Linguaggi Giovanili e Pubblicità
1   Lingua, Linguaggi e Interazioni tra Linguaggi


1.toc   Sommario del Capitolo 1º "Lingua, Linguaggi e Interazioni tra Linguaggi"


  Sommario del capitolo 1º: "LINGUA, LINGUAGGI E INTERAZIONE TRA LINGUAGGI"

1. LINGUA, LINGUAGGI E INTERAZIONE TRA LINGUAGGI
Introduzione al Capitolo 1º
1.1 Lingua e linguaggio
1.1.1 Definizione di "lingua" e "linguaggio"
1.1.2 Gli elementi costitutivi del linguaggio
1.1.3 Le funzioni del linguaggio
1.1.4 Lingue speciali
1.1.5 Lingue speciali e lingua comune
1.2 Interazione tra linguaggi
1.2.1 Natura e meccanismi



  Introduzione al Capitolo 1º: "Lingua, Linguaggi e Interazioni tra Linguaggi"


In questo capitolo introduttivo il discorso si articolerà in due parti: nel primo paragrafo, dopo una breve definizione di lingua e linguaggio, saranno analizzati gli elementi costitutivi e le funzioni del linguaggio. Infine si parlerà di lingue speciali e del loro rapporto con la lingua comune. Nel secondo paragrafo l'attenzione s'incentrerà invece sull'interazione tra linguaggi: la natura e i meccanismi dell'interferenza linguistica.


1.1 - Lingua e Linguaggio


1.1.1 - Definizione di "lingua" e "linguaggio"


  Cos'è la lingua? È un problema che ha attirato l'attenzione degli studiosi di ogni tempo. In ogni periodo culturale, infatti, si è giunti alle più svariate teorie e si sono date risposte differenti su tale questione. Qui si cercherà di proporre le considerazioni più importanti riguardo all'argomento.
  La prima e ovvia risposta che ci viene in mente ponendoci tale domanda è che la lingua è uno strumento che ci permette di comunicare. L'idea di lingua, tuttavia, è ovvia solo all'apparenza. È ovvia in quanto tutti sanno che cos'è una lingua. È un mezzo usato spontaneamente, in modo naturale per raggiungere un determinato scopo (che può essere farsi capire, esprimere determinate emozioni, informare, ecc.).
  Ma al di là di questa semplicità fittizia, dietro al concetto di lingua si nasconde una realtà ben più complessa. Tutti sanno che ogni lingua è diversa da un'altra. L'inglese, il francese, il tedesco sono tutti esempi di lingue diverse. Ognuno di noi parla una lingua e sà che c'è qualcuno che ne parla una diversa. Eppure le lingue, nella loro diversità, hanno qualcosa che le accomuna: si tratta di ciò che chiamiamo grammatica, ovvero l'insieme e la precisa descrizione delle regole di una lingua. Tutte le grammatiche delle lingue più diverse possono essere confrontate fra di loro: "quale che sia il materiale di cui si occupano, ci sarà una prima parte sui suoni e il modo di renderli per scritto, poi un capitolo sul nome, uno sul verbo ecc.; per finire, eventualmente, con notizie sulla sintassi, sul modo cioè in cui le varie "parti del discorso" si collegano tra loro nella frase" (Cardona 1987, 18).
  Dietro al concetto di lingua si nasconde, dunque, una realtà ben più complessa. Si tratta quindi di dare una definizione precisa di "lingua", al di là di ciò che, con questo termine, si intende nell'uso comune.

  Definiamo lingua:

  1. Un sistema di classificazione della conoscenza.

  2. Un mezzo che rende possibile l'espressione–comunicazione e che permette, al di là delle differenze degli usi linguistici individuali, l'intercomprensione dei parlanti che appartengono alla stessa comunità linguistica.

  La comunità linguistica non è da ritenersi una realtà uniforme in quanto, al suo interno, ci sono delle differenze a livello linguistico.

  Tali differenze possono essere:

  Inoltre ognuno di noi, quando parla, utilizza la lingua in modo diverso, ossia in modo del tutto personale e originale.
  Strettamente legato a quest'ultima considerazione, sulle differenze a livello del singolo individuo, è il problema del rapporto fra lingua e linguaggio. Infatti, un'altra apparenza da svelare è l'idea che lingua e linguaggio siano la stessa cosa. Per linguaggio si intende di solito la facoltà di esprimere e di comunicare utilizzando codici umani o animali per elaborare e trasmettere informazione.
  Nell'uso comune si fa confusione tra lingua e linguaggio, ma, come dice Cardona, la lingua, con la quale egli intende il "sistema di segni astratto e convenzionale depositato nella coscienza dei parlanti", è ben distinta dallo "atto concreto del parlare, momentaneo e individuale, soggetto sì a leggi ma anche aperto a innovazioni e modificazioni" (Cardona 1988, 191).
  Saussure (1916) distingue i due livelli del sistema astratto (codice, competenza) e delle realizzazioni concrete (messaggi, esecuzioni) con la famosa distinzione tra langue e parole, ossia il contrapporsi tra lingua sociale e parlare individuale. La langue – che è il sistema astratto, "potenziale", il codice comune a tutti i parlanti – si contrappone alla parole, che non è altro che l'uso concreto, "attuale", di tale codice da parte del soggetto nel suo parlare individuale. La langue riguarda la collettività mentre la parole l'individuo. Esiste quindi una distinzione tecnica tra la lingua, considerata come sistema astratto e collettivo e il termine linguaggio, inteso come facoltà della mente umana di usare codici linguistici per l'espressione e la comunicazione. Con il termine linguaggio si designa ogni varietà di lingua sociale (socioletto), regionale (dialetto), individuale (idioletto). A questo uso si fa riferimento in questo lavoro quando ci si riferisce al "linguaggio dei giovani".
  Si può parlare, quindi, di "linguaggio" come di un atto creativo, dove la creatività sta proprio nel modo personale di esprimersi. Il linguaggio è tanto più creativo quanto più inimitabile e personale, ossia, quanto più si allontana dal modo comune di esprimersi.


1.1.2 - Gli elementi costitutivi del linguaggio


  Per comprendere meglio la struttura del linguaggio, che è molto complessa, le diverse discipline linguistiche riconoscono in essa delle unità minime nelle quali tale linguaggio può essere scomposto e delle regole che lo compongono. La caratteristica delle lingue umane è la loro analizzabilità in elementi costitutivi. Un discorso si articola in enunciati. Un enunciato è la sequenza minima dotata di senso compiuto. Esso si analizza in unità componenziali dotate di significato: i monèmi che possono essere lessicali (lessèmi) o morfoligici (morfèmi). Ciascuna di tali unità si può analizzare in unità componenziali di rango inferiore: i fonemi, privi di significati lessicali ma dotati di valore relazionale.
  Naturalmente queste combinazioni non avvengono in modo casuale, altrimenti non avrebbero alcun significato, ma obbediscono a delle regole precise, morfologiche e sintattiche: l'insieme di queste regole si chiama grammatica.
  L'esigenza di determinare con precisione un insieme di elementi costitutivi del linguaggio, è strettamente collegata alla possibilità di definire qualsiasi tipo di processo comunicativo. Su questa linea si trova la ormai famosa formula di Harold Lasswell (1948) che afferma che per descrivere efficacemente un atto comunicativo bisogna rispondere a cinque domande:

  1. Chi dice.

  2. Che cosa.

  3. Attraverso quale canale.

  4. A chi.

  5. Con quale effetto.

  Attraverso questi quesiti si analizzano gli elementi fondamentali che costituiscono un atto di comunicazione: una fonte emittente, un messaggio, il mezzo che lo veicola, l'audience a cui si riferisce e, infine, gli effetti prodotti dalla comunicazione. Il paradigma lasswelliano, che si riferisce all'analisi dei mass media, è diventato un popolare e utile punto di riferimento nella spiegazione della trasmissione e ricezione dei messaggi. È un approccio che descrive, in modo semplice e concreto, il processo comunicativo, ma non senza difetti: la formula appare infatti insufficiente sia a spiegare il processo di comunicazione interpersonale, sia a dare un'esaustiva interpretazione delle più complesse comunicazioni di massa. Essa, infatti, non tiene conto né si chiede il "dove" e il "quando" dell'atto comunicativo. Manca completamente il contesto in cui avviene l'atto comunicativo e qualsiasi fattore che si interponga fra trasmissione e la ricezione messaggi.
  Tale modello ha subito pertanto una revisione da parte di Denis McQuail la quale afferma che "la scienza della comunicazione nel suo complesso identifica una serie di domande, comune a tutti i livelli, alle quali la teoria e la ricerca cercano di dare risposta" (McQuail 1994, 15–16).

  Si tratta di cinque domande:

  1. Chi comunica con chi (emittenti e riceventi).

  2. Perché si comunica (funzioni e scopi).

  3. Come avviene la comunicazione (canali, linguaggi, codici).

  4. Su quali temi (contenuti, oggetti di riferimento, tipi di informazione).

  5. Quali sono le conseguenze della comunicazione (intenzionali o non intenzionali).

  Senza addentrarci troppo nell'argomento, ci accorgiamo subito che, rispetto allo schema lasswelliano, in questo "nuovo" modello non siamo più di fronte ad un flusso comunicativo unidirezionale e senza possibilità di ritorno, ma caratterizzato da un processo di feedback.
  Esaminando più nel dettaglio i diversi momenti del processo comunicativo, ci accorgiamo subito che gli elementi assolutamente indispensabili, senza i quali non esisterebbe comunicazione, sono almeno quattro: emittente e ricevente, che sono i due protagonisti dell'atto comunicativo, il punto di partenza e quello di arrivo della comunicazione (ossia colui che le dà inizio e colui che la riceve); il messaggio, ossia l'oggetto di scambio di un atto comunicativo, trasmesso attraverso un mezzo fisico che permette materialmente tale trasmissione, detto canale. Queste sono le condizioni necessarie e sufficienti perché si possa verificare un atto comunicativo. Ma gli elementi costitutivi del linguaggio non si limitano a questi quattro. Per usare le parole di Jakobson (1966, 8), "ogni atto linguistico implica un messaggio e quattro elementi circostanziali: il trasmittente, il ricevente, il contenuto del messaggio e il codice utilizzato" ma "per essere operante, il messaggio richiede in primo luogo il riferimento a un contesto (il "referente," secondo un'altra terminologia abbastanza ambigua), contesto che possa essere afferrato dal destinatario, e che sia verbale, o suscettibile di verbalizzazione; in secondo luogo esige un codice interamente, o almeno parzialmente, comune al mittente e al destinatario (o, in altri termini, al codificatore e al decodificatore del messaggio); infine un contatto, un canale fisico e una connessione psicologica fra il mittente e il destinatario, che consenta loro di stabilire e di mantenere la comunicazione" (Jakobson 1966, 185).
  Secondo Jakobson ogni atto linguistico implica due processi fondamentali di costruzione: il processo di selezione di alcune unità linguistiche e quello della loro combinazione in unità linguistiche più complesse. Ogni lingua è un sistema di segni convenzionali, che comunemente si chiamano parole. In realtà le parole sono, in genere, sintagmi (aggregati) di segni. Ogni segno è una sequenza di fonemi che rimanda ad un contenuto di coscienza (significato) e che si riferisce a qualcosa di extralinguistico (referente). Il segno serve a significare qualcosa e, come tale, è un significante; esso, poi, designa un contenuto che ci rappresentiamo nella nostra mente anche in sua assenza. In questo senso il segno è un significato. Naturalmente in una parola non si potrà mai scindere il significante dal suo significato, che sono due facce della stessa medaglia. Ma, quando diciamo che la lingua è un sistema di segni, ossia un insieme di unità funzionali in cui ogni parte è in funzione del resto, intendiamo che, nell'atto del parlare, le parole non si accostano né si sommano, ma si "organizzano".
  Dunque è sbagliato considerare la lingua come una "somma" di elementi o segni. Infatti quando parliamo non accostiamo un segno all'altro senza rispettare alcun accorgimento, ma compiamo istantaneamente e spontaneamente due operazioni mentali: la selezione e la combinazione. In altri termini scegliamo, tra le parole che conosciamo, quelle che ci servono (selezione) e poi leghiamo i segni l'uno all'altro in maniera tale da esprimere compiutamente ciò che vogliamo dire (combinazione). In ogni atto linguistico queste due operazioni sono di fondamentale importanza e intimamente legate. Ogni volta che noi parliamo, facciamo una scelta, decidiamo quali parole usare e quali no, le "selezioniamo", quindi le "combiniamo" in proposizioni che, a loro volta, sono combinate in periodi. Questa non è però da considerarsi una scelta libera e indipendente, a meno che non si tratti di autentici termini di nuova formazione (neologismi). Infatti, anche quando scegliamo le parole da usare, ci muoviamo sempre nell'ambito di possibilità precostituite: in altri termini, le parole scelte rientrano in ciò che Jakobson (1966, 24) chiama "patrimonio lessicale", che sia l'emittente sia il ricevente (che fanno parte della stessa comunità linguistica) hanno in comune.
  Concludendo, la lingua è un sistema (e non una semplice somma) funzionale di segni: di essa gli uomini si servono per comunicare con coloro che parlano la loro stessa lingua, ossia che appartengono alla stessa comunità linguistica.

1.1.3 - Le funzioni del linguaggio


  Diverse sono le ragioni e le finalità che si intendono realizzare attraverso la comunicazione: con essa, infatti, si vuole semplicemente informare, oppure comunicare il nostro stato d'animo. Si può indurre il destinatario a convertirsi alla propria idea. Talvolta si indaga e si discute della lingua stessa, la quale diventa oggetto del messaggio. Quando non si riesce a capire ciò che l'emittente dice, il destinatario può chiedere di ripetere ciò che l'emittente ha già affermato. Diversi sono dunque i tipi di messaggio poiché diversi sono i fini di coloro che li codificano.
  Nello spiegare le funzioni del linguaggio, ci si riferirà ad una famosa suddivisione proposta da Roman Jakobson (1966, 186–191), secondo la quale un messaggio può rivestire sei diverse funzioni: referenziale, emotiva, imperativa, fàtica o di contatto, metalinguistica, estetica o poetica. Il modello di comunicazione linguistica proposto da Jakobson presenta una duplice struttura: da una parte riconosce sei elementi costitutivi della comunicazione linguistica (cfr. 1.1.2) e dall'altra l'insieme delle funzioni prodotte da ciascuno di questi elementi. Un messaggio può rivestire sei diverse funzioni ognuna delle quali è orientata ad un diverso fattore:

  1. La funzione referenziale o informativa (orientata al contesto) comporta il rimando ad un referente, che è l'oggetto extralinguistico cui fa riferimento il segno. In altri termini, l'emittente enuncia una notizia, cioè un dato di fatto oggettivo e indiscutibile. È la funzione prevalente di molti messaggi, soprattutto nei discorsi scientifici o espositivi. Il messaggio mira a denotare cose reali (ad es.: "Questa è una sedia" oppure "Oggi piove").

  2. La funzione emotiva (orientata al mittente) "tende a suscitare l'impressione di una emozione determinata, vera o finta che essa sia" ed è evidente nelle interiezioni che "differiscono dai processi del linguaggio referenziale sia per la loro struttura fonica (sequenze foniche particolari o anche suoni insoliti in qualsiasi altro contesto), sia per la loro funzione sintattica (l'interiezione non è un elemento della frase, ma l'equivalente di una frase)" (Jakobson 1966, 186). Il messaggio che riveste tale funzione cerca di suscitare reazioni emozionali, oppure esprimere lo stato d'animo di chi lo ha emesso (ad es.: "Attento!" oppure "ahimè! Oggi piove").

  3. La funzione imperativa o conativa (orientata verso il destinatario) si manifesta con l'imperativo e con il vocativo, per esprimere un comando o un'esortazione. Il mittente cerca di indurre il destinatario del suo messaggio a fare ciò che egli desidera. Gli parla per esortarlo, per convincerlo, per convertirlo a una sua idea (ad es.: "Esci di qui!", "Vota me!", "vattene!").

  4. La funzione fàtica o di contatto (orientata al canale) tende a stabilire, prolungare o interrompere la comunicazione, ad accertare che il canale funzioni. Infatti, quando viene a cadere il contatto, o quando c'è qualcosa che disturba o ne impedisce la ricezione, il mittente e il destinatario non riescono più a sentirsi, per cui entrambi chiedono spiegazione dell'accaduto o si sforzano per farsi ascoltare. Tale funzione tende a ristabilire il contatto perso fra i due interlocutori (ad es.: "Pronto!", "Allora, mi ascolti?", "Bene, eccoci qui").

  5. La funzione metalinguistica (orientata al codice) è tesa a verificare se mittente e destinatario utilizzano lo stesso codice. Con questa funzione il messaggio elegge a proprio oggetto un altro messaggio (ad es.: "L'espressione ‘esci da qui!' è un messaggio a funzione imperativa"). In altre parole, il messaggio metalinguistico si ha quando colui che parla svolge il suo discorso sulla lingua in relazione a ciò che essa vuol significare in una frase che possa risultare poco chiara all'ascoltatore che ne chiede chiarificazione.

  6. Infine, la funzione estetica o poetica (orientata al messaggio in quanto tale) attira l'attenzione del destinatario sul messaggio. Tale funzione "mette in risalto l'evidenza dei segni, approfondisce la dicotomia fondamentale dei segni e degli oggetti" (Jakobson 1966, 190). Il messaggio è strutturato in modo ambiguo e si rivela così autoreferenziale, cioè rimanda solo a se stesso, e autoriflessivo, ossia, intende attirare l'attenzione del destinatario anzitutto sulla propria forma.

1.1.4 - Lingue speciali


  I numerosi autori che si sono occupati di lingue speciali non hanno ancora trovato una soluzione unanime riguardo alla scelta del termine adatto a designare l'oggetto d'indagine. Sull'argomento esiste una vastissima terminologia usata in modo diverso tra i vari studiosi. Le "lingue speciali" vengono, infatti, chiamate sottocodici, linguaggi settoriali, linguaggi tecnici, tecnoletti, gerghi, microlingue, lingue di mestiere, linguaggi specialistici. Si tratta di designazioni differenti che non sono state distinte in modo preciso. Nonostante questa confusione cercheremo di definire l'argomento tenendo presenti i lavori di Berruto (1997) e di Sobrero (1997).

  La classificazione di Berruto (1997) riguarda:

  Berruto elenca poi fra le lingue speciali anche due varietà presenti nel suo schema sulla "architettura dell'italiano contemporaneo". Si tratta dello italiano burocratico e dello italiano tecnico–scientifico che si trovano "a metà fra le lingue speciali in senso lato e le modalità d'uso" (Berruto 1997, 166). Il primo è definito come "una varietà complessa, che unisce il carattere di sottocodice (o di insieme di sottocodici) a quello di registro formale" (Berruto 1997, 164); il secondo "condivide, in quanto registro formale o molto formale, non pochi dei tratti evidenti nel linguaggio burocratico, specie per quanto riguarda la sintassi e la testualità" (Berruto 1997, 166).
  Possiamo ora affiancare alla classificazione fatta da Berruto quella di Sobrero (1997, 239) il quale distingue le lingue speciali in:

  Passando a parlare di gergo, tale termine indica una "varietà linguistica condivisa da un gruppo molto ristretto (di età, di occupazione) e parlata quindi per escludere gli estranei dalla comunicazione e rafforzare il sentimento di identità degli appartenenti al gruppo. Un g. è dato da una stratificazione di arcaismi, neologismi, procedimenti metaforici ed altri espedienti volti a rendere irriconoscibili le parole della lingua comune, o a crearne nuove forme" (Cardona 1988, 150).
  Spesso, come dice Berruto (1997, 163), il termine gergo "viene usato metaforicamente o per estensione […] per designare una qualunque lingua speciale (gergo dei politici, gergo della linguistica ecc.): tale uso non fa che confondere ulteriormente le carte in tavola, in un settore già così complicato com'è quello in cui ci muoviamo".
  Il gergo va distinto dai linguaggi settoriali in quanto "dice" in modo volutamente diverso ciò che potrebbe essere detto con la lingua comune. Infatti, la differenza fondamentale fra gerghi e linguaggi settoriali è che, mentre i primi vengono utilizzati soltanto all'interno di un certo gruppo, i secondi sono rivolti anche ad un pubblico più vasto.
  La distinzione essenziale fra i due tipi linguistici è che i gerghi hanno una funzione criptica e di contrapposizione; i linguaggi settoriali invece sono più "aperti". Per fare un esempio è difficile conoscere il gergo dei carcerati mentre alcuni termini provenienti dalla lingua della cronaca sportiva sono conosciuti e usati non solo dagli "addetti ai lavori" (che possono essere giornalisti specializzati, allenatori, ecc.) ma da tutti, grazie soprattutto alla diffusione tramite i mass–media.
  Come dice Cardona (1987, 24) "il gruppo ha bisogno di delimitare il suo spazio sociale in tutti i modi e con tutti gli elementi di demarcazione possibili. Tale demarcazione non avviene per irradiazione nel vuoto, ma per delimitazione di un proprio, di un conosciuto rispetto ad un altro, un non conosciuto".
  Qui di seguito è riportato uno schema sulla classificazione delle lingue speciali.

Tabella 1: Classificazione delle lingue speciali.
Classificazione Esempi Lessico Specifico Finalità
Lingue Speciali in Senso Stretto (sottocodici) l. della chimica
l. dell'informatica
l. di uno sport
SI tecniche e funzionali
Lingue Speciali in Senso Lato (linguaggi settoriali) l. critica letteraria
l. riviste di moda
l. del turismo
l. della pubblicità*
l. cronaca sportiva*
l. degli oroscopi
l. della politica*
NO di propaganda (indurre a certe azioni o trasmettere certe ideologie)
GERGHI g. di mestiere
g. della malavita
g. dei carcerati
SI fini criptici e di contrapposizione

  Tabella 1: Classificazione delle lingue speciali.

  * tali lingue sono definite da Berruto più come "modalità d'uso" che come vere e proprie lingue speciali.

  Tabella 1: Classificazione delle lingue speciali.

  * tali lingue sono definite da Berruto più come "modalità d'uso" che come vere e proprie lingue speciali.

  Interessante caratteristica delle lingue speciali è la presenza di internazionalismi: si tratta di termini presi dal lessico di altre lingue, in special modo dall'inglese. Per fare un esempio concreto, termini come formattare, mouse o floppy sono usati nel linguaggio settoriale dell'informatica; o ancora termini stranieri sono presenti nella lingua dello sport: dalla lingua del calcio mister, corner, gol; da quella del tennis set, game, smash; dall'automobilismo start, ecc. Si potrebbero elencare numerosi altri esempi. Come dice Berruto (1997, 154–155), "la larga circolazione dei termini tecnici e scientifici da una lingua all'altra, e il fatto che molte neoformazioni siano in effetti prestiti dal greco (come spinterogeno; in altri campi, ortodonzia, anemometro ecc.) o dal latino (ictus, "colpo apoplettico", in medicina), che cioè ci sia spesso una comune base classica, fanno sì che una buona parte della terminologia dei sottocodici sia di fatto internazionale". La fortuna del prestito è dovuta sia al fatto che esso permette la comprensibilità tra "specialisti" appartenenti a nazioni diverse, sia al fatto che esso gode di un certo rispetto in quanto "fa moderno".

1.1.5 - Lingue speciali e lingua comune


  In Italia gli studi sulle lingue speciali si sono incrementati negli ultimi decenni. Come abbiamo visto, esiste una vasta terminologia sull'argomento senza un punto d'incontro. Manca una visuale d'insieme aggiornata.
  Uno dei più importanti e interessanti temi oggetto di studi è quello dell'interferenza fra lingue speciali e lingua comune, dove con quest'ultima si intende una "varietà neutra, non marcata, sull'asse della variazione diafasica di sottocodice" (Berruto 1997, 163). Esiste, ad esempio, un certo rapporto fra la lingua comune e i linguaggi burocratico e tecnico–scientifico. Infatti, alcuni termini di queste due lingue speciali sono ormai entrati nell'uso comune. Il linguaggio burocratico a causa di "un certo fascino celato dell'ufficialità" (Berruto 1997, 166). Invece, l'influenza del linguaggio tecnico–scientifico sulla lingua comune, con "dosi massicce di tecnicismi" è dovuta alla "relativa diffusione anche presso un pubblico di massa di certe tecniche", ad una "crescente popolarità delle scienze sociali e della psicologia" e allo "interesse per le questioni economiche che giunge a fasce di cittadini di ogni ceto" (Berruto 1997, 168).
  Esiste, dunque, un rapporto fra lingue speciali e lingua comune. Da una parte si riscontra un certo travaso di termini dalla lingua comune alle lingue speciali. Infatti come dice Sobrero (1997, 274) qualsiasi lingua speciale "nasce dalle costole di una lingua, o di una varietà di una lingua, già affermata: il latino, il greco, o l'italiano, o la nomenclatura tecnica di arti e mestieri preesistenti, o una lingua straniera […] Il processo di osmosi è così diffuso e radicale che per molti termini specialistici la provenienza dalla lingua comune non è più avvertita: frizione e candela provengono dalla lingua comune, ma ormai sono considerati termini specialistici della meccanica automobilistica". Dall'altra esiste, ed in maniera ancora più rilevante, un certo flusso inverso, dalle lingue speciali alla lingua comune, veicolato dai mass media, e, in particolare, dalla televisione. Termini, prima conosciuti esclusivamente dagli "addetti ai lavori" (medici, scienziati, ecc.), sono entrati nell'uso comune. Infatti, non sempre il linguaggio settoriale riguarda una comunità di specialisti. Per fare un esempio, un testo di tipo divulgativo (come quello di uno psicologo che parla in una trasmissione televisiva) può essere rivolto dallo specialista del settore alla gente comune che, in tal modo, entra in contatto con una terminologia prima di allora completamente sconosciuta. In questo modo "il linguaggio settoriale, che si era per così dire ritagliato uno spazio nella lingua comune, si era tecnicizzato e perciò stesso alquanto distanziato da essa, restituisce alla lingua comune una parte della propria terminologia e, bene o male, delle conoscenze" (Bruni 1987, 117).
  Talvolta molti termini "tecnici" entrano nell'uso comune perché sono diventati "di moda": un esempio in questo senso è fornito dal linguaggio della psicanalisi che è entrato, volgarizzandosi, nella lingua comune proprio grazie alla fama goduta da tale disciplina. Oggi si usano comunemente termini quali nevrotico, complessato, isterico, complesso (per es. di inferiorità), depressione, fobia, frustrazione, inconscio, inibizione, nevrosi, ossessione, paranoia, psicosi, suggestione, ecc.. La lingua comune ha, per così dire, "rubato" del materiale non soltanto al linguaggio della psicanalisi ma anche ai diversi linguaggi settoriali. In Beccaria (1973, 19–21): fare una rapida carrellata/un primo piano/una panoramica (dalla lingua del cinema); disintegrare (dalla lingua della fisica atomica); avanguardia o sparare a zero (dalla lingua militare); atrofia di un ufficio statale, sistema capillare di credito, paralisi, collasso (dalla lingua della medicina); cambiamento di rotta (dalla lingua dell'aeronautica); conferenza, incontro al vertice, spirale inflazionistica (termini che il linguaggio socio–politico prende in prestito da quello della geometria). Inoltre bisogna dire che molti dei termini tecnici provenienti dai linguaggi settoriali sono usati nel parlato comune in quanto "di prestigio".
  Oltre al rapporto fra linguaggi settoriali e lingua comune, esiste anche un determinato rapporto fra i gerghi e la lingua comune. Tale rapporto è essenzialmente di dipendenza dei primi nei confronti della seconda. I gerghi, infatti, sono considerati "subalterni" e "parassitari" in quanto sistemi dipendenti dalla lingua comune, "di cui stravolgono il lessico o mediante operazioni semantiche […] o mediante meccanismi del significante […] senza intaccarne in nulla la fonologia e la morfosintassi" (Berruto 1997, 158). Il gergo è definito "linguaggio parassita o parziale perché non consiste generalmente che in un lessico e perché questo lessico è solo parzialmente il linguaggio di coloro che lo usano" (Beccaria 1973, 33). Il gergo è qui visto non come una forma indipendente e differenziata dal linguaggio comune ma come un suo parassita. Per Beccaria (1973, 41) "se i linguaggi settoriali sono vitalissimi nel corpo della lingua, di sempre maggiore espansione e prestigio, i gerghi, relegati ai margini della lingua, non operano che una episodica incidenza nella lingua dell'uso".
  Il rapporto fra lingue speciali e lingua comune è quindi, come abbiamo visto, di reciproca influenza. Molti dei tecnicismi propri delle lingue speciali possono entrare nell'uso quotidiano (ad es. schizofrenico). E non è raro che accada il contrario: una lingua speciale può assorbire termini derivanti dalla lingua comune (ad es. candela).

1.2 - Interazione tra linguaggi


1.2.1 - Natura e meccanismi


  Dal momento che in questa trattazione il filo conduttore sarà il rapporto fra lingua della pubblicità e lingua dei giovani, ci sembra opportuno dare una definizione del concetto di interferenza linguistica, seppure in maniera sommaria. In questa sede ci si propone solamente di definire cosa sia l'interferenza fra lingue (qual è la sua natura), quando e come avviene (i meccanismi che la determinano), quali concetti sono ad essa legati.
  Per interferenza linguistica si intende comunemente gli insiemi degli effetti del contatto di una lingua con un'altra lingua. Il fenomeno comporta "l'emergere momentaneo, in un punto qualsiasi, di una variazione (lessicale, fonologica, morfologica, grafica) dovuta alla compresenza e all'influsso di un altro codice, con il quale si crea una sorta di cortocircuito" (Cardona 1988, 174). Può giungere anche alla "commutazione di codice" nel singolo parlante e perfino alla "sostituzione" di lingua in un'intera comunità.
  Strettamente collegati al fenomeno dell'interferenza linguistica sono i concetti di contatto, prestito, calco, integrazione, acclimatamento e prestigio linguistico, concetti che definiremo man mano che ci occuperemo di tale fenomeno.
  Perché ci sia interferenza linguistica c'è bisogno innanzitutto che avvenga un contatto. Definiamo, con Cardona, contatto "la situazione in cui interagiscono più comunità di lingue differenti, con conseguenti fenomeni di interferenza, nascita di nuove varietà linguistiche (Õ pidgin) ecc." (Cardona 1988, 86).
  Altro concetto strettamente legato all'interferenza linguistica è quello di prestito che riguarda "qualsiasi fenomeno d'interferenza, connesso cioè col contatto e col reciproco influsso di lingue diverse, ove per ‘lingue' si dovrebbero intendere non solo quelle letterarie, nazionali e così via, ma anche quelle individuali, proprie di ciascun parlante. Infatti l'arricchimento di una qualsiasi tradizione linguistica sotto l'influsso di un'altra costituisce un caso di prestito: e quindi, a ben guardare, tutto il patrimonio di cui si compone una lingua individuale è dovuto a prestito, in quanto è stato appreso attraverso l'imitazione di un'altra lingua individuale (quella dei genitori, dei compagni di giochi ecc.)" (Gusmani 1997, 9).
  Il prestito va distinto in prestito di necessità e prestito di lusso. Il primo si ha "nei casi in cui nella lingua vengono introdotti contemporaneamente sia un significato che un significante prima sconosciuti (sputnik, canguro, surf)"; il secondo riguarda invece i "casi in cui per referenti già noti si adotta un segno estraneo […] di cui interessano proprio le connotazioni di estraneità: maquillage, fard, know–how ecc." (Cardona 1988, 245). Tale distinzione riguarda le motivazioni che spingono al prestito. Infatti gli stimoli che spingono l'individuo a ricorrere al prestito sono proprio "la necessità di trovare una contropartita linguistica alle sempre nuove esperienze" (è il caso del prestito di necessità), oppure "l'esigenza di adeguare i mezzi offerti dalla lingua ai particolari bisogni espressivi" (Gusmani 1997, 13); è il caso del prestito di lusso.
  La fenomenologia del prestito, una volta istituitosi il contatto fra lingue, si manifesta come imitazione. Tale imitazione del modello straniero può essere di vari tipi: 1. imitazione molto fedele (ad es. la parola jet che è stata perfettamente riprodotta in italiano dalla lingua inglese); 2. imitazione parzialmente fedele, in cui il modello straniero si è adattato alle strutture indigene (ad es. la parola italiana gol che in inglese è scritta goal); 3. imitazione fatta "con elementi preesistenti nel sistema della lingua in questione, richiamati dalla sola affinità semantica (it. grattacielo sull'ingl. sky–scraper)" (Gusmani 1997, 12); 4. imitazione riguardante il "semplice allargamento del campo semantico di una parola indigena" come nel caso di angolo che "prende il significato tecnico sportivo dall'ing. corner" (Gusmani 1997, 12). Questi due ultimi tipi vengono spesso chiamati calchi più che prestiti. Il calco è un "procedimento in cui una parola o espressione di una lingua B viene resa fedelmente con materiali della lingua A" (Cardona 1988, 61). Si tratta di "forme più raffinate e anche meno palesi di prestito" (Gusmani 1997, 12).
  Abbiamo detto cos'è un prestito; ma quand'è che possiamo dire che esso sia reale e che sia avvenuta effettivamente interferenza linguistica? È facile, infatti, attribuire erroneamente tale etichetta a qualsiasi termine abbia una certa somiglianza con un'altra lingua. Ecco perché bisogna distinguere tra prestiti autentici e prestiti apparenti. Rientrano in quest'ultima categoria i cosiddetti falsi esotismi, ossia "parole che hanno tutto l'aspetto di forestierismi o sono addirittura identiche, in apparenza, ad un termine straniero, ma che in realtà sono state create indipendentemente da un preciso modello. Che non si sia in presenza di un genuino fenomeno di prestito è dimostrato o dall'assenza di un eventuale corrispondente nella lingua straniera o, se questo esiste, dal fatto che esso ha un significato affatto diverso" (Gusmani 1997, 106). In italiano termini quali ad esempio footing o bloc–notes fanno parte di questa categoria.
  I falsi esotismi non sono gli unici tipi di prestiti apparenti. Rientrano in questa definizione anche quelli che Gusmani chiama prestiti decurtati. Si tratta di termini inglesi composti, che sono entrati nella lingua italiana in modo abbreviato, ossia grazie all'eliminazione del secondo elemento sentito come troppo lungo.
  Oltre al caso di prestiti che sembrano tali ma in realtà non lo sono (detti appunto apparenti), vi è anche il caso contrario, in cui taluni termini non sembrano prestiti ma in realtà lo sono. Si potrebbe chiamarli degli "apparenti non–prestiti". Si tratta dei cosiddetti prestiti camuffati, ossia di termini che "non avendone affatto l'aria, devono la loro creazione a veri e propri fenomeni d'imitazione di modelli stranieri" (Gusmani 1997, 117).
  Dal momento che la somiglianza soltanto apparente con una lingua straniera non garantisce sufficientemente che esso sia un forestierismo, quale criterio bisogna utilizzare per identificare un prestito? Possiamo definire prestito solamente "quegli elementi che una lingua […] ha effettivamente modellato su un'altra. È necessario dunque provare o almeno rendere plausibile il rapporto storico di dipendenza tra l'elemento in questione e il modello straniero, escludendo per esempio che possa trattarsi di creazione indipendente" (Gusmani 1997, 10). Se non esiste un rapporto di dipendenza, reale e provato, non si può in nessun modo parlare di prestito. Alla base dell'esistenza stessa del prestito ci deve essere dunque un contatto fra due lingue, l'esistenza di un modello straniero e la reale imitazione.
  È facile, pensando al concetto di "interferenza" fra due lingue, ritenere che l'una "ceda" e l'altra "prenda". In realtà le cose non stanno esattamente così. La lingua da cui proviene il prestito non cede ma "offre" un modello. Ciò significa che il prestito non va considerato come un "passaggio di ‘materia' linguistica da una tradizione all'altra" (Gusmani 1997, 18) ma come semplice imitazione del modello offerto. Il modello straniero viene "offerto" (e non ceduto) a chi lo "imita" (e non lo prende). Non c'è, dunque, nessun tipo di atteggiamento passivo da parte di chi offre il modello; e non c'è passività neanche in chi lo imita. Bisogna dire, infatti, che, nel processo di assimilazione, la lingua indigena fa sentire il proprio influsso sul prestito. Il prestito va quindi visto come una "manifestazione della ‘attività' di una lingua" (Gusmani 1997, 15). Esso rappresenta una "risposta" attiva della lingua alle sollecitazioni e agli influssi provenienti da un'altra lingua.
  Un'altra facile ma erronea conclusione è quella di considerare il prestito come un "corpo estraneo". Esso non lo è in nessun modo poiché "una volta entrato a far parte del patrimonio di una lingua" esso "non si differenzierà più dalle altre componenti dello stesso patrimonio: esso rivelerà la sua origine solo allo storico della lingua, in grado di percorrere a ritroso le vicende delle parole, ma sul piano sincronico funzionerà come qualsiasi altro elemento presente da tempo immemorabile nella stessa tradizione linguistica" (Gusmani 1997, 16).
  Il prestito subisce un processo di graduale adattamento semantico e formale in quanto "stabilisce sempre una rete, per quanto modesta, di relazioni con la struttura linguistica in cui è inserito e finisce quindi con l'ambientarsi, cioè col diventare parte costitutiva del patrimonio lessicale del sistema" (Gusmani 1993, 24). Tale processo viene chiamato acclimatamento la cui misura è data "non dagli aspetti formali, bensì dall'uso che ne fa il parlante: quanto più egli si familiarizza col neologismo, tanto più quest'ultimo risulterà acclimatato". Esso, "che è un fatto che riguarda unicamente la sfera lessicale" e che "può non comportare alcuna sensibile alterazione", va distinto dalla cosiddetta integrazione che viene definita come "l'influsso esercitato dalla lingua ricevente nello sforzo di adeguare il termine di tradizione straniera alle sue strutture fonematiche, morfologiche ecc." (Gusmani 1997, 25). Nonostante la distinzione, questi due fenomeni fanno parte, insieme, del processo di assimilazione, procedendo, spesso, di pari passo. Grazie ad essi la tradizione indigena fa sentire il suo influsso.
  Un altro concetto molto importante legato al tema che stiamo trattando è quello di prestigio linguistico. Infatti quanto più un termine straniero è "prestigioso" per il parlante, tanto più difficile e ostacolata sarà la sua assimilazione. Se chi compie il prestito conosce bene la lingua straniera, tenderà a ricorrere al calco o a riprodurre il più fedelmente possibile il modello. Se invece a compiere il prestito è un parlante che non conosce l'altra lingua, la pressione assimilatrice delle strutture indigene sarà più forte.
  Riassumendo:


  1.   .

  2.   Infatti, ciascuno, da bambino, impara una lingua a partire dal nucleo di “socializzazione primaria” (famiglia). La lingua è quindi uno strumento che ognuno di noi acquisisce, apprende e possiede; un’esigenza naturale cui, nella vita di tutti i giorni, non si può fare a meno, quasi come nutrirsi, bere o dormire. Questo perché sin dalla nostra nascita siamo inseriti in una vita di relazione.

  3.   A situazioni diverse corrisponderanno modi di esprimersi o registri linguistici differenti. Cambierà il modo di parlare a seconda del destinatario della comunicazione, del contenuto della comunicazione, del fine che si intende raggiungere con la comunicazione: un adolescente all’interno del suo gruppo di amici parlerà in maniera del tutto differente rispetto a come parla in classe davanti ad un professore. Esso parlerà in modo diverso parlando di sport, di politica, di musica ecc. e si esprimerà in maniera diversa a seconda del fine che vuole raggiungere (informare, persuadere ecc.).

  4.   Il codice può essere umano e animale. Rispetto a quello degli animali il codice umano può essere verbale e non. Quando tale codice è umano, verbale e storicamente delimitato, si parla di lingua.

  5.   Oltre alla grammatica gli elementi fondamentali del linguaggio sono la fonologia, che riguarda i suoni usati per esprimere le parole; la sintassi, che si occupa delle regole per combinare fra loro suoni e significati e la semantica, che studia i significati delle parole. La grammatica può essere considerata come l’insieme delle regole che coordinano fonologia, sintassi e semantica.

  6.   Vedremo in seguito (cfr. 2.2.2) come tale modello sia limitato anche per interpretare la comunicazione pubblicitaria.

  7.   Come avremo modo di vedere più avanti, tale funzione è fra quelle più utilizzate nei messaggi pubblicitari (cfr. 2.2.2). Molti messaggi pubblicitari, infatti, si presentano spesso sotto forma di messaggi informativi mentre, in realtà, sono messaggi imperativi, in quanto vogliono indurre a comprare un determinato prodotto.

  8.   Il modello tradizionale del linguaggio era un modello triadico, ossia limitato a queste tre funzioni (cfr. Jakobson 1966, 188).

  9.   Il messaggio fatico può sembrare suscitare emozioni ma in realtà intende solo confermare il contatto tra i due interlocutori (come, ad esempio, gli auguri).

  10.   Come ci fa ben notare Jakobson, la logica moderna distingue due tipi di linguaggio: “il “linguaggio oggetto”, che parla degli oggetti e il “metalinguaggio”, che parla del linguaggio stesso”. Ma il metalinguaggio non è uno strumento esclusivo dei linguisti: “noi mettiamo in pratica il metalinguaggio senza renderci conto del carattere metalinguistico del nostro operare” (Jakobson 1966, 189).

  11.   Berruto parla di “sottocodici”, ossia di “varietà diafasiche caratterizzate da un lessico speciale, in relazione a particolari domini extralinguistici e alle corrispondenti aree di significato. La loro funzione e il loro compito sono quelli di mettere a disposizione un inventario di segni per la comunicazione circa determinati argomenti e ambiti di esperienza e attività, in modo che questa sia il più possibile univoca, precisa ed economica, e quindi più efficace e funzionale riguardo a temi specifici”. La caratteristica fondamentale che distingue le lingue speciali è “un lessico specialistico, estraneo al tronco comune della lingua” (Berruto 1997, 154). Si tratta di un “vocabolario tecnico dei sottocodici” che egli chiama nomenclatura, termine composto dalle parole latine nomen “nome” e calare “chiamare”. Si tratta di un elenco di nomi dati in maniera precisa a determinati oggetti di una attività specifica (ad esempio della chimica o della meccanica). Berruto (1997, 154) fa l’esempio del linguaggio della medicina che “costruisce con il suffisso -ite i nomi di malattia designanti un’infiammazione acuta di un organo o apparato (artrite, faringite, osteite, nevrite) e con il suffisso -òsi i nomi di malattia designanti una condizione morbosa cronica di un organo o apparato (artrosi, osteosi, nevrosi […])”. Per un ulteriore approfondimento sulla nomenclatura cfr. Cardona 1988, 216.

  12.   Per Berruto “il lessico è specifico quando attiene al settore di cose oggetti attività specifiche del ramo cui si riferisce la lingua speciale” (Berruto 1997, 162).

  13.   Berruto (1997, 19-27) parla di “architettura dell’italiano contemporaneo”. Lo schema di Berruto (1997, 21) rappresenta nove varietà di italiano contemporaneo: 1. italiano standard letterario; 2. italiano neo-standard; 3. italiano parlato colloquiale; 4. italiano regionale popolare; 5. italiano informale trascurato; 6. italiano gergale; 7. italiano formale aulico; 8. italiano tecnico-scientifico; 9. italiano burocratico.

  14.   In tale classificazione di Sobrero, le lingue specialistiche corrispondono alle lingue speciali in senso stretto di cui parla Berruto. Mentre le lingue settoriali alle lingue speciali in senso lato.

  15.   Cardona (1988, 150) spiega che il termine gergo proviene dal termine francese jargon “in origine ‘cinguettio degli uccelli’ e poi ‘lingua incomprensibile’”.

  16.   Questo non vuol dire che con “linguaggi settoriali” dobbiamo intendere dei linguaggi altamente chiari e decifrabili. Secondo Berruto (1997, 157) “essi vengono usati anche per rivolgersi a pubblico estraneo alla cerchia interessata direttamente da quel linguaggio settoriale”.

  17.   Tale schema è stato fatto riprendendo, integrando e modificando gli schemi di Berruto (1997) alle pag.158 e 160.

  18.   Gotti (1991, IX) parla di internazionalismi come “termini mistilingui che utilizzano lessico di origine straniera, adattato in genere alla lingue riceventi secondo le regole fonologiche e morfologiche specifiche di tali lingue”.

  19.   Il termine mister è usato nel linguaggio calcistico in alternativa a “allenatore”, “direttore tecnico”.

  20.   Beccaria (1973, 11) ricorda: “contattare (ingl. to contact), disincentivare (ingl. to disincentive) […] la serie assai produttiva nel settore, degli aggettivi in -ale, direzionale (ingl. directional), previsionale (ingl. previsional) […] e gli aggettivi in -ivo (applicativo, collaborativo, partecipativo, competitivo)”.

  21.   Ad es. nella lingua della pubblicità vengono usati termini quali break, art director, copywriter, jingle, testimonial, ecc.

  22.   Oltre agli studi di Berruto (1997) e Sobrero (1997), si sono tenuti presenti anche i lavori sull’argomento svolti da Beccaria (1973) e quelli più recenti di Gotti (1991).

  23.   Sul concetto di interferenza linguistica cfr. Gusmani (1997). Di tale concetto si parlerà in 1.2.

  24.   Si tratta di due delle nove varietà dell’italiano contemporaneo di cui parla Berruto (1997, 19-27). Cfr. 1.1.4.

  25.   L’uso del linguaggio burocratico fa sentire, in un certo qual modo, importante chi lo parla. Nencioni (1982, 24-25) parla di un uso da parte dei giovani di un vocabolario specifico “in senso tecnico, paratecnico o burocratico […] e questo vocabolario specifico ma non professionale va diffondendosi non solo tra le persone colte”.

  26.   Su tale argomento è interessante la riflessione di Beccaria (1973, 16-17) che, parlando del rapporto fra linguaggi settoriali e lingua comune, sostiene che “le parole della tecnica e della scienza oggi si volgarizzano rapidamente; tra vocabolario comune e vocabolario tecnico si ergono sempre più esili barriere. Il progresso scientifico e tecnico gigantesco in questi ultimi anni ha portato, insieme alla coniazione di nuovi vocaboli, alla rapida divulgazione d’una gran massa di terminologia, diventata di dominio comune;[…]Un tempo la persona di media cultura conosceva poche parole scientifiche. Ora grossa parte continua a circolare nel chiuso dell’uso specialistico. Molto però si è volgarizzato, spesso banalizzato il socializzarsi del linguaggio psicanalitico di Freud ha appiattito vistosamente il discorso freudiano” (pp. 16-17).

  27.   Il linguaggio pubblicitario, come si vedrà in 2.2, sa sfruttare bene questa situazione facendo largo uso di tecnicismi per attirare l’attenzione con discorsi che “sembrano” più obiettivi e più onesti.

  28.   C’è chi non vede, oltre che nei gerghi, anche nelle lingue speciali delle proprie e originali caratteristiche che le distinguono dalla lingua comune: esse sono considerate separate dalla lingua comune e a un livello inferiore, prive di specificità formale. Come rileva Gotti (1991, 1) tale modo di pensare è di “tipo conservativo” e apparteneva agli studiosi della scuola di Praga che definivano la lingua speciale “di livello inferiore e nettamente separata dalla lingua comune”. Continua dicendo che le lingue speciali (soprattutto quelle in senso stretto) non vanno considerate, come avviene per i gerghi, come dei sistemi “parassitari” dal momento che esse possiedono una certa autonomia e indipendenza rispetto alla lingua comune: “le discrepanze esistenti tra i linguaggi specialistici e la lingua comune” sono “viste come indici di un fenomeno di marcatezza” (Gotti 1991, X). C’è, quindi, chi pensa che le lingue speciali siano lingue parassitarie che mancano di caratteristiche distintive e di specificità formale e c’è, invece, chi gli conferisce una certa autonomia e particolarità rispetto alla lingua comune. Chi vede in tali lingue (soprattutto nella loro eccessiva specificità e differenziazione dalla lingua comune) delle forme di comunicazione chiuse, “criptiche”, riservate a pochi “addetti ai lavori” e oscure e incomprensibili a molti, o, almeno, ai “non addetti”. Ma c’è anche chi nutre verso di esse un certo rispetto perché ritenute dotate di indiscusso prestigio.

  29.   L’espressione “commutazione di codice” vuole dire “il passaggio da un codice (livello, stile, registro) all’altro, o, in soggetti bilingui, da una lingua all’altra” (Cardona 1988, 77). Tale termine, in origine, si riferiva al sistema delle trasmissioni in codice soprattutto in guerra.

  30.   Il prestito, infatti, riguarda l’attività dei singoli individui: il diffondersi di qualsiasi tipo di innovazione “avviene proprio per prestito da una lingua individuale all’altra” (Gusmani 1997, 10).

  31.   Per fare un esempio il termine inglese week-end è stato reso in modo fedele con materiali della lingua italiana (finesettimana).

  32.   Il falso esotismo è definito da Cardona (1988, 125) come “una costruzione che non è effettivamente assunta in quanto tale da un’altra lingua”.

  33.   La parola italiana footing, infatti, non corrisponde nel suo significato a quella inglese che significa “basamento”; semmai gli inglesi utilizzano la parola jogging. La stessa cosa dicasi per bloc-notes che non corrisponde all’inglese note-block.

  34.   È il caso, ad esempio, di night (dall’ing. night-club) che in italiano significa “locale notturno” e in cui è stato eliminato il secondo elemento.

  35.   A questo proposito dice Gusmani (1997, 99-100): “determinanti restano la presenza di un modello alloglotto e la verisimiglianza che tra questi e il termine in questione intercorra un rapporto mimetico. Solo in circostanze particolari si potrà parlare, con un certo fondamento, di prestito pur in assenza del modello, e cioè quando questo possa venir presupposto sulla scorta di validi indizi e la sua mancata attestazione sia dunque da ritenersi casuale”. Non si può pretendere di identificare un prestito solo in base al suo aspetto esteriore: anche se “la struttura di una parola, la sua scarsa integrazione nel sistema e così via, possono essere indizi che ci si trova di fronte ad un prestito” tali indizi “non costituiscono in nessun modo un sicuro elemento discriminante […] la sostanza del prestito non sta nell’utilizzazione, all’atto della creazione del nuovo termine, di una certa ‘materia’ linguistica piuttosto che di un’altra, ma nel modo in cui questa è organizzata, conformemente cioè ad un modello straniero” (Gusmani 1997, 19-20).

  36.   Il termine prendere è inteso come “togliere, sottrarre ad un altro”.

  37.   Gusmani fa notare come al termine prestito si fa spesso corrispondere un atteggiamento passivo al contrario di calco inteso come “attiva ‘risposta’ della lingua agli stimoli e alle suggestioni provenienti da un’altra tradizione” (Gusmani 1997, 15).

  38.   E anche in questo caso il termine prestito sembra opporsi a quello di calco che “riproducendo il modello con materiale indigeno, verrebbe incontro proprio all’esigenza […] d’evitare l’immissione di elementi allogeni” (Gusmani 1997, 16).

  39.   Il prestito non è un elemento estraneo ma sa adattarsi al patrimonio linguistico in cui entra a far parte attraverso due differenti ma “complementari” aspetti del processo di assimilazione (integrazione e acclimatamento).

  40.   L’acclimatamento “può talora concernere solo un livello linguistico ben circoscritto (linguaggio tecnico, quello colto e così via)” e “può richiedere del tempo, soprattutto quando si tratti di termine originariamente ristretto all’uso tecnico e solo in seguito estesosi al linguaggio comune” (Gusmani 1997, 24-25).

  41.   In altre parole, un prestito può dirsi “integrato” quando si adatta completamente alle regole fonologiche e grafiche. Al contrario si parla di prestito “acclimatato” quando esso viene progressivamente assimilato senza un completo adattamento fonetico e grafico.

  42.   In altre parole avviene questo: in ambienti in cui si conosce bene la lingua straniera il modello sarà riprodotto in modo il più possibile fedele; in ambienti invece che conoscono poco o per niente la lingua straniera si farà sentire maggiormente l’influsso indigeno sul prestito. Più saranno forti la conoscenza di un termine straniero da parte di un parlante e il prestigio di cui esso gode ai suoi occhi, minore sarà l’influsso della tradizione indigena sul prestito.

  43.   Infatti riguardo a questo Gusmani (1997, 23) dice: “Il prestito è quindi il punto di arrivo di un processo non lineare, anzi particolarmente complicato, in cui si intrecciano in varia misura fattori differenti: influssi stranieri, spinte assimilatrici del sistema linguistico interessato dall’interferenza, scelte operate dal parlante”.