossando felpe abbondanti, col cappuccio,
jeans larghi, lunghi cappellini di maglia che cadono sin sopra le spalle,
oppure portando quelli da baseball con visiera girata e abbassata alla
nuca, e con ai piedi scarpe da ginnastica (meglio se consunte all'eccesso!),
s'incontrano per commettere il "delitto" della pittura sui muri.
Complice è la notte.
Per
quanto questa pratica abbia la risultante di ricordare i ben noti "murales",
per ovvia affinità di luogo deputato, nella fattispecie i muri, tuttavia
ritrovano le loro origini in ambienti, situazioni e culture diverse.
Mentre i "murales" sono un genere dell'arte più marcatamente storica,
raffigurante il più delle volte episodi bellici ed eventi tradizionali
del popolo del paese che li ospita, realizzati con tecniche di pittura
particolari, i graffiti, o per meglio chiamarli col loro nome proprio,
i "bombings", prendono piede a New-York, nei primi anni '70.
Sui muri grigi e scrostati delle fabbriche o degli edifici abbandonati
dei ghetti "neri", incominciarono a comparire scritte enormi, dalle
lettere panciute, disegni aggressivi come un urlo di rabbia. Era la
voce dei ragazzi emarginati dal razzismo. Era il segnale della cultura
"hip-hop", difficile da definire, ma che parla con la musica "rap",
si muove con la "break-dance" e si manifesta con l'arte "spray".
La
medesima cultura, con le sue problematiche e i suoi tentativi di esternarle,
ha trovato terreno fertile presso di noi, nelle grandi metropoli, come
nelle città, in una società ormai massificata e massificante, in cui
molta edilizia popolare presenta un tono cupo e tutt'altro che favorevole
ad una vita serena.
Nella nostra realtà così densa di contraddizioni, nell'insoddisfazione
generale, parte soprattutto dai giovani l'esigenza dell'esperienza dell'informale,
ed anche, se vogliamo, del trasgressivo.
In questo contesto di incomprensione e di nuova emarginazione, i giovani
sono coloro i quali ne risentono di più, che non riescono a trovare
il bandolo della matassa di un'esistenza "grigia".
E'
qui che nasce la loro voglia di coprire il muro di "macchie" di colori,
di ghirigori, di disegni, di spruzzate di colore violento, quasi ad
esprimere un dramma irrisolto. Intendono gridare a tutti che esistono,
pur nell'indifferenza che li circonda.
Se l'arte è espressione plastica dell'interiorità dell'uomo, la parete
è per loro come una tela enorme, dove denunciare la propria solitudine,
o il foglio di un libro gigante, dove palesare il proprio disorientamento
in tempi che poco offrono a chi muove i primi passi nel mondo dei "grandi".
Molti
disegni, ma soprattutto molte scritte, sono frutto di una seria ricerca
estetica, con lettere talmente evolute ed elaborate da risultare incomprensibili
anche ad un lettore attento.
Ma forse è proprio questo loro modo criptico di scrivere che manifesta
l'intento di dichiararsi, di denunciare, ma in maniera originale, di
proposito non omologata.
E' evidente la loro coscienza artistica, se così si può definire, materializzata
nei loro immancabili nomi d'arte. La medesima coscienza artistica e
l'intento di rendere quanto più possibile nota la propria "opera" realizzata
con lo spray, è confermata dal fatto che il luogo più ambito è quello
mobile e di grande visibilità dei vagoni dei treni.
Le scritte variopinte, oltre a rompere il grigiore del cemento, od
a lenire lo squallore di certi ambienti, assurgono talvolta ad una simbologia
intrisa di significati e messaggi positivi.
Se
qualche volta ci è dato, ahimè, di vedere che "untori" del pennarello
scrivano sui vetri dell'autobus, come sulle panchine, o nelle cabine
telefoniche, con l'intento fine a se stesso di "graffiare" e deturpare
gli ambienti con le loro scritte oscene, i "writers", cioè i graffitisti
"DOC", hanno delle regole civili ben precise. Prima di tutto non dipingono
su chiese, monumenti ed edifici d'importanza storica o sociale, rispettano
gli spazi, regalando la vivacità dei colori.
Si deve dunque distinguere la bomboletta selvaggia, quella senza limiti
del buon senso, violenta negli scritti, il più delle volte dallo slancio
razzista o semplicemente egoistico, con quella attraverso la quale invece
si possono scorgere valori veri, destinati a sfidare, con successo,
il tempo. Alla luce di ciò, non sarebbe il caso di punire i teppisti,
organizzando più rigorosi controlli e fissando multe più salate, e premiare
gli artisti, concedendo loro degli spazi sui quali dar estro alla propria
arte?
Viviana Ricci
sogabri@tiscalinet.it