Nel riflettere sul rapporto
tra film e video, “cinema” e “arte elettronica”, credo che il primo
pensiero dovrebbe essere: è buona l’opera che si sta guardando! Tocca lo
spettatore! Ha forza e fascino! Si ricollega profondamente a qualche
aspetto umano’. Ci offre un modo nuovo di vedere il mondo, o ci
ricongiunge con tradizioni più vecchie in modo tale da rivitalizzare sia
loro che lo spettatore moderno’. Certe volte si discute su un formato
piuttosto che su un altro, e si dimenticano così queste domande
fondamentali.
Sono un film/videomaker ibrido. Giro infatti sia in pellicola che in video
e di solito faccio la post-produzione in video, quindi il mio lavoro ha a
che vedere con entrambi i mezzi. La versione finale del mio lavoro esiste
quasi interamente solo in video.
Mi piacciono decisamente certe qualità intrinseche della pellicola che
sono raramente evidenti in video: le irregolarità della grana, le
transizioni a volte misteriose della luce.Tuttavia uso anche il
trasferimento da film a video per sperimentare possibilità nuove di
variare le velocità, i colori, le texture.
Inoltre, effettuo il montaggio su sistemi non-lineari che possono
influenzare notevolmente il lavoro. Questo tipo di montaggio incoraggia e
amplifica il mio uso di collezioni di immagini e suoni cui si può accedere
in modo casuale per poi collegarle o giustapporle. Poiché giro
costantemente, lavoro attingendo a una biblioteca della memoria e della
visione che deve essere ordinata e strutturata in studio di montaggio.
Il video e il montaggio digitale permettono anche di vedere immediatamente
scoloriture e dissolvenze, che così possono effettivamente essere intese
come parte integrante del linguaggio dell’opera.
Una delle mie inquietudini riguardo al video nasce dal fatto che le
industrie che hanno inventato e messo in commercio la tecnologia si sono
occupate pochissimo dei problemi di conservazione. Alcuni nastri che ho
girato solo qualche anno fa si sono già rovinati, e i formati vengono
inventati e accantonati così in fretta che anche se le raccolte di nastri
resistessero bene, difficilmente esisteranno ancora in futuro le
attrezzature per poterle visionare. Anche la pellicola ha i suoi problemi
di conservazione, eppure ci sono film in 8 mm degli anni Trenta che sono
ancora in forma smagliante. Col passare del tempo, questo diverrà un
problema via via più serio.
Comunque, le distinzioni fra video e film si stanno già attenuando, visto
che il film può essere trasferito su nastro; e il nastro su pellicola, per
essere proiettato. Ho sentito dire da qualcuno -e mi pare salutare- che
quello di “cinema” dovrebbe diventare un termine comprensivo di tutti i
tipi di immagini in movimento.
Per quanto riguarda il pubblico, gli spettatori sono intenzionati a vedere
qualunque cosa che davvero li interessi, indipendentemente dal formato.
Tuttavia, pochi oggi sono incoraggiati a sperimentare la visione come
esperienza concentrata, se non addirittura meditativa. Gli effetti di
modelli come MTV sono stati particolarmente dannosi, ma buona parte
dell’alienazione del pubblico è colpa degli artisti, il cui lavoro riesce
a essere così isolato, o formale, o concettuale, da non risultare
accessibile al grande pubblico. (Naturalmente, non tutta l’arte deve
essere accessibile a tutti, ma se ci soffermiamo sulla situazione del
medium, dovremmo considerare che molta gente è intimidita dalla
“videoarte” e ne è quindi emarginata.)
Ho l’impressione che il video sia stato gravemente penalizzato rispetto al
film per via di una presentazione modesta. A me piace l’intimità della
fruizione individuale, e l’idea che vedendo un’opera d’arte su un
registratore domestico (o su una rete non commerciale, o sul computer di
casa) lo spettatore possa riscattare la propria televisione dall’uso
commerciale e quotidiano che ha dato alla TV una così cattiva
reputazione. Credo ancora nella potenzialità, per la televisione, di
trasformarsi in una magica scatola luminosa per immagini e storie
piuttosto che solo per vendite e “informazione”, ma tutto questo è ancora
troppo raro. Sfortunatamente, la “visione distratta, frammentaria” che di
solito contraddistingue la televisione affligge spesso la visione di arte
elettronica nelle gallerie e perfino nei festival.
Mi piace anche la visione per piccoli gruppi, ma in ogni caso situazioni
con una buona visione producono una differenza straordinaria.
Quando la videoproiezione è buona, i risultati possono essere stupefacenti
e il pubblico, situato all’interno del “rituale” della proiezione
cinematografica, può avere l’opportunità di “perdersi” nelle opere che
vede.
Con una buona visione ci si può “perdere” nell’opera.
Purtroppo, la maggior parte delle videoproiezioni non è così buona. Di
solito i proiettori non sono tarati correttamente; l’intensità del nero e
il colore non sono calibrati in modo adeguato, e la dimensione dello
schermo è spesso troppo grande, il che va a scapito della definizione e
del contrasto. Fra una buona e una cattiva presentazione video c’è la
stessa differenza che corre fra una fotografia e una fotocopia.
Se la proiezione non è buona, preferisco allora di gran lunga che il mio
lavoro sia presentato su monitor, ma al giorno d’oggi la proiezione può
essere buona abbastanza da funzionare a meraviglia. Così, molto dipende da
come ce ne si occupa nel luogo della presentazione.
Qualunque sia il formato su cui l’opera è presentata, la zona di visione
dovrebbe essere effettivamente buia e isolata da suoni e distrazioni
dall’esterno. La visuale dovrebbe essere sgombra, e l’audio trasmesso da
un buon sistema ( spesso mi perito a realizzare i master dei miei nastri
in stereo, perché sono pochissimi i luoghi di diffusione in cui non si
perde uno dei canali).
Quando queste istanze saranno rispettate, e il lavoro stesso potrà esser
visto correttamente, la relazione e le differenze fra “arte elettronica” e
“cinema” risulteranno più chiare. E, cosa ancora più importante, al
contenuto e alla forza della singola opera sarà data la possibilità di
rifulgere.
Jem Cohen
Jem Cohen è nato nel
1962 in Afghanistan, dove il padre stava svolgendo la sua attività di
formatore di insegnanti. Sempre al seguito dell’attività paterna, si è
spostato durante l’infanzia in vari paesi del mondo, fra cui il Brasile,
per poi rientrare negli Usa, dove la famiglia, di origine ebraica, era
emigrata dall’ Europa dell’est. All’età di dieci anni, nel 1972, ha
partecipato con i suoi genitori, a Washington D.C., alla più grande
marcia svoltasi negli Usa contro la guerra in Vietnam. Dopo gli studi
universitari, che gli hanno fatto scoprire e amare fra l’altro il cinema
italiano, e in particolare il neorealismo, Jem Cohen si è stabilito a New
York, dove per mantenersi ha svolto per un periodo il lavoro di venditore
ambulante. In seguito ha lavorato come assistente di scena sul set di vari
film (fra cui After Hours di Martin Scorsese e Sid and Nancy
di Alex Cox), cominciando contemporaneamente a sviluppare un’attività
personale di cineasta, utilizzando vecchie cineprese 8 mm. e 16 mm..
incoraggiato dal fotografo Leon Levinstein (cui ha dedicato
This
is a Histon of New York) e
influenzato profondamente da fotografi come August Sander, Walker Evans.
William Klein e Robert Frank e da cineasti come Jean Vigo e John
Cassavetes. Spesso ispirato dalla musica, ha realizzato vari video non
commerciali per “band” e musicisti (fra cui i R.E.M.. i Fugazi e Vic
Chesnutt) e alcuni videofilm su brani di musica classica. Il ricavato del
video sui R.E.M. Talk about tbc Passion è stato devoluto a
un’organizzazione per l’assistenza ai senza casa. I fratelli Adam e
Gabriel hanno spesso lavorato con lui. Cohen ha collaborato anche con
poeti e scrittori. ama l’arte e la letteratura europea, detesta le
multinazionali, Disneyworld, i parchi tematici e tutto quello che fa
scomparire e che mette in svendita la storia. La madre è illustratrice di
libri per bambini, e grazie a lei Cohen ha frequentato a lungo il mondo
delle fiabe e delle leggende: “ho letto il vero Libro della Giungla, non
l’ho conosciuto attraverso il film di Walt Disney”.
Lost Book Found cita Walter Benjamin, e Buried in Light è
dedicato a Primo Levi. Oltre a realizzare film e video, Cohen si dedica
talvolta alla scrittura di testi di argomento musicale o cinematografico
per alcune riviste. Ha realizzato e pubblicato recentemente un’intervista
ad Abbas Kiarostami, e ha scritto un testo su Patty Smith. Fra i film che
ha più amato recentemente, II sapore della ciliegia di Kiarostami,
La promesse di Luc e Jean-Pierre Dardenne, Safe di Todd Haines.
This is a Histon of New York, del 1988, con dedica a Jean Vigo, è
stato trasmesso da varie reti televisive e ha vinto vari premi, fra cui il
primo premio al Baltimora Film Festival e al New York Film and Video Expo
nel 1989. Cohen ha cominciato a ottenere riconoscimenti internazionali nel
1996, grazie al videofilm Lost Book Found (1996). con cui ha vinto
il primo premio alla Videonale di Bonn, il primo premio al Festival
internazionale del Film di Locarno 1996 (sezione video), il premio della
Giuria al Festival dei Popoli di Firenze 1996, il premio della Biennale
del Film d’architettura “Film + Arc” a Graz, 1997 ed altri premi.
Cohen gira abitualmente in pellicola, e riversa in video le riprese per
poter effettuare un lavoro di trasformazione dell’immagine, in particolare
effetti di rallentamento. Oltre ai film e ai video. ha realizzato anche
videoinstallazioni. Vive a New York: “è una città in cui non mi sento a
casa, e forse sarà sempre così. Ma New York non mi annoia mai, e in questo
senso la amo...”
THIS IS A
HISTORY OF NEW YORK
USA 1988, 23’
Riprese e montaggio: Jem Cohen; Produzione: Jem Cohen;
Musica: Gabriel Cohen, Jem Cohen, Brooks Williams.
Un ritratto straordinario di New York, nella tradizione delle grandi
“sinfonie urbane” della storia del cinema. La metropoli è vista come se
racchiudesse una storia infinita, dalla “preistoria” all’era spaziale,
attraverso una lettura delle sue architetture e una loro catalogazione,
ovviamente visionaria e poetica. Sette quadri a cui corrispondono
altrettante stratificazioni architettoniche, altrettante miserie umane,
edifici minacciosi o straordinari, le umanità più diverse. New York come
accumulazione e inventario di epoche e civiltà. Documentario poetico,
suggestione fotografica, ritratto sociale si intrecciano in una
composizione senza parole.
“Un commento occasionale - leggiamo nella presentazione del video - viene
offerto dal popolo della strada: predicatori, senzatetto, gente che vive
alla giornata, e completato da una complessa colonna sonora (che va dai
Canti Gregoriani rielaborati a originali composizioni di Gabriel Cohen) e
dai rumori ambiente”.
“Metamorfosi di una città ove l’accumulo storico e la stratificazione
umana proiettano sulle rovine del presente un’ombra che pare millenaria.
Come può una metropoli di così recente formazione creare le premesse per
un immaginario storico che parte dalle origini dell’umanità? Meraviglie
del super 8 e della grana chimica di questo supporto minimo, fragile,
assottigliato come un ciottolo nel lungo lavorio dei fiumi (lo stesso Cohen assimila i suoi lavori alla stele di Rosetta, un blocco di pietra
consunto, inciso da una multiscrittura enigmatica e decisiva, frammento di
una civiltà passata, o forse di una civiltà a venire...)”.
(Link, Bologna, ottobre 1996)
“... Nell’epoca dei cacciatori e dei raccoglitori, cani abbandonati
pattugliano le strade mentre i senza casa vanno in cerca di cibo. Dopo,
nel periodo medievale, folli predicatori di strada marciano freneticamente
:pianti a minacciose architetture gotiche. La ricchezza di Cohen richiede
nelle sue immagini ricorrenti, persecutorie, e nella percezione che la
florida città di New York è in realtà l’accumulazione di fallimenti, come
di grandezze, dell’umanità”. (Steve Seid, Pacific Film Archives)
“Di solito lavoro in strada con un’attrezzatura ridotta al minimo, e senza
alcuna troupe. Cerco di porre al centro le cose che avvengono negli
angoli, e di vedere l’architettura come il linguaggio umano degli edifici.
Spesso preferisco lavorare alla cieca, usando mappe e frasi idiomatiche
più come mazzi di carte che come guide... il mio progetto è una raccolta
di appunti, una sorta di frasario del vagabondaggio.”
Jem Cohen)
This is a History of New York ha vinto il primo premio al Baltimora
Film and Video Fest e il primo premio al New York Film and Video Expo, nel
1989.
AMBER CITY
Amber City è un film su Pisa. Per due settimane Jem Cohen percorre
la città di giorno e di notte con una macchina da presa 16 mm alla ricerca
d’immagini: strade, monumenti, facciate, musei, negozi, non lascia nulla
al caso. Accompagnato da giovani cineasti locali, il regista si reca «là
dove non c’è nulla da vedere e da guardare». Non vuole riproporre l’
immagine turistica di una città dal passato prestigioso. Si lascia
impregnare dall’ambiente urbano, filmando gli abitanti, una macchina che
passa, il panorama visto da un tetto: scopriamo i nuovi centri commerciali
di Pisa che si affiancano ai monumenti storici. Amber City unisce
storia, arte, vita urbana, offrendoci un punto di vista sulla città tra i
più personali e contemporanei: la riscopriamo di colpo, come se la
vedessimo per la prima volta.
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