JEM COHEN

Ci si può perdere...

 

Monografiche

di Jem Cohen

 

Nel riflettere sul rapporto tra film e video, “cinema” e “arte elettronica”, credo che il primo pensiero dovrebbe essere: è buona l’opera che si sta guardando! Tocca lo spettatore! Ha forza e fascino! Si ricollega profondamente a qualche aspetto umano’. Ci offre un modo nuovo di vedere il mondo, o ci ricongiunge con tradizioni più vecchie in modo tale da rivitalizzare sia loro che lo spettatore moderno’. Certe volte si discute su un formato piuttosto che su un altro, e si dimenticano così queste domande fondamentali.

Sono un film/videomaker ibrido. Giro infatti sia in pellicola che in video e di solito faccio la post-produzione in video, quindi il mio lavoro ha a che vedere con entrambi i mezzi. La versione finale del mio lavoro esiste quasi interamente solo in video.
Mi piacciono decisamente certe qualità intrinseche della pellicola che sono raramente evidenti in video: le irregolarità della grana, le transizioni a volte misteriose della luce.Tuttavia uso anche il trasferimento da film a video per sperimentare possibilità nuove di variare le velocità, i colori, le texture.
Inoltre, effettuo il montaggio su sistemi non-lineari che possono influenzare notevolmente il lavoro. Questo tipo di montaggio incoraggia e amplifica il mio uso di collezioni di immagini e suoni cui si può accedere in modo casuale per poi collegarle o giustapporle. Poiché giro costantemente, lavoro attingendo a una biblioteca della memoria e della visione che deve essere ordinata e strutturata in studio di montaggio.
Il video e il montaggio digitale permettono anche di vedere immediatamente scoloriture e dissolvenze, che così possono effettivamente essere intese come parte integrante del linguaggio dell’opera.


 

Jem Cohen

 


Una delle mie inquietudini riguardo al video nasce dal fatto che le industrie che hanno inventato e messo in commercio la tecnologia si sono occupate pochissimo dei problemi di conservazione. Alcuni nastri che ho girato solo qualche anno fa si sono già rovinati, e i formati vengono inventati e accantonati così in fretta che anche se le raccolte di nastri resistessero bene, difficilmente esisteranno ancora in futuro le attrezzature per poterle visionare. Anche la pellicola ha i suoi problemi di conservazione, eppure ci sono film in 8 mm degli anni Trenta che sono ancora in forma smagliante. Col passare del tempo, questo diverrà un problema via via più serio.

Comunque, le distinzioni fra video e film si stanno già attenuando, visto che il film può essere trasferito su nastro; e il nastro su pellicola, per essere proiettato. Ho sentito dire da qualcuno -e mi pare salutare- che quello di “cinema” dovrebbe diventare un termine comprensivo di tutti i tipi di immagini in movimento.

Per quanto riguarda il pubblico, gli spettatori sono intenzionati a vedere qualunque cosa che davvero li interessi, indipendentemente dal formato. Tuttavia, pochi oggi sono incoraggiati a sperimentare la visione come esperienza concentrata, se non addirittura meditativa. Gli effetti di modelli come MTV sono stati particolarmente dannosi, ma buona parte dell’alienazione del pubblico è colpa degli artisti, il cui lavoro riesce a essere così isolato, o formale, o concettuale, da non risultare accessibile al grande pubblico. (Naturalmente, non tutta l’arte deve essere accessibile a tutti, ma se ci soffermiamo sulla situazione del medium, dovremmo considerare che molta gente è intimidita dalla “videoarte” e ne è quindi emarginata.)

Ho l’impressione che il video sia stato gravemente penalizzato rispetto al film per via di una presentazione modesta. A me piace l’intimità della fruizione individuale, e l’idea che vedendo un’opera d’arte su un registratore domestico (o su una rete non commerciale, o sul computer di casa) lo spettatore possa riscattare la propria televisione dall’uso commerciale e quotidiano che ha dato alla TV una così cattiva reputazione. Credo ancora nella potenzialità, per la televisione, di trasformarsi in una magica scatola luminosa per immagini e storie piuttosto che solo per vendite e “informazione”, ma tutto questo è ancora troppo raro. Sfortunatamente, la “visione distratta, frammentaria” che di solito contraddistingue la televisione affligge spesso la visione di arte elettronica nelle gallerie e perfino nei festival.


 

Jem Cohen

 


Mi piace anche la visione per piccoli gruppi, ma in ogni caso situazioni con una buona visione producono una differenza straordinaria.
Quando la videoproiezione è buona, i risultati possono essere stupefacenti e il pubblico, situato all’interno del “rituale” della proiezione cinematografica, può avere l’opportunità di “perdersi” nelle opere che vede.

Con una buona visione ci si può “perdere” nell’opera.

Purtroppo, la maggior parte delle videoproiezioni non è così buona. Di solito i proiettori non sono tarati correttamente; l’intensità del nero e il colore non sono calibrati in modo adeguato, e la dimensione dello schermo è spesso troppo grande, il che va a scapito della definizione e del contrasto. Fra una buona e una cattiva presentazione video c’è la stessa differenza che corre fra una fotografia e una fotocopia.
Se la proiezione non è buona, preferisco allora di gran lunga che il mio lavoro sia presentato su monitor, ma al giorno d’oggi la proiezione può essere buona abbastanza da funzionare a meraviglia. Così, molto dipende da come ce ne si occupa nel luogo della presentazione.
Qualunque sia il formato su cui l’opera è presentata, la zona di visione dovrebbe essere effettivamente buia e isolata da suoni e distrazioni dall’esterno. La visuale dovrebbe essere sgombra, e l’audio trasmesso da un buon sistema ( spesso mi perito a realizzare i master dei miei nastri in stereo, perché sono pochissimi i luoghi di diffusione in cui non si perde uno dei canali).

Quando queste istanze saranno rispettate, e il lavoro stesso potrà esser visto correttamente, la relazione e le differenze fra “arte elettronica” e “cinema” risulteranno più chiare. E, cosa ancora più importante, al contenuto e alla forza della singola opera sarà data la possibilità di rifulgere.

 

 

Jem Cohen

 

 

Jem Cohen

 

Jem Cohen è nato nel 1962 in Afghanistan, dove il padre stava svolgendo la sua attività di formatore di insegnanti. Sempre al seguito dell’attività paterna, si è spostato durante l’infanzia in vari paesi del mondo, fra cui il Brasile, per poi rientrare negli Usa, dove la famiglia, di origine ebraica, era emigrata dall’ Europa dell’est. All’età di dieci anni, nel 1972, ha partecipato con i suoi genitori, a Washington D.C., alla più grande marcia svoltasi negli Usa contro la guerra in Vietnam. Dopo gli studi universitari, che gli hanno fatto scoprire e amare fra l’altro il cinema italiano, e in particolare il neorealismo, Jem Cohen si è stabilito a New York, dove per mantenersi ha svolto per un periodo il lavoro di venditore ambulante. In seguito ha lavorato come assistente di scena sul set di vari film (fra cui After Hours di Martin Scorsese e Sid and Nancy di Alex Cox), cominciando contemporaneamente a sviluppare un’attività personale di cineasta, utilizzando vecchie cineprese 8 mm. e 16 mm.. incoraggiato dal fotografo Leon Levinstein (cui ha dedicato This is a Histon of New York) e influenzato profondamente da fotografi come August Sander, Walker Evans. William Klein e Robert Frank e da cineasti come Jean Vigo e John Cassavetes. Spesso ispirato dalla musica, ha realizzato vari video non commerciali per “band” e musicisti (fra cui i R.E.M.. i Fugazi e Vic Chesnutt) e alcuni videofilm su brani di musica classica. Il ricavato del video sui R.E.M. Talk about tbc Passion è stato devoluto a un’organizzazione per l’assistenza ai senza casa. I fratelli Adam e Gabriel hanno spesso lavorato con lui. Cohen ha collaborato anche con poeti e scrittori. ama l’arte e la letteratura europea, detesta le multinazionali, Disneyworld, i parchi tematici e tutto quello che fa scomparire e che mette in svendita la storia. La madre è illustratrice di libri per bambini, e grazie a lei Cohen ha frequentato a lungo il mondo delle fiabe e delle leggende: “ho letto il vero Libro della Giungla, non l’ho conosciuto attraverso il film di Walt Disney”.
Lost Book Found cita Walter Benjamin, e Buried in Light è dedicato a Primo Levi. Oltre a realizzare film e video, Cohen si dedica talvolta alla scrittura di testi di argomento musicale o cinematografico per alcune riviste. Ha realizzato e pubblicato recentemente un’intervista ad Abbas Kiarostami, e ha scritto un testo su Patty Smith. Fra i film che ha più amato recentemente, II sapore della ciliegia di Kiarostami, La promesse di Luc e Jean-Pierre Dardenne, Safe di Todd Haines.
This is a Histon of New York, del 1988, con dedica a Jean Vigo, è stato trasmesso da varie reti televisive e ha vinto vari premi, fra cui il primo premio al Baltimora Film Festival e al New York Film and Video Expo nel 1989. Cohen ha cominciato a ottenere riconoscimenti internazionali nel 1996, grazie al videofilm Lost Book Found (1996). con cui ha vinto il primo premio alla Videonale di Bonn, il primo premio al Festival internazionale del Film di Locarno 1996 (sezione video), il premio della Giuria al Festival dei Popoli di Firenze 1996, il premio della Biennale del Film d’architettura “Film + Arc” a Graz, 1997 ed altri premi.
Cohen gira abitualmente in pellicola, e riversa in video le riprese per poter effettuare un lavoro di trasformazione dell’immagine, in particolare effetti di rallentamento. Oltre ai film e ai video. ha realizzato anche videoinstallazioni. Vive a New York: “è una città in cui non mi sento a casa, e forse sarà sempre così. Ma New York non mi annoia mai, e in questo senso la amo...”
 

 

 

THIS IS A HISTORY OF NEW YORK


USA 1988, 23’
Riprese e montaggio: Jem Cohen; Produzione: Jem Cohen; Musica: Gabriel Cohen, Jem Cohen, Brooks Williams.
Un ritratto straordinario di New York, nella tradizione delle grandi “sinfonie urbane” della storia del cinema. La metropoli è vista come se racchiudesse una storia infinita, dalla “preistoria” all’era spaziale, attraverso una lettura delle sue architetture e una loro catalogazione, ovviamente visionaria e poetica. Sette quadri a cui corrispondono altrettante stratificazioni architettoniche, altrettante miserie umane, edifici minacciosi o straordinari, le umanità più diverse. New York come accumulazione e inventario di epoche e civiltà. Documentario poetico, suggestione fotografica, ritratto sociale si intrecciano in una composizione senza parole.
“Un commento occasionale - leggiamo nella presentazione del video - viene offerto dal popolo della strada: predicatori, senzatetto, gente che vive alla giornata, e completato da una complessa colonna sonora (che va dai Canti Gregoriani rielaborati a originali composizioni di Gabriel Cohen) e dai rumori ambiente”.
“Metamorfosi di una città ove l’accumulo storico e la stratificazione umana proiettano sulle rovine del presente un’ombra che pare millenaria. Come può una metropoli di così recente formazione creare le premesse per un immaginario storico che parte dalle origini dell’umanità? Meraviglie del super 8 e della grana chimica di questo supporto minimo, fragile, assottigliato come un ciottolo nel lungo lavorio dei fiumi (lo stesso Cohen assimila i suoi lavori alla stele di Rosetta, un blocco di pietra consunto, inciso da una multiscrittura enigmatica e decisiva, frammento di una civiltà passata, o forse di una civiltà a venire...)”.
(Link, Bologna, ottobre 1996)
“... Nell’epoca dei cacciatori e dei raccoglitori, cani abbandonati pattugliano le strade mentre i senza casa vanno in cerca di cibo. Dopo, nel periodo medievale, folli predicatori di strada marciano freneticamente :pianti a minacciose architetture gotiche. La ricchezza di Cohen richiede nelle sue immagini ricorrenti, persecutorie, e nella percezione che la florida città di New York è in realtà l’accumulazione di fallimenti, come di grandezze, dell’umanità”. (Steve Seid, Pacific Film Archives)
“Di solito lavoro in strada con un’attrezzatura ridotta al minimo, e senza alcuna troupe. Cerco di porre al centro le cose che avvengono negli angoli, e di vedere l’architettura come il linguaggio umano degli edifici. Spesso preferisco lavorare alla cieca, usando mappe e frasi idiomatiche più come mazzi di carte che come guide... il mio progetto è una raccolta di appunti, una sorta di frasario del vagabondaggio.”
Jem Cohen)
This is a History of New York ha vinto il primo premio al Baltimora Film and Video Fest e il primo premio al New York Film and Video Expo, nel 1989.
 

 

AMBER CITY

Amber City è un film su Pisa. Per due settimane Jem Cohen percorre la città di giorno e di notte con una macchina da presa 16 mm alla ricerca d’immagini: strade, monumenti, facciate, musei, negozi, non lascia nulla al caso. Accompagnato da giovani cineasti locali, il regista si reca «là dove non c’è nulla da vedere e da guardare». Non vuole riproporre l’ immagine turistica di una città dal passato prestigioso. Si lascia impregnare dall’ambiente urbano, filmando gli abitanti, una macchina che passa, il panorama visto da un tetto: scopriamo i nuovi centri commerciali di Pisa che si affiancano ai monumenti storici. Amber City unisce storia, arte, vita urbana, offrendoci un punto di vista sulla città tra i più personali e contemporanei: la riscopriamo di colpo, come se la vedessimo per la prima volta.

 

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