Autonomia, motivazione e diversita'

Appunti in margine ad un corso di formazione

  

C'è un filo conduttore tra queste tre parole - un filo che vorrei cercare di fare emergere in questo mio breve contributo, e un filo, anche, che può aiutarci a ridefinire e a riqualificare i nostri interventi di formazione.

Di autonomia si parla spesso di questi tempi. Forse il dibattito sull'autonomia scolastica, dunque la valenza diciamo più istituzionale del concetto, ha messo un po' in ombra l'interesse che da anni ormai dimostra la ricerca pedagogica, e ancora di più la prassi didattica di molti insegnanti, per l'autonomia dello studente. Eppure a mio parere non è un caso che di autonomia si parli così spesso in contesti anche molto diversi: evidentemente si tratta di un concetto, di un valore, di un'idea che in qualche modo viene sentita come importante nella situazione che viviamo oggi, dentro e fuori della scuola.

 

Vorrei a questo proposito citare una mia esperienza personale. Molti anni fa, spronato innanzitutto dalle contraddizioni del mio lavoro quotidiano come insegnante, avevo cominciato ad occuparmi di abilità di studio, di metodo di studio, di strategie di apprendimento: di fronte agli insuccessi scolastici dei miei alunni mi era sembrato indispensabile spostare un po' il fuoco della mia attenzione dai prodotti, da quello che chiedevo loro di sapere e di saper fare, ai processi, cioè ai modi in cui loro sembravano imparare - o spesso, non imparare. Mi sembrava che non si potesse dare per scontato che sapessero, per dono di natura, prendere appunti, consultare un dizionario, tenere in ordine un quaderno. Ricordo però le resistenze che questo approccio suscitava in molti colleghi.

 

Ma il tempo passa, e col tempo è cresciuta la consapevolezza che la "questione del metodo di studio", come spesso viene chiamata tutta questa complessa problematica, è in realtà un nodo fondamentale, non solo per chi impara, ma anche per chi insegna. Soprattutto, però, si è andato chiarendo il concetto che saper studiare non è solo un insieme di tecniche o di tattiche per essere promossi o passare un esame: è di fatto un aspetto di una competenza più generale, una competenza che oggi è valutata e richiesta, non solo e non tanto come condizione del successo formativo a scuola, ma anche (e forse ben di più) come condizione di un inserimento e di un riadattamento continuo nella vita professionale e sociale.

 

Si sta riconoscendo che le abilità di studio sono solo la punta dell'iceberg di una competenza che abbraccia, al di là del sapere e del saper fare, un saper essere e un saper apprendere - con una formula in voga oggi, la capacità di "imparare a imparare".

 

Credo che allora sia chiaro il profilo di fondo di una persona che ha imparato a imparare: è il profilo della persona che è potenzialmente autonoma, cioè in grado, non certo di fare ciò che vuole indipendentemente dalle situazioni, ma, al contrario, di rispondere con flessibilità alle richieste e ai vincoli di contesti professionali e socio-culturali complessi e in continuo cambiamento.

 

Ma è possibile insegnare ad essere autonomi? O, detto in altre parole, in quest'epoca di forti cambiamenti anche strutturali, è possibile inserire nei curricoli un forte elemento trasversale di educazione all'autonomia?

 

Vorrei proporre alla riflessione solo un paio di punti che ritengo qualificanti per l'intera questione. Il primo riguarda gli studenti, il secondo riguarda gli insegnanti.

 

Il primo punto è un paradosso: imparare ad essere autonomi implica sicuramente una scoperta e una valorizzazione dei propri modi di essere, pensare, agire: come si può pensare, allora ad un insegnamento, per così dire, standardizzato dell'autonomia? Evidentemente, la parola "insegnare" in un contesto come questo non può significare, o non può significare soltanto, trasmissione di conoscenze e competenze.

 

Questo mi porta direttamente al mio secondo punto, cioè al possibile intervento da parte degli insegnanti. Vorrei di nuovo riportare una mia esperienza, questa volta come autore di libri di testo. Anni fa ho fatto lo sforzo di includere in un corso di lingua inglese un insegnamento esplicito di strategie di apprendimento: si trattava di una vasta gamma di strategie cognitive, come per esempio l'uso dell'inferenza o dell'associazione, e di strategie metacognitive, come ad esempio i modi concreti di pianificare, controllare e valutare il proprio lavoro, o l'uso delle risorse esterne. Queste strategie erano presentate direttamente agli studenti nel loro testo, ma erano anche messe a fuoco in modo esplicito nella relativa guida per l'insegnante. Ora, l'utilizzo del corso ha dimostrato chiaramente che non è sufficiente fornire agli studenti una serie di materiali, diciamo così, "strategici"; si è visto anche che non è nemmeno sufficiente richiamare l'attenzione degli insegnanti su questi materiali. E' necessaria una sensibilizzazione e una disponibilità degli insegnanti ad introdurre nella loro prassi didattica quotidiana un'attenzione non episodica, ma al contrario sistematica ed esplicita, per la tematica dell'imparare ad imparare, dell'imparare l'autonomia. Detto in altri termini, è necessaria una motivazione specifica da parte dell'insegnante.

 

Ecco dunque riapparire il nostro filo conduttore, che dalla parola "autonomia" ci ha portato alla parola "motivazione".

 

So di toccare con questa parola un coacervo di questioni delicate, e per questo vorrei limitarmi ad una semplice osservazione. Ormai sappiamo che la motivazione di un'insegnante non è più legata ai ruoli e agli status professionali e socioculturali di un tempo. Sento spesso colleghi dire che l'unico motivo di soddisfazione e di ricarica a scuola è il contatto con gli studenti, che pure, lo sappiamo bene, possono essere fonte inesauribile di tensioni e frustrazioni. Ma allora forse, se volessimo fare qualcosa per la motivazione degli insegnanti, forse potremmo ripartire proprio da lì, dal materiale umano coinvolto. Si potrebbe forse ripartire da una rivisitazione, per così dire, del ruolo che insegnante e studenti possono svolgere in quanto coinvolti insieme in un'esperienza comune. Forse può essere interessante e stimolante, una volta smessi gli abiti dell'insegnante trasmettitore di programmi e programmazioni, riscoprire se stessi come persone che imparano e contemporaneamente riscoprire gli studenti come persone che imparano anche grazie all'interazione con noi.

 

Faccio subito un esempio concreto che prendo dalle attività che ho svolto negli ultimi anni come formatore. Una richiesta pressante, anche se non sempre espressa in termini espliciti, di molti colleghi è quella di come fare a gestire processi di autonomia, dall'insegnamento di abilità di studio all'attivazione di strategie di apprendimento, in presenza di gruppi numerosi come sono quasi sempre le nostre classi. Quando si comincia a lavorare in queste direzioni, ci si scontra subito con un dato di fatto inquietante: come tener conto di tanti individui diversi? Come far fronte al fatto che io insegnante sono uno e loro sono trenta, ognuno con la propria testa? Qui in gioco la terza nostra parola chiave, la "diversità".

 

Questa preoccupazione, che non è solo di oggi naturalmente, da parte di molti colleghi mi ha spinto ad occuparmi in modo particolare di stili di apprendimento, delle differenze individuali nei modi di ricevere, elaborare e produrre informazioni. Non è difficile fare una mappa delle diversità, e oggi possediamo anche un bagaglio di ricerche e di strumenti operativi per rilevare queste diversità. Paradossalmente, però, la mia attenzione è stata attratta dalla relazione, che trovo assolutamente intrigante, tra stili di apprendimento e stili di insegnamento.

 

Riflettendo sui miei personali modi di imparare non ho potuto fare a meno di notare subito quanto questi influissero sui miei personali modi di insegnare. Faccio un esempio. Io sono un tipo tendenzialmente analitico, sistematico e riflessivo. Ho scoperto, o forse ho riscoperto, che queste mie caratteristiche condizionano molto la scelta e la gestione dei compiti e delle attività che svolgo come insegnante e come formatore. Questo è più che naturale, ma mi sono anche reso conto che in questo modo, mentre facilito l'apprendimento delle persone più simili a me, posso magari mettere in difficoltà o addirittura ostacolare le persone che invece hanno uno stile più globale, intuitivo e impulsivo. Insomma, per quanto animato dalle migliori intenzioni, il mio stile di insegnamento può portare sia a utili integrazioni sia invece a conflitti con gli stili di apprendimento delle persone con cui lavoro.

 

Ovviamente io, come molti colleghi, ho cominciato la mia carriera di insegnante riproducendo i modelli di insegnamento a cui ero stato  mia volta esposto come studente; o meglio, ho ritenuto che ciò che aveva funzionato per me come studente potesse funzionare anche per le classi in cui avrei lavorato come insegnante. La mancanza di una formazione iniziale non ha certo favorito la mia consapevolezza di questo tipo di variabili.

 

Ora, si potrebbe obiettare, e giustamente, che lo sviluppo dell'autonomia comprende anche la flessibilità di sapersi adattare a situazioni diverse, e quindi la flessibilità di trarre profitto da diversi stili di insegnamento. In altre parole, potremmo chiederci se debba essere l'insegnante ad adattarsi allo studente o piuttosto viceversa. Non credo però che il problema, posto in questi termini, possa avere una soluzione univoca.

 

Penso piuttosto che la dinamica del processo di insegnamento/apprendimento passi anche attraverso questo tipo di incontro/scontro, e cioè un aggiustamento continuo, la ricerca di un continuo equilibrio tra adattare i compiti allo studente e far adattare lo studente ai compiti.

 

La prima strada implica la necessità, da parte dell'insegnante, di assicurare varietà e flessibilità nelle sue proposte. La seconda strada implica invece uno sforzo di sviluppo di opportune strategie da parte dello studente - in altre parole, un rafforzamento della flessibilità dello studente.

 

Ma tutto ciò ha senso solo se si considerano sia l'insegnante che lo studente come individui con caratteristiche loro proprie, ossia se si sottolinea la diversità dei protagonisti non tanto, o non solo, come vincolo del contesto di apprendimento, ma anche e soprattutto come risorsa.

 

Ho personalmente constatato quanto la riflessione e la discussione sui propri stili e sulle proprie strategie di apprendimento e di insegnamento sia vissuto sia dagli insegnanti che dagli studenti come "scoperta" di qualcosa di nuovo, come rottura della "routine". E' un punto di partenza molto produttivo per riavviare un "circolo virtuoso", se così si può dire, di interesse, motivazione, disponibilità. Questo succede forse perchè, per una volta, le persone si sentono coinvolte innanzitutto in quanto persone con i loro potenziali individuali; perchè, una volta tanto, si sposta l'accento dai prodotti ai processi, dai ruoli standardizzati all'identità personale, dall'isolamento alla socializzazione e alla verbalizzazione; e forse anche perchè l'insegnante ritrova un ruolo di osservatore partecipe, esploratore, ricercatore, esperto, insomma, nella gestione di problemi e soluzioni.

 

Se volessimo, per concludere, riannodare i fili del discorso, potremmo nuovamente mettere in relazione le tre parole chiave da cui sono partito, e cioè autonomia, motivazione e diversità.

 

Penso che l'autonomia della scuola come istituzione sia l'ambiente necessario per far vivere al suo interno processi di parallela crescita in autonomia per chi ci lavora. Lavorare insieme per il successo formativo significa anche promuovere questa autonomia, ma questo non si può fare se non attraverso il riconoscimento delle diversità che stanno alla base di ogni crescita personale. Lavorare sulla diversità, di chi insegna come di chi impara, può essere uno dei canali attraverso cui recuperare la motivazione di chi vive nella scuola.

 

 

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