Sommario del capitolo 1º: "LINGUA, LINGUAGGI E INTERAZIONE TRA LINGUAGGI"
1. LINGUA, LINGUAGGI E INTERAZIONE TRA
LINGUAGGI
Introduzione al Capitolo 1º
1.1 Lingua e linguaggio
1.1.1 Definizione di "lingua" e "linguaggio"
1.1.2 Gli elementi costitutivi del linguaggio
1.1.3 Le funzioni del linguaggio
1.1.4 Lingue speciali
1.1.5 Lingue speciali e lingua comune
1.2 Interazione tra linguaggi
1.2.1 Natura e meccanismi
In questo capitolo introduttivo il discorso si articolerà in due parti: nel primo paragrafo, dopo una breve definizione di lingua e linguaggio, saranno analizzati gli elementi costitutivi e le funzioni del linguaggio. Infine si parlerà di lingue speciali e del loro rapporto con la lingua comune. Nel secondo paragrafo l'attenzione s'incentrerà invece sull'interazione tra linguaggi: la natura e i meccanismi dell'interferenza linguistica.
Cos'è la
lingua? È un problema che ha attirato l'attenzione degli studiosi di
ogni tempo. In ogni periodo culturale, infatti, si è giunti alle più svariate
teorie e si sono date risposte differenti su tale questione. Qui si cercherà
di proporre le considerazioni più importanti riguardo all'argomento.
La prima e ovvia risposta che ci viene in mente ponendoci tale domanda
è che la lingua è uno strumento che ci permette di comunicare. L'idea di
lingua, tuttavia, è ovvia solo all'apparenza. È ovvia in quanto
tutti sanno che cos'è una lingua. È un mezzo usato spontaneamente, in
modo naturale per raggiungere un determinato scopo (che può essere farsi
capire, esprimere determinate emozioni, informare, ecc.).
Ma al di là di questa semplicità fittizia, dietro al concetto di
lingua si nasconde una realtà ben più complessa. Tutti sanno che ogni lingua
è diversa da un'altra. L'inglese, il francese, il tedesco sono tutti esempi
di lingue diverse. Ognuno di noi parla una lingua e sà che c'è qualcuno che
ne parla una diversa. Eppure le lingue, nella loro diversità, hanno qualcosa
che le accomuna: si tratta di ciò che chiamiamo grammatica, ovvero
l'insieme e la precisa descrizione delle regole di una lingua. Tutte le
grammatiche delle lingue più diverse possono essere confrontate fra di loro:
"quale che sia il materiale di cui si occupano, ci sarà una prima parte sui
suoni e il modo di renderli per scritto, poi un capitolo sul nome, uno sul
verbo ecc.; per finire, eventualmente, con notizie sulla sintassi, sul modo
cioè in cui le varie "parti del discorso" si collegano tra loro nella
frase" (Cardona 1987, 18).
Dietro al concetto di lingua si nasconde, dunque, una realtà ben più
complessa. Si tratta quindi di dare una definizione precisa di "lingua", al
di là di ciò che, con questo termine, si intende nell'uso comune.
Definiamo lingua:
Un sistema di classificazione della conoscenza.
Un mezzo che rende possibile l'espressione–comunicazione e che permette, al di là delle differenze degli usi linguistici individuali, l'intercomprensione dei parlanti che appartengono alla stessa comunità linguistica.
La
comunità linguistica non è da ritenersi una realtà uniforme in
quanto, al suo interno, ci sono delle differenze a livello linguistico.
Tali differenze possono essere:
Di ordine diatopico: dovute a fattori geografici.
Di ordine diastratico: riguardanti fattori legati a differenze culturali.
Di ordine diafasico: dovute a fattori legati a diversi registri espressivi (lingua familiare, lingua solenne, lingua letteraria, ecc.).
Di ordine diamesico: dovute a fattori legati a differenze nell'uso di mezzi espressivi diversi (lingua scritta, parlata).
Inoltre
ognuno di noi, quando parla, utilizza la lingua in modo diverso, ossia in
modo del tutto personale e originale.
Strettamente legato a quest'ultima considerazione, sulle differenze a
livello del singolo individuo, è il problema del rapporto fra lingua e
linguaggio. Infatti, un'altra apparenza da svelare è l'idea che lingua e
linguaggio siano la stessa cosa. Per linguaggio si intende di solito
la facoltà di esprimere e di comunicare utilizzando codici umani o animali
per elaborare e trasmettere informazione.
Nell'uso comune si fa confusione tra lingua e linguaggio, ma, come
dice Cardona, la lingua, con la quale egli intende il "sistema di segni
astratto e convenzionale depositato nella coscienza dei parlanti", è ben
distinta dallo "atto concreto del parlare, momentaneo e individuale, soggetto
sì a leggi ma anche aperto a innovazioni e modificazioni" (Cardona 1988,
191).
Saussure (1916) distingue i due livelli del sistema astratto (codice,
competenza) e delle realizzazioni concrete (messaggi, esecuzioni) con la
famosa distinzione tra langue e parole, ossia il contrapporsi
tra lingua sociale e parlare individuale. La langue – che è il
sistema astratto, "potenziale", il codice comune a tutti i parlanti – si
contrappone alla parole, che non è altro che l'uso concreto,
"attuale", di tale codice da parte del soggetto nel suo parlare individuale.
La langue riguarda la collettività mentre la parole
l'individuo. Esiste quindi una distinzione tecnica tra la lingua,
considerata come sistema astratto e collettivo e il termine
linguaggio, inteso come facoltà della mente umana di usare codici
linguistici per l'espressione e la comunicazione. Con il termine
linguaggio si designa ogni varietà di lingua sociale (socioletto),
regionale (dialetto), individuale (idioletto). A questo uso si fa riferimento
in questo lavoro quando ci si riferisce al "linguaggio dei giovani".
Si può parlare, quindi, di "linguaggio" come di un atto
creativo, dove la creatività sta proprio nel modo personale di
esprimersi. Il linguaggio è tanto più creativo quanto più inimitabile e
personale, ossia, quanto più si allontana dal modo comune di esprimersi.
Per
comprendere meglio la struttura del linguaggio, che è molto complessa, le
diverse discipline linguistiche riconoscono in essa delle unità minime nelle
quali tale linguaggio può essere scomposto e delle regole che lo compongono.
La caratteristica delle lingue umane è la loro analizzabilità in elementi
costitutivi. Un discorso si articola in enunciati. Un enunciato è la sequenza
minima dotata di senso compiuto. Esso si analizza in unità componenziali
dotate di significato: i monèmi che possono essere lessicali
(lessèmi) o morfoligici (morfèmi). Ciascuna di tali unità si
può analizzare in unità componenziali di rango inferiore: i fonemi,
privi di significati lessicali ma dotati di valore relazionale.
Naturalmente queste combinazioni non avvengono in modo casuale,
altrimenti non avrebbero alcun significato, ma obbediscono a delle regole
precise, morfologiche e sintattiche: l'insieme di queste regole si chiama
grammatica.
L'esigenza di determinare con precisione un insieme di elementi
costitutivi del linguaggio, è strettamente collegata alla possibilità di
definire qualsiasi tipo di processo comunicativo. Su questa linea si trova la
ormai famosa formula di Harold Lasswell (1948) che afferma che per descrivere
efficacemente un atto comunicativo bisogna rispondere a cinque domande:
Chi dice.
Che cosa.
Attraverso quale canale.
A chi.
Con quale effetto.
Attraverso questi quesiti si analizzano gli elementi fondamentali che
costituiscono un atto di comunicazione: una fonte emittente, un
messaggio, il mezzo che lo veicola, l'audience a cui si
riferisce e, infine, gli effetti prodotti dalla comunicazione. Il
paradigma lasswelliano, che si riferisce all'analisi dei mass media, è
diventato un popolare e utile punto di riferimento nella spiegazione della
trasmissione e ricezione dei messaggi. È un approccio che descrive, in
modo semplice e concreto, il processo comunicativo, ma non senza difetti: la
formula appare infatti insufficiente sia a spiegare il processo di
comunicazione interpersonale, sia a dare un'esaustiva interpretazione delle
più complesse comunicazioni di massa. Essa, infatti, non tiene conto né si
chiede il "dove" e il "quando" dell'atto comunicativo. Manca completamente il
contesto in cui avviene l'atto comunicativo e qualsiasi fattore che si
interponga fra trasmissione e la ricezione messaggi.
Tale modello ha subito pertanto una revisione da parte di Denis
McQuail la quale afferma che "la scienza della comunicazione nel suo
complesso identifica una serie di domande, comune a tutti i livelli, alle
quali la teoria e la ricerca cercano di dare risposta" (McQuail 1994,
15–16).
Si tratta di cinque domande:
Chi comunica con chi (emittenti e riceventi).
Perché si comunica (funzioni e scopi).
Come avviene la comunicazione (canali, linguaggi, codici).
Su quali temi (contenuti, oggetti di riferimento, tipi di informazione).
Quali sono le conseguenze della comunicazione (intenzionali o non intenzionali).
Senza
addentrarci troppo nell'argomento, ci accorgiamo subito che, rispetto allo
schema lasswelliano, in questo "nuovo" modello non siamo più di fronte ad un
flusso comunicativo unidirezionale e senza possibilità di ritorno, ma
caratterizzato da un processo di feedback.
Esaminando più nel dettaglio i diversi momenti del processo
comunicativo, ci accorgiamo subito che gli elementi assolutamente
indispensabili, senza i quali non esisterebbe comunicazione, sono almeno
quattro: emittente e ricevente, che sono i due protagonisti
dell'atto comunicativo, il punto di partenza e quello di arrivo della
comunicazione (ossia colui che le dà inizio e colui che la riceve); il
messaggio, ossia l'oggetto di scambio di un atto comunicativo,
trasmesso attraverso un mezzo fisico che permette materialmente tale
trasmissione, detto canale. Queste sono le condizioni necessarie e
sufficienti perché si possa verificare un atto comunicativo. Ma gli elementi
costitutivi del linguaggio non si limitano a questi quattro. Per usare le
parole di Jakobson (1966, 8), "ogni atto linguistico implica un messaggio e
quattro elementi circostanziali: il trasmittente, il ricevente, il contenuto
del messaggio e il codice utilizzato" ma "per essere operante, il messaggio
richiede in primo luogo il riferimento a un contesto (il "referente,"
secondo un'altra terminologia abbastanza ambigua), contesto che possa essere
afferrato dal destinatario, e che sia verbale, o suscettibile di
verbalizzazione; in secondo luogo esige un codice interamente, o
almeno parzialmente, comune al mittente e al destinatario (o, in altri
termini, al codificatore e al decodificatore del messaggio); infine un
contatto, un canale fisico e una connessione psicologica fra il
mittente e il destinatario, che consenta loro di stabilire e di mantenere la
comunicazione" (Jakobson 1966, 185).
Secondo Jakobson ogni atto linguistico implica due processi
fondamentali di costruzione: il processo di selezione di alcune unità
linguistiche e quello della loro combinazione in unità linguistiche
più complesse. Ogni lingua è un sistema di segni convenzionali, che
comunemente si chiamano parole. In realtà le parole sono, in genere,
sintagmi (aggregati) di segni. Ogni segno è una sequenza di
fonemi che rimanda ad un contenuto di coscienza (significato) e che si
riferisce a qualcosa di extralinguistico (referente). Il segno serve a
significare qualcosa e, come tale, è un significante; esso, poi,
designa un contenuto che ci rappresentiamo nella nostra mente anche in sua
assenza. In questo senso il segno è un significato. Naturalmente in
una parola non si potrà mai scindere il significante dal suo significato, che
sono due facce della stessa medaglia. Ma, quando diciamo che la lingua è un
sistema di segni, ossia un insieme di unità funzionali in cui ogni
parte è in funzione del resto, intendiamo che, nell'atto del parlare, le
parole non si accostano né si sommano, ma si "organizzano".
Dunque è sbagliato considerare la lingua come una "somma" di elementi
o segni. Infatti quando parliamo non accostiamo un segno all'altro senza
rispettare alcun accorgimento, ma compiamo istantaneamente e spontaneamente
due operazioni mentali: la selezione e la combinazione. In
altri termini scegliamo, tra le parole che conosciamo, quelle che ci servono
(selezione) e poi leghiamo i segni l'uno all'altro in maniera tale da
esprimere compiutamente ciò che vogliamo dire (combinazione). In ogni atto
linguistico queste due operazioni sono di fondamentale importanza e
intimamente legate. Ogni volta che noi parliamo, facciamo una scelta,
decidiamo quali parole usare e quali no, le "selezioniamo", quindi le
"combiniamo" in proposizioni che, a loro volta, sono combinate in periodi.
Questa non è però da considerarsi una scelta libera e indipendente, a meno
che non si tratti di autentici termini di nuova formazione (neologismi).
Infatti, anche quando scegliamo le parole da usare, ci muoviamo sempre
nell'ambito di possibilità precostituite: in altri termini, le parole scelte
rientrano in ciò che Jakobson (1966, 24) chiama "patrimonio lessicale", che
sia l'emittente sia il ricevente (che fanno parte della stessa comunità
linguistica) hanno in comune.
Concludendo, la lingua è un sistema (e non una semplice
somma) funzionale di segni: di essa gli uomini si servono per
comunicare con coloro che parlano la loro stessa lingua, ossia che
appartengono alla stessa comunità linguistica.
Diverse
sono le ragioni e le finalità che si intendono realizzare attraverso la
comunicazione: con essa, infatti, si vuole semplicemente informare, oppure
comunicare il nostro stato d'animo. Si può indurre il destinatario a
convertirsi alla propria idea. Talvolta si indaga e si discute della lingua
stessa, la quale diventa oggetto del messaggio. Quando non si riesce a capire
ciò che l'emittente dice, il destinatario può chiedere di ripetere ciò che
l'emittente ha già affermato. Diversi sono dunque i tipi di messaggio poiché
diversi sono i fini di coloro che li codificano.
Nello spiegare le funzioni del linguaggio, ci si riferirà ad una
famosa suddivisione proposta da Roman Jakobson (1966, 186–191), secondo la
quale un messaggio può rivestire sei diverse funzioni: referenziale,
emotiva, imperativa, fàtica o di contatto,
metalinguistica, estetica o poetica. Il modello di
comunicazione linguistica proposto da Jakobson presenta una duplice
struttura: da una parte riconosce sei elementi costitutivi della
comunicazione linguistica (cfr. 1.1.2) e
dall'altra l'insieme delle funzioni prodotte da ciascuno di questi
elementi. Un messaggio può rivestire sei diverse funzioni ognuna delle quali
è orientata ad un diverso fattore:
La funzione referenziale o informativa (orientata al contesto) comporta il rimando ad un referente, che è l'oggetto extralinguistico cui fa riferimento il segno. In altri termini, l'emittente enuncia una notizia, cioè un dato di fatto oggettivo e indiscutibile. È la funzione prevalente di molti messaggi, soprattutto nei discorsi scientifici o espositivi. Il messaggio mira a denotare cose reali (ad es.: "Questa è una sedia" oppure "Oggi piove").
La funzione emotiva (orientata al mittente) "tende a suscitare l'impressione di una emozione determinata, vera o finta che essa sia" ed è evidente nelle interiezioni che "differiscono dai processi del linguaggio referenziale sia per la loro struttura fonica (sequenze foniche particolari o anche suoni insoliti in qualsiasi altro contesto), sia per la loro funzione sintattica (l'interiezione non è un elemento della frase, ma l'equivalente di una frase)" (Jakobson 1966, 186). Il messaggio che riveste tale funzione cerca di suscitare reazioni emozionali, oppure esprimere lo stato d'animo di chi lo ha emesso (ad es.: "Attento!" oppure "ahimè! Oggi piove").
La funzione imperativa o conativa (orientata verso il destinatario) si manifesta con l'imperativo e con il vocativo, per esprimere un comando o un'esortazione. Il mittente cerca di indurre il destinatario del suo messaggio a fare ciò che egli desidera. Gli parla per esortarlo, per convincerlo, per convertirlo a una sua idea (ad es.: "Esci di qui!", "Vota me!", "vattene!").
La funzione fàtica o di contatto (orientata al canale) tende a stabilire, prolungare o interrompere la comunicazione, ad accertare che il canale funzioni. Infatti, quando viene a cadere il contatto, o quando c'è qualcosa che disturba o ne impedisce la ricezione, il mittente e il destinatario non riescono più a sentirsi, per cui entrambi chiedono spiegazione dell'accaduto o si sforzano per farsi ascoltare. Tale funzione tende a ristabilire il contatto perso fra i due interlocutori (ad es.: "Pronto!", "Allora, mi ascolti?", "Bene, eccoci qui").
La funzione metalinguistica (orientata al codice) è tesa a verificare se mittente e destinatario utilizzano lo stesso codice. Con questa funzione il messaggio elegge a proprio oggetto un altro messaggio (ad es.: "L'espressione ‘esci da qui!' è un messaggio a funzione imperativa"). In altre parole, il messaggio metalinguistico si ha quando colui che parla svolge il suo discorso sulla lingua in relazione a ciò che essa vuol significare in una frase che possa risultare poco chiara all'ascoltatore che ne chiede chiarificazione.
Infine, la funzione estetica o poetica (orientata al messaggio in quanto tale) attira l'attenzione del destinatario sul messaggio. Tale funzione "mette in risalto l'evidenza dei segni, approfondisce la dicotomia fondamentale dei segni e degli oggetti" (Jakobson 1966, 190). Il messaggio è strutturato in modo ambiguo e si rivela così autoreferenziale, cioè rimanda solo a se stesso, e autoriflessivo, ossia, intende attirare l'attenzione del destinatario anzitutto sulla propria forma.
I
numerosi autori che si sono occupati di lingue speciali non hanno ancora
trovato una soluzione unanime riguardo alla scelta del termine adatto a
designare l'oggetto d'indagine. Sull'argomento esiste una vastissima
terminologia usata in modo diverso tra i vari studiosi. Le "lingue speciali"
vengono, infatti, chiamate sottocodici, linguaggi settoriali,
linguaggi tecnici, tecnoletti, gerghi,
microlingue, lingue di mestiere, linguaggi
specialistici. Si tratta di designazioni differenti che non sono state
distinte in modo preciso. Nonostante questa confusione cercheremo di definire
l'argomento tenendo presenti i lavori di Berruto (1997) e di Sobrero
(1997).
La classificazione di Berruto (1997) riguarda:
Le lingue speciali in senso stretto (ovvero i sottocodici): sono dotate di un lessico specifico, in quanto hanno un lessico "molto marcato in termini specialistici, designando in maniera assai tecnica concetti e oggetti esistenti solo nell'ambito disciplinare di riferimento" (Berruto 1997,156).
Le lingue speciali in senso lato (che sono i linguaggi settoriali): non possiedono un lessico specifico.
I gerghi veri e propri: possiedono, seppur in maniera minore, un lessico proprio specifico.
Berruto
elenca poi fra le lingue speciali anche due varietà presenti nel suo schema
sulla "architettura dell'italiano contemporaneo". Si tratta dello italiano
burocratico e dello italiano tecnico–scientifico che si trovano "a metà
fra le lingue speciali in senso lato e le modalità d'uso" (Berruto 1997,
166). Il primo è definito come "una varietà complessa, che unisce il
carattere di sottocodice (o di insieme di sottocodici) a quello di registro
formale" (Berruto 1997, 164); il secondo "condivide, in quanto registro
formale o molto formale, non pochi dei tratti evidenti nel linguaggio
burocratico, specie per quanto riguarda la sintassi e la testualità"
(Berruto 1997, 166).
Possiamo ora affiancare alla classificazione fatta da Berruto quella
di Sobrero (1997, 239) il quale distingue le lingue speciali in:
Lingue specialistiche
Lingue settoriali
Passando
a parlare di gergo, tale termine indica una "varietà linguistica
condivisa da un gruppo molto ristretto (di età, di occupazione) e parlata
quindi per escludere gli estranei dalla comunicazione e rafforzare il
sentimento di identità degli appartenenti al gruppo. Un g. è dato da una
stratificazione di arcaismi, neologismi, procedimenti metaforici ed altri
espedienti volti a rendere irriconoscibili le parole della lingua comune, o a
crearne nuove forme" (Cardona 1988, 150).
Spesso, come dice Berruto (1997, 163), il termine gergo "viene
usato metaforicamente o per estensione […] per designare una qualunque
lingua speciale (gergo dei politici, gergo della linguistica ecc.): tale uso
non fa che confondere ulteriormente le carte in tavola, in un settore già
così complicato com'è quello in cui ci muoviamo".
Il gergo va distinto dai linguaggi settoriali in quanto "dice" in modo
volutamente diverso ciò che potrebbe essere detto con la lingua comune.
Infatti, la differenza fondamentale fra gerghi e linguaggi
settoriali è che, mentre i primi vengono utilizzati soltanto all'interno
di un certo gruppo, i secondi sono rivolti anche ad un pubblico più
vasto.
La distinzione essenziale fra i due tipi linguistici è che i gerghi
hanno una funzione criptica e di contrapposizione; i linguaggi settoriali
invece sono più "aperti". Per fare un esempio è difficile conoscere il gergo
dei carcerati mentre alcuni termini provenienti dalla lingua della cronaca
sportiva sono conosciuti e usati non solo dagli "addetti ai lavori" (che
possono essere giornalisti specializzati, allenatori, ecc.) ma da tutti,
grazie soprattutto alla diffusione tramite i mass–media.
Come dice Cardona (1987, 24) "il gruppo ha bisogno di delimitare il
suo spazio sociale in tutti i modi e con tutti gli elementi di demarcazione
possibili. Tale demarcazione non avviene per irradiazione nel vuoto, ma per
delimitazione di un proprio, di un conosciuto rispetto ad un altro, un non
conosciuto".
Qui di seguito è riportato uno schema sulla classificazione delle
lingue speciali.
Classificazione | Esempi | Lessico Specifico | Finalità |
---|---|---|---|
Lingue Speciali in Senso Stretto (sottocodici) | l. della chimica l. dell'informatica l. di uno sport |
SI | tecniche e funzionali |
Lingue Speciali in Senso Lato (linguaggi settoriali) | l. critica letteraria l. riviste di moda l. del turismo l. della pubblicità* l. cronaca sportiva* l. degli oroscopi l. della politica* |
NO | di propaganda (indurre a certe azioni o trasmettere certe ideologie) |
GERGHI | g. di mestiere g. della malavita g. dei carcerati |
SI | fini criptici e di contrapposizione |
Tabella 1: Classificazione delle lingue speciali.
* tali lingue sono definite da Berruto più come "modalità d'uso" che come vere e proprie lingue speciali.
Tabella 1: Classificazione delle lingue speciali.
* tali lingue sono definite da Berruto più come "modalità d'uso" che come vere e proprie lingue speciali.
Interessante caratteristica delle lingue speciali è la presenza di internazionalismi: si tratta di termini presi dal lessico di altre lingue, in special modo dall'inglese. Per fare un esempio concreto, termini come formattare, mouse o floppy sono usati nel linguaggio settoriale dell'informatica; o ancora termini stranieri sono presenti nella lingua dello sport: dalla lingua del calcio mister, corner, gol; da quella del tennis set, game, smash; dall'automobilismo start, ecc. Si potrebbero elencare numerosi altri esempi. Come dice Berruto (1997, 154–155), "la larga circolazione dei termini tecnici e scientifici da una lingua all'altra, e il fatto che molte neoformazioni siano in effetti prestiti dal greco (come spinterogeno; in altri campi, ortodonzia, anemometro ecc.) o dal latino (ictus, "colpo apoplettico", in medicina), che cioè ci sia spesso una comune base classica, fanno sì che una buona parte della terminologia dei sottocodici sia di fatto internazionale". La fortuna del prestito è dovuta sia al fatto che esso permette la comprensibilità tra "specialisti" appartenenti a nazioni diverse, sia al fatto che esso gode di un certo rispetto in quanto "fa moderno".
In Italia
gli studi sulle lingue speciali si sono incrementati negli ultimi decenni.
Come abbiamo visto, esiste una vasta terminologia sull'argomento senza un
punto d'incontro. Manca una visuale d'insieme aggiornata.
Uno dei più importanti e interessanti temi oggetto di studi è quello
dell'interferenza fra lingue speciali e lingua comune, dove con quest'ultima
si intende una "varietà neutra, non marcata, sull'asse della variazione
diafasica di sottocodice" (Berruto 1997, 163). Esiste, ad esempio, un certo
rapporto fra la lingua comune e i linguaggi burocratico e
tecnico–scientifico. Infatti, alcuni termini di queste due lingue speciali
sono ormai entrati nell'uso comune. Il linguaggio burocratico a causa di "un
certo fascino celato dell'ufficialità" (Berruto 1997, 166). Invece,
l'influenza del linguaggio tecnico–scientifico sulla lingua comune, con "dosi
massicce di tecnicismi" è dovuta alla "relativa diffusione anche presso un
pubblico di massa di certe tecniche", ad una "crescente popolarità delle
scienze sociali e della psicologia" e allo "interesse per le questioni
economiche che giunge a fasce di cittadini di ogni ceto" (Berruto 1997,
168).
Esiste, dunque, un rapporto fra lingue speciali e lingua comune. Da
una parte si riscontra un certo travaso di termini dalla lingua comune alle
lingue speciali. Infatti come dice Sobrero (1997, 274) qualsiasi lingua
speciale "nasce dalle costole di una lingua, o di una varietà di una lingua,
già affermata: il latino, il greco, o l'italiano, o la nomenclatura tecnica
di arti e mestieri preesistenti, o una lingua straniera […] Il processo di
osmosi è così diffuso e radicale che per molti termini specialistici la
provenienza dalla lingua comune non è più avvertita: frizione e
candela provengono dalla lingua comune, ma ormai sono considerati
termini specialistici della meccanica automobilistica". Dall'altra esiste, ed
in maniera ancora più rilevante, un certo flusso inverso, dalle lingue
speciali alla lingua comune, veicolato dai mass media, e, in particolare,
dalla televisione. Termini, prima conosciuti esclusivamente dagli "addetti ai
lavori" (medici, scienziati, ecc.), sono entrati nell'uso comune. Infatti,
non sempre il linguaggio settoriale riguarda una comunità di specialisti. Per
fare un esempio, un testo di tipo divulgativo (come quello di uno psicologo
che parla in una trasmissione televisiva) può essere rivolto dallo
specialista del settore alla gente comune che, in tal modo, entra in contatto
con una terminologia prima di allora completamente sconosciuta. In questo
modo "il linguaggio settoriale, che si era per così dire ritagliato uno
spazio nella lingua comune, si era tecnicizzato e perciò stesso alquanto
distanziato da essa, restituisce alla lingua comune una parte della propria
terminologia e, bene o male, delle conoscenze" (Bruni 1987, 117).
Talvolta molti termini "tecnici" entrano nell'uso comune perché sono
diventati "di moda": un esempio in questo senso è fornito dal linguaggio
della psicanalisi che è entrato, volgarizzandosi, nella lingua comune proprio
grazie alla fama goduta da tale disciplina. Oggi si usano comunemente termini
quali nevrotico, complessato, isterico, complesso
(per es. di inferiorità), depressione, fobia,
frustrazione, inconscio, inibizione, nevrosi,
ossessione, paranoia, psicosi, suggestione,
ecc.. La lingua comune ha, per così dire, "rubato" del materiale non soltanto
al linguaggio della psicanalisi ma anche ai diversi linguaggi settoriali. In
Beccaria (1973, 19–21): fare una rapida carrellata/un primo piano/una
panoramica (dalla lingua del cinema); disintegrare (dalla lingua
della fisica atomica); avanguardia o sparare a zero (dalla
lingua militare); atrofia di un ufficio statale, sistema capillare
di credito, paralisi, collasso (dalla lingua della
medicina); cambiamento di rotta (dalla lingua dell'aeronautica);
conferenza, incontro al vertice, spirale
inflazionistica (termini che il linguaggio socio–politico prende in
prestito da quello della geometria). Inoltre bisogna dire che molti dei
termini tecnici provenienti dai linguaggi settoriali sono usati nel parlato
comune in quanto "di prestigio".
Oltre al rapporto fra linguaggi settoriali e lingua comune, esiste
anche un determinato rapporto fra i gerghi e la lingua comune. Tale rapporto
è essenzialmente di dipendenza dei primi nei confronti della seconda. I
gerghi, infatti, sono considerati "subalterni" e "parassitari" in quanto
sistemi dipendenti dalla lingua comune, "di cui stravolgono il lessico o
mediante operazioni semantiche […] o mediante meccanismi del significante […]
senza intaccarne in nulla la fonologia e la morfosintassi" (Berruto 1997,
158). Il gergo è definito "linguaggio parassita o parziale
perché non consiste generalmente che in un lessico e perché questo lessico è
solo parzialmente il linguaggio di coloro che lo usano" (Beccaria 1973, 33).
Il gergo è qui visto non come una forma indipendente e differenziata dal
linguaggio comune ma come un suo parassita. Per Beccaria (1973, 41) "se i
linguaggi settoriali sono vitalissimi nel corpo della lingua, di sempre
maggiore espansione e prestigio, i gerghi, relegati ai margini della lingua,
non operano che una episodica incidenza nella lingua dell'uso".
Il rapporto fra lingue speciali e lingua comune è quindi, come abbiamo
visto, di reciproca influenza. Molti dei tecnicismi propri delle lingue
speciali possono entrare nell'uso quotidiano (ad es. schizofrenico).
E non è raro che accada il contrario: una lingua speciale può assorbire
termini derivanti dalla lingua comune (ad es. candela).
Dal
momento che in questa trattazione il filo conduttore sarà il rapporto fra
lingua della pubblicità e lingua dei giovani, ci sembra opportuno dare una
definizione del concetto di interferenza linguistica, seppure in
maniera sommaria. In questa sede ci si propone solamente di definire cosa sia
l'interferenza fra lingue (qual è la sua natura), quando e come avviene (i
meccanismi che la determinano), quali concetti sono ad essa legati.
Per interferenza linguistica si intende comunemente gli insiemi
degli effetti del contatto di una lingua con un'altra lingua. Il fenomeno
comporta "l'emergere momentaneo, in un punto qualsiasi, di una variazione
(lessicale, fonologica, morfologica, grafica) dovuta alla compresenza e
all'influsso di un altro codice, con il quale si crea una sorta di
cortocircuito" (Cardona 1988, 174). Può giungere anche alla "commutazione di
codice" nel singolo parlante e perfino alla "sostituzione" di lingua in
un'intera comunità.
Strettamente collegati al fenomeno dell'interferenza linguistica sono
i concetti di contatto, prestito, calco,
integrazione, acclimatamento e prestigio linguistico,
concetti che definiremo man mano che ci occuperemo di tale fenomeno.
Perché ci sia interferenza linguistica c'è bisogno innanzitutto che
avvenga un contatto. Definiamo, con Cardona, contatto "la
situazione in cui interagiscono più comunità di lingue differenti, con
conseguenti fenomeni di interferenza, nascita di nuove varietà linguistiche
(Õ pidgin) ecc." (Cardona
1988, 86).
Altro concetto strettamente legato all'interferenza linguistica è
quello di prestito che riguarda "qualsiasi fenomeno d'interferenza,
connesso cioè col contatto e col reciproco influsso di lingue diverse, ove
per ‘lingue' si dovrebbero intendere non solo quelle letterarie, nazionali e
così via, ma anche quelle individuali, proprie di ciascun parlante. Infatti
l'arricchimento di una qualsiasi tradizione linguistica sotto l'influsso di
un'altra costituisce un caso di prestito: e quindi, a ben guardare, tutto il
patrimonio di cui si compone una lingua individuale è dovuto a prestito, in
quanto è stato appreso attraverso l'imitazione di un'altra lingua individuale
(quella dei genitori, dei compagni di giochi ecc.)" (Gusmani 1997, 9).
Il prestito va distinto in prestito di necessità e prestito
di lusso. Il primo si ha "nei casi in cui nella lingua vengono introdotti
contemporaneamente sia un significato che un significante prima sconosciuti
(sputnik, canguro, surf)"; il secondo riguarda invece i
"casi in cui per referenti già noti si adotta un segno estraneo […] di cui
interessano proprio le connotazioni di estraneità: maquillage,
fard, know–how ecc." (Cardona 1988, 245). Tale distinzione
riguarda le motivazioni che spingono al prestito. Infatti gli stimoli che
spingono l'individuo a ricorrere al prestito sono proprio "la necessità di
trovare una contropartita linguistica alle sempre nuove esperienze" (è il
caso del prestito di necessità), oppure "l'esigenza di adeguare i
mezzi offerti dalla lingua ai particolari bisogni espressivi" (Gusmani 1997,
13); è il caso del prestito di lusso.
La fenomenologia del prestito, una volta istituitosi il contatto fra
lingue, si manifesta come imitazione. Tale imitazione del modello
straniero può essere di vari tipi: 1. imitazione molto fedele (ad es. la
parola jet che è stata perfettamente riprodotta in italiano dalla
lingua inglese); 2. imitazione parzialmente fedele, in cui il modello
straniero si è adattato alle strutture indigene (ad es. la parola italiana
gol che in inglese è scritta goal); 3. imitazione fatta "con
elementi preesistenti nel sistema della lingua in questione, richiamati dalla
sola affinità semantica (it. grattacielo sull'ingl.
sky–scraper)" (Gusmani 1997, 12); 4. imitazione riguardante il
"semplice allargamento del campo semantico di una parola indigena" come nel
caso di angolo che "prende il significato tecnico sportivo dall'ing.
corner" (Gusmani 1997, 12). Questi due ultimi tipi vengono spesso
chiamati calchi più che prestiti. Il calco è un "procedimento in cui
una parola o espressione di una lingua B viene resa fedelmente con materiali
della lingua A" (Cardona 1988, 61). Si tratta di "forme più raffinate e anche
meno palesi di prestito" (Gusmani 1997, 12).
Abbiamo detto cos'è un prestito; ma quand'è che possiamo dire che esso
sia reale e che sia avvenuta effettivamente interferenza linguistica?
È facile, infatti, attribuire erroneamente tale etichetta a qualsiasi
termine abbia una certa somiglianza con un'altra lingua. Ecco perché bisogna
distinguere tra prestiti autentici e prestiti apparenti.
Rientrano in quest'ultima categoria i cosiddetti falsi esotismi, ossia
"parole che hanno tutto l'aspetto di forestierismi o sono addirittura
identiche, in apparenza, ad un termine straniero, ma che in realtà sono state
create indipendentemente da un preciso modello. Che non si sia in presenza di
un genuino fenomeno di prestito è dimostrato o dall'assenza di un eventuale
corrispondente nella lingua straniera o, se questo esiste, dal fatto che esso
ha un significato affatto diverso" (Gusmani 1997, 106). In italiano termini
quali ad esempio footing o bloc–notes fanno parte di questa
categoria.
I falsi esotismi non sono gli unici tipi di prestiti apparenti.
Rientrano in questa definizione anche quelli che Gusmani chiama prestiti
decurtati. Si tratta di termini inglesi composti, che sono entrati nella
lingua italiana in modo abbreviato, ossia grazie all'eliminazione del secondo
elemento sentito come troppo lungo.
Oltre al caso di prestiti che sembrano tali ma in realtà non lo sono
(detti appunto apparenti), vi è anche il caso contrario, in cui taluni
termini non sembrano prestiti ma in realtà lo sono. Si potrebbe chiamarli
degli "apparenti non–prestiti". Si tratta dei cosiddetti prestiti
camuffati, ossia di termini che "non avendone affatto l'aria, devono la
loro creazione a veri e propri fenomeni d'imitazione di modelli stranieri"
(Gusmani 1997, 117).
Dal momento che la somiglianza soltanto apparente con una lingua
straniera non garantisce sufficientemente che esso sia un forestierismo,
quale criterio bisogna utilizzare per identificare un prestito? Possiamo
definire prestito solamente "quegli elementi che una lingua […] ha
effettivamente modellato su un'altra. È necessario dunque provare o
almeno rendere plausibile il rapporto storico di dipendenza tra l'elemento in
questione e il modello straniero, escludendo per esempio che possa trattarsi
di creazione indipendente" (Gusmani 1997, 10). Se non esiste un rapporto di
dipendenza, reale e provato, non si può in nessun modo parlare di prestito.
Alla base dell'esistenza stessa del prestito ci deve essere dunque un
contatto fra due lingue, l'esistenza di un modello straniero e
la reale imitazione.
È facile, pensando al concetto di "interferenza" fra due
lingue, ritenere che l'una "ceda" e l'altra "prenda". In realtà le cose non
stanno esattamente così. La lingua da cui proviene il prestito non cede ma
"offre" un modello. Ciò significa che il prestito non va considerato come un
"passaggio di ‘materia' linguistica da una tradizione all'altra" (Gusmani
1997, 18) ma come semplice imitazione del modello offerto. Il modello
straniero viene "offerto" (e non ceduto) a chi lo "imita" (e non lo prende).
Non c'è, dunque, nessun tipo di atteggiamento passivo da parte di chi offre
il modello; e non c'è passività neanche in chi lo imita. Bisogna dire,
infatti, che, nel processo di assimilazione, la lingua indigena fa sentire il
proprio influsso sul prestito. Il prestito va quindi visto come una
"manifestazione della ‘attività' di una lingua" (Gusmani 1997, 15). Esso
rappresenta una "risposta" attiva della lingua alle sollecitazioni e agli
influssi provenienti da un'altra lingua.
Un'altra facile ma erronea conclusione è quella di considerare il
prestito come un "corpo estraneo". Esso non lo è in nessun modo poiché "una
volta entrato a far parte del patrimonio di una lingua" esso "non si
differenzierà più dalle altre componenti dello stesso patrimonio: esso
rivelerà la sua origine solo allo storico della lingua, in grado di
percorrere a ritroso le vicende delle parole, ma sul piano sincronico
funzionerà come qualsiasi altro elemento presente da tempo immemorabile nella
stessa tradizione linguistica" (Gusmani 1997, 16).
Il prestito subisce un processo di graduale adattamento semantico e
formale in quanto "stabilisce sempre una rete, per quanto modesta, di
relazioni con la struttura linguistica in cui è inserito e finisce quindi con
l'ambientarsi, cioè col diventare parte costitutiva del patrimonio lessicale
del sistema" (Gusmani 1993, 24). Tale processo viene chiamato
acclimatamento la cui misura è data "non dagli aspetti formali, bensì
dall'uso che ne fa il parlante: quanto più egli si familiarizza col
neologismo, tanto più quest'ultimo risulterà acclimatato". Esso, "che è un
fatto che riguarda unicamente la sfera lessicale" e che "può non comportare
alcuna sensibile alterazione", va distinto dalla cosiddetta
integrazione che viene definita come "l'influsso esercitato dalla
lingua ricevente nello sforzo di adeguare il termine di tradizione straniera
alle sue strutture fonematiche, morfologiche ecc." (Gusmani 1997, 25).
Nonostante la distinzione, questi due fenomeni fanno parte, insieme, del
processo di assimilazione, procedendo, spesso, di pari passo. Grazie ad essi
la tradizione indigena fa sentire il suo influsso.
Un altro concetto molto importante legato al tema che stiamo trattando
è quello di prestigio linguistico. Infatti quanto più un termine
straniero è "prestigioso" per il parlante, tanto più difficile e ostacolata
sarà la sua assimilazione. Se chi compie il prestito conosce bene la lingua
straniera, tenderà a ricorrere al calco o a riprodurre il più fedelmente
possibile il modello. Se invece a compiere il prestito è un parlante che non
conosce l'altra lingua, la pressione assimilatrice delle strutture indigene
sarà più forte.
Riassumendo:
L'interferenza linguistica è un processo linguistico attivato dal contatto fra due lingue legate da un rapporto mimetico e in cui entrano in gioco diversi fattori: il parlante che compie il prestito, che innova; il modello straniero cui il parlante si ispira e che imita; e infine il sistema linguistico in cui avviene l'innovazione.
Il processo dell'interferenza linguistica, di cui il prestito è il risultato finale, è un processo attivo nel quale la lingua straniera offre (e non cede) un modello che verrà attivamente imitato (e non preso) da un'altra lingua attraverso i meccanismi che abbiamo sopra esaminato.
Infatti, ciascuno, da bambino, impara una lingua a partire dal nucleo di “socializzazione primaria” (famiglia). La lingua è quindi uno strumento che ognuno di noi acquisisce, apprende e possiede; un’esigenza naturale cui, nella vita di tutti i giorni, non si può fare a meno, quasi come nutrirsi, bere o dormire. Questo perché sin dalla nostra nascita siamo inseriti in una vita di relazione.
A situazioni diverse corrisponderanno modi di esprimersi o registri linguistici differenti. Cambierà il modo di parlare a seconda del destinatario della comunicazione, del contenuto della comunicazione, del fine che si intende raggiungere con la comunicazione: un adolescente all’interno del suo gruppo di amici parlerà in maniera del tutto differente rispetto a come parla in classe davanti ad un professore. Esso parlerà in modo diverso parlando di sport, di politica, di musica ecc. e si esprimerà in maniera diversa a seconda del fine che vuole raggiungere (informare, persuadere ecc.).
Il codice può essere umano e animale. Rispetto a quello degli animali il codice umano può essere verbale e non. Quando tale codice è umano, verbale e storicamente delimitato, si parla di lingua.
Oltre alla grammatica gli elementi fondamentali del linguaggio sono la fonologia, che riguarda i suoni usati per esprimere le parole; la sintassi, che si occupa delle regole per combinare fra loro suoni e significati e la semantica, che studia i significati delle parole. La grammatica può essere considerata come l’insieme delle regole che coordinano fonologia, sintassi e semantica.
Vedremo in seguito (cfr. 2.2.2) come tale modello sia limitato anche per interpretare la comunicazione pubblicitaria.
Come avremo modo di vedere più avanti, tale funzione è fra quelle più utilizzate nei messaggi pubblicitari (cfr. 2.2.2). Molti messaggi pubblicitari, infatti, si presentano spesso sotto forma di messaggi informativi mentre, in realtà, sono messaggi imperativi, in quanto vogliono indurre a comprare un determinato prodotto.
Il modello tradizionale del linguaggio era un modello triadico, ossia limitato a queste tre funzioni (cfr. Jakobson 1966, 188).
Il messaggio fatico può sembrare suscitare emozioni ma in realtà intende solo confermare il contatto tra i due interlocutori (come, ad esempio, gli auguri).
Come ci fa ben notare Jakobson, la logica moderna distingue due tipi di linguaggio: “il “linguaggio oggetto”, che parla degli oggetti e il “metalinguaggio”, che parla del linguaggio stesso”. Ma il metalinguaggio non è uno strumento esclusivo dei linguisti: “noi mettiamo in pratica il metalinguaggio senza renderci conto del carattere metalinguistico del nostro operare” (Jakobson 1966, 189).
Berruto parla di “sottocodici”, ossia di “varietà diafasiche caratterizzate da un lessico speciale, in relazione a particolari domini extralinguistici e alle corrispondenti aree di significato. La loro funzione e il loro compito sono quelli di mettere a disposizione un inventario di segni per la comunicazione circa determinati argomenti e ambiti di esperienza e attività, in modo che questa sia il più possibile univoca, precisa ed economica, e quindi più efficace e funzionale riguardo a temi specifici”. La caratteristica fondamentale che distingue le lingue speciali è “un lessico specialistico, estraneo al tronco comune della lingua” (Berruto 1997, 154). Si tratta di un “vocabolario tecnico dei sottocodici” che egli chiama nomenclatura, termine composto dalle parole latine nomen “nome” e calare “chiamare”. Si tratta di un elenco di nomi dati in maniera precisa a determinati oggetti di una attività specifica (ad esempio della chimica o della meccanica). Berruto (1997, 154) fa l’esempio del linguaggio della medicina che “costruisce con il suffisso -ite i nomi di malattia designanti un’infiammazione acuta di un organo o apparato (artrite, faringite, osteite, nevrite) e con il suffisso -òsi i nomi di malattia designanti una condizione morbosa cronica di un organo o apparato (artrosi, osteosi, nevrosi […])”. Per un ulteriore approfondimento sulla nomenclatura cfr. Cardona 1988, 216.
Per Berruto “il lessico è specifico quando attiene al settore di cose oggetti attività specifiche del ramo cui si riferisce la lingua speciale” (Berruto 1997, 162).
Berruto (1997, 19-27) parla di “architettura dell’italiano contemporaneo”. Lo schema di Berruto (1997, 21) rappresenta nove varietà di italiano contemporaneo: 1. italiano standard letterario; 2. italiano neo-standard; 3. italiano parlato colloquiale; 4. italiano regionale popolare; 5. italiano informale trascurato; 6. italiano gergale; 7. italiano formale aulico; 8. italiano tecnico-scientifico; 9. italiano burocratico.
In tale classificazione di Sobrero, le lingue specialistiche corrispondono alle lingue speciali in senso stretto di cui parla Berruto. Mentre le lingue settoriali alle lingue speciali in senso lato.
Cardona (1988, 150) spiega che il termine gergo proviene dal termine francese jargon “in origine ‘cinguettio degli uccelli’ e poi ‘lingua incomprensibile’”.
Questo non vuol dire che con “linguaggi settoriali” dobbiamo intendere dei linguaggi altamente chiari e decifrabili. Secondo Berruto (1997, 157) “essi vengono usati anche per rivolgersi a pubblico estraneo alla cerchia interessata direttamente da quel linguaggio settoriale”.
Tale schema è stato fatto riprendendo, integrando e modificando gli schemi di Berruto (1997) alle pag.158 e 160.
Gotti (1991, IX) parla di internazionalismi come “termini mistilingui che utilizzano lessico di origine straniera, adattato in genere alla lingue riceventi secondo le regole fonologiche e morfologiche specifiche di tali lingue”.
Il termine mister è usato nel linguaggio calcistico in alternativa a “allenatore”, “direttore tecnico”.
Beccaria (1973, 11) ricorda: “contattare (ingl. to contact), disincentivare (ingl. to disincentive) […] la serie assai produttiva nel settore, degli aggettivi in -ale, direzionale (ingl. directional), previsionale (ingl. previsional) […] e gli aggettivi in -ivo (applicativo, collaborativo, partecipativo, competitivo)”.
Ad es. nella lingua della pubblicità vengono usati termini quali break, art director, copywriter, jingle, testimonial, ecc.
Oltre agli studi di Berruto (1997) e Sobrero (1997), si sono tenuti presenti anche i lavori sull’argomento svolti da Beccaria (1973) e quelli più recenti di Gotti (1991).
Sul concetto di interferenza linguistica cfr. Gusmani (1997). Di tale concetto si parlerà in 1.2.
Si tratta di due delle nove varietà dell’italiano contemporaneo di cui parla Berruto (1997, 19-27). Cfr. 1.1.4.
L’uso del linguaggio burocratico fa sentire, in un certo qual modo, importante chi lo parla. Nencioni (1982, 24-25) parla di un uso da parte dei giovani di un vocabolario specifico “in senso tecnico, paratecnico o burocratico […] e questo vocabolario specifico ma non professionale va diffondendosi non solo tra le persone colte”.
Su tale argomento è interessante la riflessione di Beccaria (1973, 16-17) che, parlando del rapporto fra linguaggi settoriali e lingua comune, sostiene che “le parole della tecnica e della scienza oggi si volgarizzano rapidamente; tra vocabolario comune e vocabolario tecnico si ergono sempre più esili barriere. Il progresso scientifico e tecnico gigantesco in questi ultimi anni ha portato, insieme alla coniazione di nuovi vocaboli, alla rapida divulgazione d’una gran massa di terminologia, diventata di dominio comune;[…]Un tempo la persona di media cultura conosceva poche parole scientifiche. Ora grossa parte continua a circolare nel chiuso dell’uso specialistico. Molto però si è volgarizzato, spesso banalizzato il socializzarsi del linguaggio psicanalitico di Freud ha appiattito vistosamente il discorso freudiano” (pp. 16-17).
Il linguaggio pubblicitario, come si vedrà in 2.2, sa sfruttare bene questa situazione facendo largo uso di tecnicismi per attirare l’attenzione con discorsi che “sembrano” più obiettivi e più onesti.
C’è chi non vede, oltre che nei gerghi, anche nelle lingue speciali delle proprie e originali caratteristiche che le distinguono dalla lingua comune: esse sono considerate separate dalla lingua comune e a un livello inferiore, prive di specificità formale. Come rileva Gotti (1991, 1) tale modo di pensare è di “tipo conservativo” e apparteneva agli studiosi della scuola di Praga che definivano la lingua speciale “di livello inferiore e nettamente separata dalla lingua comune”. Continua dicendo che le lingue speciali (soprattutto quelle in senso stretto) non vanno considerate, come avviene per i gerghi, come dei sistemi “parassitari” dal momento che esse possiedono una certa autonomia e indipendenza rispetto alla lingua comune: “le discrepanze esistenti tra i linguaggi specialistici e la lingua comune” sono “viste come indici di un fenomeno di marcatezza” (Gotti 1991, X). C’è, quindi, chi pensa che le lingue speciali siano lingue parassitarie che mancano di caratteristiche distintive e di specificità formale e c’è, invece, chi gli conferisce una certa autonomia e particolarità rispetto alla lingua comune. Chi vede in tali lingue (soprattutto nella loro eccessiva specificità e differenziazione dalla lingua comune) delle forme di comunicazione chiuse, “criptiche”, riservate a pochi “addetti ai lavori” e oscure e incomprensibili a molti, o, almeno, ai “non addetti”. Ma c’è anche chi nutre verso di esse un certo rispetto perché ritenute dotate di indiscusso prestigio.
L’espressione “commutazione di codice” vuole dire “il passaggio da un codice (livello, stile, registro) all’altro, o, in soggetti bilingui, da una lingua all’altra” (Cardona 1988, 77). Tale termine, in origine, si riferiva al sistema delle trasmissioni in codice soprattutto in guerra.
Il prestito, infatti, riguarda l’attività dei singoli individui: il diffondersi di qualsiasi tipo di innovazione “avviene proprio per prestito da una lingua individuale all’altra” (Gusmani 1997, 10).
Per fare un esempio il termine inglese week-end è stato reso in modo fedele con materiali della lingua italiana (finesettimana).
Il falso esotismo è definito da Cardona (1988, 125) come “una costruzione che non è effettivamente assunta in quanto tale da un’altra lingua”.
La parola italiana footing, infatti, non corrisponde nel suo significato a quella inglese che significa “basamento”; semmai gli inglesi utilizzano la parola jogging. La stessa cosa dicasi per bloc-notes che non corrisponde all’inglese note-block.
È il caso, ad esempio, di night (dall’ing. night-club) che in italiano significa “locale notturno” e in cui è stato eliminato il secondo elemento.
A questo proposito dice Gusmani (1997, 99-100): “determinanti restano la presenza di un modello alloglotto e la verisimiglianza che tra questi e il termine in questione intercorra un rapporto mimetico. Solo in circostanze particolari si potrà parlare, con un certo fondamento, di prestito pur in assenza del modello, e cioè quando questo possa venir presupposto sulla scorta di validi indizi e la sua mancata attestazione sia dunque da ritenersi casuale”. Non si può pretendere di identificare un prestito solo in base al suo aspetto esteriore: anche se “la struttura di una parola, la sua scarsa integrazione nel sistema e così via, possono essere indizi che ci si trova di fronte ad un prestito” tali indizi “non costituiscono in nessun modo un sicuro elemento discriminante […] la sostanza del prestito non sta nell’utilizzazione, all’atto della creazione del nuovo termine, di una certa ‘materia’ linguistica piuttosto che di un’altra, ma nel modo in cui questa è organizzata, conformemente cioè ad un modello straniero” (Gusmani 1997, 19-20).
Il termine prendere è inteso come “togliere, sottrarre ad un altro”.
Gusmani fa notare come al termine prestito si fa spesso corrispondere un atteggiamento passivo al contrario di calco inteso come “attiva ‘risposta’ della lingua agli stimoli e alle suggestioni provenienti da un’altra tradizione” (Gusmani 1997, 15).
E anche in questo caso il termine prestito sembra opporsi a quello di calco che “riproducendo il modello con materiale indigeno, verrebbe incontro proprio all’esigenza […] d’evitare l’immissione di elementi allogeni” (Gusmani 1997, 16).
Il prestito non è un elemento estraneo ma sa adattarsi al patrimonio linguistico in cui entra a far parte attraverso due differenti ma “complementari” aspetti del processo di assimilazione (integrazione e acclimatamento).
L’acclimatamento “può talora concernere solo un livello linguistico ben circoscritto (linguaggio tecnico, quello colto e così via)” e “può richiedere del tempo, soprattutto quando si tratti di termine originariamente ristretto all’uso tecnico e solo in seguito estesosi al linguaggio comune” (Gusmani 1997, 24-25).
In altre parole, un prestito può dirsi “integrato” quando si adatta completamente alle regole fonologiche e grafiche. Al contrario si parla di prestito “acclimatato” quando esso viene progressivamente assimilato senza un completo adattamento fonetico e grafico.
In altre parole avviene questo: in ambienti in cui si conosce bene la lingua straniera il modello sarà riprodotto in modo il più possibile fedele; in ambienti invece che conoscono poco o per niente la lingua straniera si farà sentire maggiormente l’influsso indigeno sul prestito. Più saranno forti la conoscenza di un termine straniero da parte di un parlante e il prestigio di cui esso gode ai suoi occhi, minore sarà l’influsso della tradizione indigena sul prestito.
Infatti riguardo a questo Gusmani (1997, 23) dice: “Il prestito è quindi il punto di arrivo di un processo non lineare, anzi particolarmente complicato, in cui si intrecciano in varia misura fattori differenti: influssi stranieri, spinte assimilatrici del sistema linguistico interessato dall’interferenza, scelte operate dal parlante”.
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