Le tre domande dell'inchiesta
sono: In che anno sei nato? Che cosa fai? Che cosa desideri di più ed è
più importante per te?
Kieslowski non è stato grande fin da piccolo, fin dagli inizi. La sua
ricerca ha preso l'avvio con i primi saggi scolastici, è proseguita con
documentari, inchieste, lavori occasionali, progetti abortiti, tentativi
di film di finzione, è infine giunta a maturazione con Il cineamatore
(1979); Il caso (1981); e Senza fine (1984). Kieslowski ha
lavorato su due fronti: si è aperto a fatica un percorso in mezzo agli
ostacoli consueti in un paese del socialismo irreale (censura, controlli
burocratici, ostilità del potere, limitati mezzi produttivi) e,
altrettanto faticosamente, ha ingaggiato una battaglia con il cinema per
scoprire un proprio modo di girare, di costruire un film.
"Non credo né alla bellezza, né alla missione, né all'affascinante
fugacità, né alla funzione sociale della mia professione. Non credo
nemmeno che questa scatola, con la pellicola dentro, sopravviva e conservi
qualcosa per qualcuno. Non credo a niente di tutto questo. Faccio dei film
per registrare. Sono molto legato alla realtà,
perché ciò che esiste è più intelligente e ricco della mia visione e di me
stesso. La registrazione dell'esistenza mi basta. Cerco di esprimere la
mia inquietudine attraverso quella di qualcun altro ma niente di più. È
l'inquietudine e non l'amore, la speranza e tutto il resto che mi fa
alzare al mattino. "L'inquietudine racchiude in sé sempre una domanda".
Queste parole tratte da una dichiarazione di Kieslowski del 1979
fotografano perfettamente l'atteggiamento del regista polacco nei
confronti del proprio cinema, che i suoi cortometraggi documentari
rispecchiano con nitidezza. La sua inquietudine è anche una continua
interrogazione sul cinema. Una evidente impronta teorica, un tentativo
sempre rinnovato di riscoprire il cinema stanno dietro ogni lavoro. Da
qui, l'impressione di acuta chiarezza che caratterizza tutto il suo
cinema, mai lasciato a se stesso, sempre indirizzato a realizzare
un'ipotesi di lavoro, di messinscena.
Cogliere la realtà e metterla in cinema, è questo il compito che si dà il
documentarista Kieslowski. La realtà è quella pesante, grigia, della
Polonia socialista. Kieslowski è cineasta d'opposizione, oltre che di
ricerca. Quando guarda alla gente, la vede alle prese con i guasti della
società polacca, con le prevaricazioni di una burocrazia ottusa e con la
insopportabilità di una politica che ha la faccia di uomini di partito e
funzionari statali, untuosi, ubbidienti, minacciosi. Distacco e freddezza,
ma anche sbigottimento e sorpresa: la lucidità porta a registrare le cose
e a metterle in forma secondo gli schemi della ripetitività, dei giorni e
delle ore; l'inquietudine vuole trasgredire e l'andamento banale e piatto
dell'esistenza cerca i momenti in cui la superficie delle cose si rompe.
Kieslowski registra sì la realtà ma le fa anche la posta per coglierne le
smagliature, le crepe che vi si possono aprire all'improvviso.
A partire dal 1968 ho realizzato numerosi documentari. Una trentina. E
inoltre lungometraggi di finzione e telefilm. E ancora sceneggiati in
video per la televisione, che a mio parere sono un'altra forma di regia
cinematografica. E infine la messa in scena teatrale di un mio testo,
Curriculum vitae, basato sul mio documentario dallo stesso titolo.
Tra i documentari, naturalmente ho le mie preferenze, ma senza esagerare.
Guardo sempre a quello che ho fatto con un certo distacco. Per me è
abbastanza difficile provare vere preferenze. Mi piacciono abbastanza,
comunque, Curriculum vitae, La fotografia, Dalla città di Lodz,
L'ospedale.
Dal punto di vista del guardiano notturno.
Perché faccio dei lungometraggi? Perché ci sono temi che non possono
essere trattati in un documentario, sia perché non si prestano alla breve
durata, sia perché la verità non può essere piegata a questi temi. Ad
esempio, il documentario penetra con difficoltà nella vita privata; ognuno
di noi desidera conservare il riserbo intorno alla propria, non gradisce
essere esibito in uno spettacolo. I grandi temi psicologici, politici, non
si lasciano facilmente trattare in un documentario: bisognerebbe filmare
il modo di vivere degli uomini, il loro rapporto col lavoro, con le donne.
È molto difficile ottenere il loro accordo. Per questi motivi ho deciso di
fare film di finzione. Ma si tratta di una diversa forma di espressione?
Certamente, perché sono costretto a inventare io stesso, a creare il mondo
da filmare. Inoltre, quando giro un
lungometraggio, sono sempre al corrente di come andrà a finire. Mentre
quando giro un documentario lo ignoro. E proprio questo è appassionante:
non so come finirà l'inquadratura che sto girando in questo momento, e
ancor meno come finirà il film. Secondo me il documentario è una forma
d'arte superiore al film di finzione. Penso che la vita sia più
intelligente di me, crea situazioni più interessanti di quelle che sono
capace di inventare da solo.
Quando facevo documentari mi sentivo molto vicino alla vita, alla gente
reale. Il documentario mi permetteva di conoscere le reazioni della gente,
il loro modo di vivere. Il documentario è un'ottima scuola per imparare il
pensiero sintetico del cinema. L'esperienza del documentario mi ha
influenzato enormemente. Agli inizi ero affascinato dalla frontiera tra la
finzione e la realtà, dalla loro articolazione. Nello stesso tempo, tra i
due approcci, il documentario e il film di finzione, c'è una differenza
fondamentale, una differenza che riguarda il modo di costruzione. Nel film
narrativo la storia è fondata sull'azione, nel documentario è l'idea che
comanda. Raccontare l'idea partendo dal principio che l'idea è più
importante dell'azione: questa preoccupazione mi è rimasta.
L'ospedale è nato per raccontare della sanità o delle sofferenze della
gente. Sentivo il bisogno di fare un film sulla fratellanza, la cercavo
ovunque, da una squadra di pallavolo a un convento di frati. Per vari
motivi ho abbandonato diversi esempi concreti di questa
idea generale e sono giunto alla conclusione che bisognava fare un film su
un gruppo di persone che si unisce per portare aiuto a chi ne ha bisogno.
Ho aggiunto il mio scopo? A me sembra di sì. Durante i tre mesi di
preparazione medici mi hanno raccontato moltissimi aneddoti. Tra i quali,
uno era davvero incredibile. Vent'anni prima un chirurgo aveva conficcato
a colpi di martello un chiodo nella gamba di un malato e il martello si
era rotto. Avevo deciso di mettere questa storia nel film. Sistemo la
macchina da presa in sala operatoria e aspetto.
Portano un malato, io inizio a filmare, comincia l'operazione... e il
martello si rompe davvero!
Sette donne di età diversa è un po' diverso dai miei soliti film. Ma forse
non è vero neanche questo. Ogni tanto faccio un film che si occupa di cose
un po' più generali: un film imperniato su idee di portata un po' più
ampia delle mie solite indagini documentarie. Ma devo riconoscere che
quelle idee mi piacciono meno, mi interessano meno, sia quando giro il
film, sia dopo.
Però non posso certo rinnegare quel che ho fatto. Non mi sembra che il
film sia segnato dall'amarezza. Penso che la vita a volte porti con se
delle soddisfazioni, altre invece sia amara. Esiste l'una e l'altra cosa.
In genere dipende solo dalla scelta del tema e il tema del mio film non
erano le soddisfazioni, ma l'idea che la vita inizia, continua, finisce.
Forse allora la vita mi sembrava triste, domani invece mi può benissimo
apparire allegra e posso mettermi a girare un film molto più sereno e
pieno di soddisfazioni sulle stesse ballerine. Lei dice che Sette donne è
amaro: se lo è, non è perché l'abbia voluto io così. Nell'ultima sequenza,
in cui da tutto ciò che è passato emerge un senso, un insegnamento, mi
pareva di aver dato al film un altro carattere, non solo amaro.