UNA NUOVA PROSPETTIVA SULLA STORIA DI ROMA


ARTICIOC


N.B. il testo originale è in grassetto e tra virgolette.

Nel 1936-anno XIV la Carlo Signorelli editore stampava il libro 31° della Storia romana di Tito Livio (Ab urbe condita liber XXXI Titii Livii), facente parte di una collana di scrittori classici intitolata <<Biblioteca di letteratura>>. La cosa più interessante del libro è l'introduzione scritta dal traduttore, Pietro Novelli: in un'epoca di fascismo imperante e glorificazione della fasti di Roma millenaria, viene scritta una dura critica alla società ed al governo romani, da un ignoto studioso (probabilmente di formazione culturale cattolica o socialista, ma forse anche un libero pensatore autodidatta) che mette in luce tutti quegli aspetti della storia romana che i libri di storia (specie quelli d'allora) tralasciavano o mostravano in parte: guerre continue, repressione politica, avidità e ferocia di soldati e senatori: insomma una lucida ed - a tratti - impietosa esposizione di un mondo tutt'altro che ordinato e libertario, a differenza di quanto comunemente si ritenesse (e si ritenga ancora oggi).
La critica del Novelli colpisce indirettamente, ma in maniera abbastanza evidente, anche le mitizzazioni del fascismo in generale e di Roma millenaria in particolare, come si evince già dalle prime righe della sua introduzione: "Vi sono due modi di studiare gli antichi scrittori...: uno che si potrebbe chiamare giovanile usato nelle Scuole medie, l'altro che si potrebbe chiamare virile, proprio degli adulti, libero da ogni vincolo di programmi." Spiegerà poi il Noveli che il primo studia solo la grammatica, lo stile, insomma la forma, mentre il secondo "i fatti e le idee", ma lo si potrebbe anche leggere così: <<la retorica delle scuole è una cosa per bambini, ma lo studio della storia, ("historia magistra vitae" scriverà in fine capoverso) è una cosa seria, da analizzare senza mitizzazioni per trarne insegnamento e non propaganda.>> Insomma, una velata critica all'esaltazione littoria.
Quindi il Novelli passa a tratteggiare brevemente delle informazioni sulle fonti di Tito Livio e sul contenuto del presente libro XXXI.
Dice il Novelli che Livio attinse dagli annalisti romani ed anche greci e dalle relazioni dei consoli contenute negli archivii di Stato del Tabulario a Roma: relazioni però che "presentavano i fatti nella luce migliore possibile e tacevano le notizie che non avrebbero fatto onore...: onde noi possiamo conoscer la verità fino ad un certo punto. Gli storici antichi poi si riproponevano di dilettare i lettori, come fanno oggi gli scrittori di giornali. Dal racconto Liviano dunque non si può conoscere la completa verità ma solo una parte di essa", cioè la parte gloriosa ed onorevole: così a forza di tramandare il bene e dimenticare il male, la storia antica divenne una lode di sè stessa, lode poi mitizzata nelle scuole ancor prima del rinascimento e poi proseguita fino a diventare una descrizione appassionata di un'età dell'oro, dove i lettori trovavano un mondo tutto eroi e valorosi, ogni tanto offuscato da qualche figura di 'cattivo', qualche Catilina-Lex Luthor e qualche Nerone-Joker, che dopo aver combinato le sue malefatte viene alla fine punito dai virtuosi romani, a maggior loro gloria. Da notare anche l'equazione giornali-libri storici: quelli che ci narrano del presente e quelli che ci narrano del passato sono più scritti per diletto che per informare veramente. E per di più, non tutto dicono.
Quindi il Novelli non risparmia una sparata sul De Bello Gallico di Giulio Cesare:
"Un campione abbastanza esteso delle relazioni di consoli lo abbiamo nei Commentari che vanno sotto il nome di Cesare, nei quali l'autore fece l'apologia della propria impresa, ma tacque molte notizie che per noi avrebbero avuto non poca importanza. Egli, ad es., nulla dice sulle somme vistosissime di denaro che l'egregio comandante ricavò dalla Gallia e con le quali pagò, al suo ritorno, parecchi milioni di debiti. Molti altri milioni gli servirono per assoldare e tener fedeli le legioni durante i moti civili".

A questo punto inizia il secondo capitolo dell'introduzione, dove il Novelli tratteggia gli avvenimenti precedenti a quelli narrati nel libro, cioè la Guerra punica, dove qua e la lancia qualche frecciatina:
* alla società di Roma, dato che "la guerra... ai Romani costava ben poco perchè i soldati, che in origine dovevano mantenersi a proprie spese, dal 406 a.C. in poi, ricevevano un misero stipendio... Solo al tempo delle guerre civili fra Mario e Silla, le milizie cominciarono ad esser ben pagate, perchè mantenute dagli ambiziosi e ricchi capi dei partiti.... Gli eserciti Italici erano, si sa, ciechi strumenti dell'esoso capitalismo romano",
* al celebratissimo valor militare romano "I Cartaginesi, del resto, erano stati quasi sempre sconfitti anche dagli altri popoli."

Al terzo capitolo, si riassume un po' gli avvenimenti storici del periodo compreso nel libro. "i Romani passarono a far le vendette contro quelli che avevano aiutato Annibale" fra cui alcune regioni italiane che essendosi unite ad Annibale contro Roma "dimostra quanto fosse profondo il loro odio -exsecrabile odium dice Livio- contro il dominio romano. Questo fatto viene nascosto o passato sotto silenzio, come se non avesse alcuna importanza".
Intanto i popoli celtici della Gallia Cisalpina (cioè quel territorio compreso fra le pendici delle Alpi a nord e l'Arno ed il Rubicone a sud) erano in rivolta e per diversi anni la loro guerriglia impegnò le legioni ed i comandanti reduci dalla Guerra punica, beffando anche Scipione l'Africano, fino al 192 a.C. quando il console Publio Cornelio Nasìca, "che si vantò in senato di non aver lasciato vivi nella Gallia Cisalpina se non i vecchi, le donne e i fanciulli", sconfisse i Galli Boi a Modena e Lucio Cornelio Marcello che distrusse i Liguri a Pisa. Vista la storia successiva, sapremo bene che l'affermazione di Nasìca si rivelò poi sbagliata, come quasi sempre succede ai generali che dicono di aver ammazzato tutti i nemici.
Un altro alleato di Annibale era Filippo V di Macedonia, che imperversava in Grecia nel tentativo di toglierle quella libertà che definitivamente le toglieranno i romani.
"La seconda guerra punica era terminata da pochi mesi, allorchè il governo romano presentò al popolo, nei comizi centuriati, la proposta di muover guerra a Filippo. Il popolo la respinse; il tribuno della plebe rinnovò il lamento... che non si lasciava il popolo in pace, e troppa gioventù veniva mandata a quel macello che si chiamava guerra. [...] Il console Sulpicio Gallo allora raccolse i fautori ed i propagandisti della guerra e con un patriottico discorsetto sostene la necessità di andare contro Filippo [...]. Il popolo, come sempre avveniva quando lo esigeva il Senato, approvò. Presi gli auspicii, anche gli déi - sempre d'accordo quando occorreva, coi sacerdoti e col governo - si dimostrarono favorevoli all'impresa. Il Senato continuava così la politica di conquista che riempie e dà il carattere a tutta la storia di Roma dai suoi primordi fino a quando vi fuorno paesi da conquistare. Quando non ve ne furono più, si riaccese fra patrizi e plebei l'antica guerra interna ... per cui dal regime repubblicano si passò all'Impero, forma di monarchia militare assoluta ed elettiva che, tranne brevi pause, fu una continua decadenza del dominio romano e finì col trascinarlo sotto al signoria dei Germani." Fine capitolo. Un excursus fin troppo rapido e parecchio semplicistico, ma che se non altro batte forte quella campana che finora non s'era sentita, cioè quella della critica alla romanità come cultura di libertà ed ordine.

Nel capitolo IV troviamo una dura accusa contro "il governo romano, generalmente ritenuto, per antica tradizione, come un capolavoro di sapienza politica; ma è un errore, poichè essendo fondato sulla forza, sull'astuzia e sui privilegi, cioè sull'ingiustizia, non riuscì mai - e non poteva riuscire - a trovare l'equilibrio nell'assetto sociale. La complicatissima e farraginosa costituzione romana era, in sostanza, un governo di carattere più barbaro che civile" che dava benessere ai pochi e che "fu - per sventura dell'umano genere - imitata e presa a modello dalle successive generazioni e valse a prolungare per parecchi secoli, fino ai giorni nostri, quello stato di profondo disagio che affligge più o meno tutti i popoli".
Qui Novelli esagera, ma non di molto: il continuo prendere a modello l'epoca romana, in giurisprudenza, letteratura, scienza ecc. passato il Rinascimento non fu che un peso alla naturale evoluzione di queste arti (e Galileo docet).
In seguito il Nostro passa all'esame delle profonde ingiustizie che le leggi romane mantenevano, senza contare le confusioni istituzionali interne fra consoli, pretori, tribuni della plebe, interrè e via dicendo, tutti desiderosi di far valere la propria presunta autorità sugli altri; dai varii contrastri fra le adunanze legali (comizii centuriati, curiati e tribuni, senato); dai varii lobbismi ed oppressioni dei popoli italici e provinciali; conflitti e confusioni che insomma condussero alla fine all'instaurazione dell'Impero.
Da notare che le celebri e celebrate Leggi delle XII tavole vengono definite: 1) "rozze e meschine", 2) "oscurissime anche per i giurati dell'epoca di Cicerone" in poi e 3) d'incerta esistenza "poichè alcuni scrittori moderni (Pais, Lambert, ecc.) sostennero che quelle leggi siano una delle molte favole a noi tramandate dall'antichità."

Capitolo V:
"Per impedire le agitazioni della plebe, i patrizi applicarono due rimedi che sono tuttora adoperati dai governi, cioè la povertà dei cittadini e la guerra. Si cercò di tener la plebe immersa nella miseria ... e i moralisti antichi non mancavano di lodare la povertà come fonte di virtù. [...] Chi invece ne è (di denaro) ben fornito si sente e si mostra fiero" anche perchè non è impegnato a tempo pieno a mettere insieme il pranzo colla cena. Al "popolo famelico" si dava grano gratis, estorto agli altri popoli, e per distrarlo e "gli si offrivano giochi e spettacoli gratuiti per divertirlo come si fa con i bambini; la religione pensava ad addormentarlo ed impaurirlo." Quando poi la "poveraglia" diveniva troppo numerosa, si mandava un po' dei tapini più turbolenti in qualche colonia lontano dai coglioni o "li si acquietava" distribuendo qualche campetto rubato ai primigeni detentori.
"L'altro mezzo adoperato dai patrizi fu ... la guerra esterna, che rendeva impossibile quella interna o civile, <<Externum timor est maximum concordiae auxilium>> scriveva Livio (II, 39). Ogni anno si esogitava qualche spedizione per mandare l'esuberante numero di bastardi plebei a perder la vita in lontani paesi, a contrar malattie che li rendevano invalidi e a macerarli con la disciplina militare. [...] Con la guerra gli ufficiali si arricchivano, ma i soldati tornando a casa si trovavano in maggior miseria di prima;" Quindi il Novelli descrive lo stato dell'Italia romana abbandonata dai soldati per le guerre i quali, "tornati a casa abituati all'ozio delle caserme non avevano voglia di riprendere la vanga e l'aspro lavoro della terra." Con questo sistema però Roma procrastinò gli scontri sociali (chè non poteva evitarli) ed ingoiò il territorio di un enorme numero di popolazioni sconfitte. La larvata critica al bellicismo fascista, allora intento a spinger la nazione ad invadere l'Abissinia, diventa un po' più aperta una ventina di righe più sotto: "Ma se giusta è la guerra di difesa del patrio suolo, contro un nemico che lo invade, non altrettanto si può dire delle guerre di conquista, che i Romani spinsero, in modo esagerato, dalle foreste della germania ai deserti dell'Africa".
L'odio dei paesi sottomessi si manifestò con opera lenta ma profonda, in campo religioso (visto che il militare era precluso): la 'vendetta' fu "compiuta a un tempo dai sacerdoti Greci, Siriaci ed Egiziani che creando il Cristianesimo tolsero all'imperatore l'autorità e il potere religioso e dai filosofi (quali?) che predicando l'eguaglianza di tutti gli uomini abbatterono (quando?) la schiavitù e le differenze di classe e demolirono i cardini su cui riposava la società antica. La raffinata civiltà greco orientale ... corruppe quel popolo che si era arricchito spogliando gli altri; e con gli intrighi della politica riempì le legioni di soldati germanici, spingendoli ad assalire e rovesciare il trono dei Cesari". Nientemeno!

Capitolo VI: malefatte della repressione dei romani, che - per esempio - presero Capua che "fu ridotta un monumento sepolcrale del popolo  Campano". Durante l'assedio 27 senatori capuani s'avvelenarono per non farsi catturare; 53 loro colleghi d'altro avviso ricevettero lo stesso la morte decapitati dai romani; 300 nobili vennero messi in carcere ed il resto della popolazione venduta schiava. Sorte analoga toccò ad Ascoli nella Guerra sociale. "La città (di Capua) venne ripopolata di libertini, di rivenduglioli e di villani" completamente sottoposta ai prefetti nominati nell'Urbe. Secondo il Novelli la distruzione delle città ribelli era "l'applicazione pura e semplice di un metodo costante, un atto, si direbbe oggi, di ordinaria amministrazione del governo romano, che in altri casi fece distruggere Veio, Numanzia, Cartagine, Corinto, Gerusalemme.", cioè del terrore nei confonti di quelli che non stavano al loro posto (gli Italici venivano considerati "razza inferiore"), terrore esercitato dai patrizi prima e dagli imperatori poi sui plebei e sui popoli sottomessi, che ritroveremo in molteplici fasi della storia umana, dai monarchi medievali ai Soviet Supremi, dai regimi polizieschi ai nobili feudatari.
Ecco spiegato l'odio feroce di Annibale o di Filippo, e perchè il sannita ribelle Ponzio Telesino definiva i romani "lupi divoratori della libertà".

Il capitolo VII dell'introduzione del Novelli si concentra su due questioni: la mancanza cronica del grano, che Italici, siculi e (più tardi) egiziani sono costretti ad inviare, "mentre i 12000 Kmq del Lazio costituivano latifondi destinati appena appena al pascolo delle pecore sabine. [...] Anche il resto d'Italia era trasformato in latifondi come altre province, metà di quelle dell'Africa, a dir di Plinio (St. nat. XVIII, 7), apparteneva a sei proprietari. ... le braccia dei soldati venivano a bella posta sottratte al lavoro dei campi." Cioè per Roma la costrizione alla guerra come sotterfugio per affamare la popolazione era parte di un circolo vizioso vistochè la tensione sociale data dalla popolazione affamata veniva risolta con altre guerre.
"Dal capitolo 34° del libro appprendiamo un particolare generalmente ignorato, che concorre a spiegare le numerose vittorie romane. Gli storici di solito le attribuiscono alla severa disciplina, alla superiorità dell'armamento e della tattica romana e sopra tutto alla robustezza dei soldati; ma tacciono o ignorano che le battaglie consistevano in una lotta corpo a corpo in cui i Romani, per natura sanguinari e feroci (sottolineatura mia) usavano con abilità la cosiddetta spada spagnola. [...] era un'arma micidiale più degna d'assassini e di macellai [...] Lo scempio fatto dai soldati Romani sui corpi dei Macedoni non poteva non atterrire i soldati di Filippo ed il re medesimo." Stroncatura definitiva ed esemplare della cosiddetta <<grandezza romana>>.
Quindi il Novelli ci riporta un fatto interessante del 44° capitolo: re Filippo, sdegnatosi contro gli ateniesi per la loro ribellione "non potendo punire gli uomini, volle punire gli dei loro complici, abbattendone i templi." I sacerdoti ateniesi, furiosi per quell'affronto e perchè gli dei stessi non si vendicarono, maledirono il re macedone e spronarono la popolazione a giustificare ogni cittadino che uccidesse chiunque facesse o dicesse qualcosa in onore di Filippo.
In ultima ragione, l'introduzione sta ad avvertire il lettore: attento, qui è presentata sola una versione dei fatti, sappi che la realtà è diversa e più sfumata, e che questo non vale solo per il passato ma anche per il presente.

Addentrandoci nella croncaca liviana troviamo qua e là delle note del Novelli d'un certo interesse o, se non altro, scritte con spirito. Ad esempio, a p. 27: "Publio Cornelio Scipione (Livio non lo chiama l'Africano, perchè questo titolo non si sa se gli fu dato dai soldati o dal popolino o anche semplicemente dagli amici suoi adulatori)". In quella dopo i <<giochi plebei>> sono definiti "giochi - gratuiti s'intende perchè pagavano i magistrati a proprie spese per sollazzare la plebaglia". A p. 35 si nota con ironia che le offerte in cibo poste nel tempio di Giove Capitolino "chiuso il tempio, le vivande erano consumate dai sacerdoti e dai sagrestani del tempio."
A p. 43 troviamo una breve biografia di tal Quinto Pleminio: "Q. P., esimio delinquente benchè legato di Scipione, durante la II guerra punica rubò (205 a.C.) denari dal tempio di Locri, città di cui aveva avuto il comando da Scipione. Accusato a Roma, secondo alcuni morì prima della condanna, secondo altri fu giustiziato nel 194 prima che alcuni suoi uomini prezzolati riuscissero a liberarlo dal carcere durante un incendio che egli voleva appiccare in parecchi luoghi di Roma."
Il Senato romano vien definito, in una nota a p. 44, "complice dei sacerdoti nell'abbindolare e turlupinare il popolo."
La perla, nonchè notizia più interessante, la si trova a p. 96, dove il Novelli stabilisce una relazione fra i sacerdoti ateniesi - che maledicevano il nemico e benedicevano la nazione - e la Chiesa: "Il clero cattolico di Francia alla fine delle funzioni solenni recita una preghiera per il governo repubblicano, come prima la recitava per l'imperatore e domani - se occorresse - per il comunismo: Domine, salvam fac rem publicam... (imperatorem)...": lo spazio dopo i puntini (mezza riga) stimola a pensare ad un'improbabile <<democrathian popularem>> o <<r. p. socialistam sovieticam>>, oggigiorno eventualità  pressochè impossibile, per fortuna.
In ultimis a p. 99 il Novelli definisce il resoconto di una breve operazione navale romana quasi una "storia di una banda di antichi pirati".

E' un peccato che non s'abbia potuto ritrovare altri scritti di questo sarcastico autore, iconoclasta ed anticonformista in un'epoca che comunemente si pensa poco inclina a dar spazio a questa gente e vien da pensare che probabilmente, il diavolo non era così brutto come lo si dipinge. Ulteriore dimostrazione al non prestare mai fede alle mitizzazioni della storia, politiche o scolastiche che siano.



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