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Quaderni di Quartucciu
Anno IV - Numero 18 - Luglio 2000
 
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PER QUANTO NOI CI
CREDIAMO ASSOLTI...

di Giorgio Ledda

Le recenti polemiche sull'opportunità di concedere un'amnistia, che arrivano a pochi mesi dai fatti di Sassari, hanno fatto tornare d'attualità la questione carceraria, argomento tipicamente carsico che riemerge puntualmente con l'arrivo della stagione calda.

Concedere o non concedere l'amnistia ad una decina di migliaia di detenuti è, per dirla con le parole di Guccini, “un fatto di clima” e non di giustizia". È evidente tuttavia che, per quanto ispirato da un sentimento di umanità, l'uso dell'amnistia quale strumento per ridurre l'affollamento delle carceri, ed il conseguente malessere di detenuti e agenti di custodia, rappresenta una palese ammissione di fallimento di tutta la gestione penitenziaria e in ultima analisi della giustizia, anche quando reso necessario al fine di prevenire le pericolose manifestazioni di malcontento dei primi e le vergognose reazioni dei secondi(-ni).

Si decide infatti di rimettere in libertà alcune migliaia di detenuti, non perché ci si è resi conto che il ricorso al carcere per alcuni comportamenti non è giustificato (droghe leggere), o perché si riesce finalmente a scarcerare gli innocenti con processi rapidi, o ancora perché si è capito che il carcere non è il luogo ideale per un malato terminale, ma semplicemente perché siamo incapaci di garantire il servizio; un po' come succede negli ospedali dove si rifiuta il ricovero perché non ci sono letti.

Di fronte ad una tale situazione viene spontaneo interrogarsi sul ruolo che le misure detentive svolgono nella società ed in quale modo esse possano essere ricondotte ad una pratica umana e sostenibile.

Carcere di CagliariOccorre a mio parere risalire al significato stesso della parola giustizia. In una concezione contrattualistica, dove le istituzioni traggono la loro legittimazione dall'adesione di individui liberi e uguali tra loro, che ad esse delegano la tutela delle loro esigenze fondamentali (la vita, la libertà, lo sviluppo, la proprietà), la Giustizia ha il compito di intervenire quando queste sono fatte oggetto di attacchi.

La prima cosa da fare, in presenza di una violazione delle regole, è impedire che continui. Subito dopo è necessario provvedere alla riparazione del danno. Successivamente è opportuno adottare le precauzioni affinché la violazione non si ripeta.

La punizione, intesa come espiazione della colpa e indice di un approccio etico, non trova posto in questo schema.

Se un bambino ruba una mela da un cesto e la sta mangiando, il fruttivendolo che lo sorprende si trova di fronte ad una scelta: o gli strappa la mela dalla bocca e gli da uno schiaffone, o lo porta per un orecchio dal genitore e pretende il pagamento della mela rubata.
Si trova a scegliere tra la punizione del reo e la riparazione del danno.
Nel primo caso interrompe la violazione, a suo modo cerca di evitare che si ripeta punendo il ladruncolo, ma non realizza la riparazione del danno. Nel secondo invece privilegia la riparazione del danno, disinteressandosi delle misure adottate per evitare che si ripeta.
Il risultato completo si otterrebbe solo se il genitore con un insieme di comportamenti vigilanti ed educativi, insegnasse al bambino che rubare non è giusto.

Proviamo ad interrogarci per verificare se il nostro sistema giudiziario privilegia la punizione o la riparazione.
Un ragazzo ruba un'auto e la danneggia, viene arrestato, processato, e condannato ad una breve reclusione; in carcere incontra ladri più capaci di lui, esce poco dopo per la gioia del derubato che può avere l'emozione di vederlo libero ed impunito mentre lui ha ancora la macchina danneggiata.
Quali risultati sono stati raggiunti?
A mala pena si è riusciti ad interrompere temporaneamente la violazione, il danno è rimasto e la probabilità che si ripeta è quasi sicuramente aumentata.

La privazione della libertà fine a se stessa non si rivela in generale uno strumento di giustizia, ma un aumento del danno. Il detenuto non ripara i danni che ha fatto, costa alla collettività e, a contatto con gli altri carcerati tende ad aumentare la sua propensione al crimine e a diminuire la capacità di inserimento nella società. Essa si renderebbe necessaria solo per individui socialmente pericolosi che rifiutano qualsiasi intervento di recupero.

Il lavoro, invece, con la sua capacità di produrre valore per pagare le spese di mantenimento del reo durante il periodo di rieducazione forzata e per risarcire il danno fatto, risulta sicuramente uno strumento più idoneo al raggiungimento della giustizia. Soprattutto dal punto di vista della prevenzione delle recidive.
Se c'è una possibilità che un ladro di auto capisca il significato del suo gesto è che lavori sino ad aggiustare quella che ha rotto e a comprarne una sua. Forse a quel punto non ripeterebbe l'errore.

Sicuramente uno dei limiti di una tale riforma è rappresentato dall'enorme quantità di risorse umane ed economiche necessarie alla sua realizzazione. Tuttavia bisogna tener conto che non tutte rappresentano nuovi impegni finanziari. Una parte potrebbe appunto autofinanziarsi con il prodotto dei lavori dei detenuti e con le minori spese derivanti dalla riduzione del numero di carceri convenzionali. Una parte di spese potrebbe essere evitata dal ricorso alla riconversione di strutture già esistenti da adattare a centri di rieducazione, invece di crearle ex novo.

Si pensi ad esempio all'intera struttura fino ad oggi dedicata all'espletamento del servizio di leva, ormai destinato a scomparire. Le caserme, strutture adattissime alla vigilanza delle persone, potrebbero, svuotate dalle armi, diventare centri di lavoro e di rieducazione. I militari, affiancati e rinfoltiti da personale specializzato (educatori, psicologi, animatori, formatori) costituirebbero a ben vedere già oggi una risorsa disponibile per realizzare una giustizia funzionante, se solo ci fosse la volontà di affrontare il problema in modo strutturale.

Alcuni segnali ci fanno ben sperare che qualcuno guardi oltre l'orizzonte del provvedimento tampone dell'amnistia.

Durante la sua recente visita in Sardegna il responsabile dell'amministrazione penitenziaria Giancarlo Caselli ha parlato di accelerare la realizzazione di un sistema carcerario a diversi livelli, differenziati per gravità dei crimini commessi e relativa pericolosità sociale.

Non ha fatto parola invece della partecipazione dei detenuti ai costi del sistema carcerario, un concetto forse tanto avveniristico da poter sembrare retrogrado e come tale da evitare attentamente.

 

Giorgio Ledda
giorgioledda@tiscalinet.it

 


 
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NELLA MIA ORA DI LIBERTÀ
di Fabrizio De Andre'

Di respirare la stessa aria
di un secondino non mi va
perciò ho deciso di rinunciare
alla mia ora di libertà

se c'è qualcosa da spartire
tra un prigioniero e il suo piantone
che non sia l'aria di quel cortile
voglio soltanto che sia prigione
che non sia l'aria di quel cortile
voglio soltanto che sia prigione.

È cominciata un'ora prima
e un'ora dopo era già finita
ho visto gente venire sola
e poi insieme verso l'uscita,

non mi aspettavo un vostro errore
uomini e donne di tribunale
se fossi stato al vostro posto...
ma al vostro posto non ci so stare
se fossi stato al vostro posto...
ma al vostro posto non ci so stare.

Fuori dell'aula sulla strada
ma in mezzo al fuori anche fuori di là
ho chiesto al meglio della mia faccia
una polemica di dignità

tante le grinte, le ghigne, i musi,
vagli a spiegare che è primavera
e poi lo sanno ma preferiscono
vederla togliere a chi va in galera
e poi lo sanno ma preferiscono
vederla togliere a chi va in galera.

Tante le grinte, le ghigne, i musi,
poche le facce, tra loro lei,
si sta chiedendo tutto in un giorno
si suggerisce, ci giurerei

quel che dirà di me alla gente
quel che dirà ve lo dico io
da un po' di tempo era un po' cambiato
ma non nel dirmi amore mio
da un po' di tempo era un po' cambiato
ma non nel dirmi amore mio.

Certo bisogna farne di strada
da una ginnastica d'obbedienza
fino ad un gesto molto più umano
che ti dia il senso della violenza

però bisogna farne altrettanta
per diventare così coglioni
da non riuscire più a capire
che non ci sono poteri buoni
da non riuscire più a capire
che non ci sono poteri buoni.

Adesso imparo un sacco di cose
in mezzo agli altri vestiti uguali
tranne qual'è il crimine giusto
per non passare da criminali.

Ci hanno insegnato la meraviglia
verso la gente che ruba il pane
ora sappiamo che è un delitto
il non rubare quando si ha fame
ora sappiamo che è un delitto
il non rubare quando si ha fame.

Di respirare la stessa aria
dei secondini non ci va
e abbiam deciso di imprigionarli
durante l'ora di libertà

venite adesso alla prigione
state a sentire sulla porta
la nostra ultima canzone
che vi ripete un'altra volta
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti.
Per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti.

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