PER
QUANTO NOI CI
CREDIAMO ASSOLTI...
di Giorgio Ledda
Le
recenti polemiche sull'opportunità di concedere un'amnistia, che arrivano
a pochi mesi dai fatti di Sassari, hanno fatto tornare d'attualità la
questione carceraria, argomento tipicamente carsico che riemerge puntualmente
con l'arrivo della stagione calda.
Concedere
o non concedere l'amnistia ad una decina di migliaia di detenuti è,
per dirla con le parole di Guccini, “un fatto di clima” e non di
giustizia". È evidente tuttavia che, per quanto ispirato da
un sentimento di umanità, l'uso dell'amnistia quale strumento per ridurre
l'affollamento delle carceri, ed il conseguente malessere di detenuti
e agenti di custodia, rappresenta una palese ammissione di fallimento
di tutta la gestione penitenziaria e in ultima analisi della giustizia,
anche quando reso necessario al fine di prevenire le pericolose manifestazioni
di malcontento dei primi e le vergognose reazioni dei secondi(-ni).
Si decide infatti
di rimettere in libertà alcune migliaia di detenuti, non perché ci si
è resi conto che il ricorso al carcere per alcuni comportamenti non
è giustificato (droghe leggere), o perché si riesce finalmente a scarcerare
gli innocenti con processi rapidi, o ancora perché si è capito che il
carcere non è il luogo ideale per un malato terminale, ma semplicemente
perché siamo incapaci di garantire il servizio; un po' come succede
negli ospedali dove si rifiuta il ricovero perché non ci sono letti.
Di fronte ad una
tale situazione viene spontaneo interrogarsi sul ruolo che le misure
detentive svolgono nella società ed in quale modo esse possano essere
ricondotte ad una pratica umana e sostenibile.
Occorre
a mio parere risalire al significato stesso della parola giustizia.
In una concezione contrattualistica, dove le istituzioni traggono la
loro legittimazione dall'adesione di individui liberi e uguali tra loro,
che ad esse delegano la tutela delle loro esigenze fondamentali (la
vita, la libertà, lo sviluppo, la proprietà), la Giustizia ha il compito
di intervenire quando queste sono fatte oggetto di attacchi.
La prima cosa da
fare, in presenza di una violazione delle regole, è impedire che continui.
Subito dopo è necessario provvedere alla riparazione del danno. Successivamente
è opportuno adottare le precauzioni affinché la violazione non si ripeta.
La punizione, intesa
come espiazione della colpa e indice di un approccio etico, non trova
posto in questo schema.
Se un bambino ruba
una mela da un cesto e la sta mangiando, il fruttivendolo che lo sorprende
si trova di fronte ad una scelta: o gli strappa la mela dalla bocca
e gli da uno schiaffone, o lo porta per un orecchio dal genitore e pretende
il pagamento della mela rubata.
Si trova a scegliere tra la punizione del reo e la riparazione del danno.
Nel primo
caso interrompe la violazione, a suo modo cerca di evitare che si ripeta
punendo il ladruncolo, ma non realizza la riparazione del danno. Nel
secondo invece privilegia la riparazione del danno, disinteressandosi
delle misure adottate per evitare che si ripeta.
Il risultato
completo si otterrebbe solo se il genitore con un insieme di comportamenti
vigilanti ed educativi, insegnasse al bambino che rubare non è giusto.
Proviamo ad interrogarci
per verificare se il nostro sistema giudiziario privilegia la punizione
o la riparazione.
Un ragazzo ruba un'auto e la danneggia, viene arrestato, processato,
e condannato ad una breve reclusione; in carcere incontra ladri più
capaci di lui, esce poco dopo per la gioia del derubato che può avere
l'emozione di vederlo libero ed impunito mentre lui ha ancora la macchina
danneggiata.
Quali risultati
sono stati raggiunti?
A mala pena si è riusciti ad interrompere temporaneamente la violazione,
il danno è rimasto e la probabilità che si ripeta è quasi sicuramente
aumentata.
La
privazione della libertà fine a se stessa non si rivela in generale
uno strumento di giustizia, ma un aumento del danno. Il detenuto non
ripara i danni che ha fatto, costa alla collettività e, a contatto con
gli altri carcerati tende ad aumentare la sua propensione al crimine
e a diminuire la capacità di inserimento nella società. Essa si renderebbe
necessaria solo per individui socialmente pericolosi che rifiutano qualsiasi
intervento di recupero.
Il lavoro, invece,
con la sua capacità di produrre valore per pagare le spese di mantenimento
del reo durante il periodo di rieducazione forzata e per risarcire il
danno fatto, risulta sicuramente uno strumento più idoneo al raggiungimento
della giustizia. Soprattutto dal punto di vista della prevenzione delle
recidive.
Se c'è una
possibilità che un ladro di auto capisca il significato del suo gesto
è che lavori sino ad aggiustare quella che ha rotto e a comprarne una
sua. Forse a quel punto non ripeterebbe l'errore.
Sicuramente uno
dei limiti di una tale riforma è rappresentato dall'enorme quantità
di risorse umane ed economiche necessarie alla sua realizzazione. Tuttavia
bisogna tener conto che non tutte rappresentano nuovi impegni finanziari.
Una parte potrebbe appunto autofinanziarsi con il prodotto dei lavori
dei detenuti e con le minori spese derivanti dalla riduzione del numero
di carceri convenzionali. Una parte di spese potrebbe essere evitata
dal ricorso alla riconversione di strutture già esistenti da adattare
a centri di rieducazione, invece di crearle ex novo.
Si pensi ad esempio
all'intera struttura fino ad oggi dedicata all'espletamento del servizio
di leva, ormai destinato a scomparire. Le caserme, strutture adattissime
alla vigilanza delle persone, potrebbero, svuotate dalle armi, diventare
centri di lavoro e di rieducazione. I militari, affiancati e rinfoltiti
da personale specializzato (educatori, psicologi, animatori, formatori)
costituirebbero a ben vedere già oggi una risorsa disponibile per realizzare
una giustizia funzionante, se solo ci fosse la volontà di affrontare
il problema in modo strutturale.
Alcuni segnali ci
fanno ben sperare che qualcuno guardi oltre l'orizzonte del provvedimento
tampone dell'amnistia.
Durante la sua recente
visita in Sardegna il responsabile dell'amministrazione penitenziaria
Giancarlo Caselli ha parlato di accelerare la realizzazione di un sistema
carcerario a diversi livelli, differenziati per gravità dei crimini
commessi e relativa pericolosità sociale.
Non ha fatto parola
invece della partecipazione dei detenuti ai costi del sistema carcerario,
un concetto forse tanto avveniristico da poter sembrare retrogrado e
come tale da evitare attentamente.
Giorgio
Ledda
giorgioledda@tiscalinet.it