“Il mondo contadino nel nostro passato"
Parte 1
Dopo la lunga estate, arrivava l'autunno preceduto da violenti temporali che
scuotevano ogni cosa. Il cielo si
rabbuiava quasi improvvisamente. La
campagna assumeva altri colori. Folate
di vento scuotevano impetuosamente i rami e le foglie già vizze: quelle del
mandorlo, del noce, del fico, del pero si inseguivano in un vortice sempre più
intenso, sino a giacere stanche, al cessare del vento.
La terra, arsa, assetata, era come in attesa. Aspettava impaziente, dall'alto, nuovo vigore e nuova
energia, a braccia aperte, come per dire: "Sono pronta”. Saette lucenti squarciavano risolute il cielo rompendo a
serpentina l'uniformità delle nuvole che subito si ricomponevano.
Seguivano, quasi subito, enormi boati, assordanti, rumorosi, sinistri,
che si sfaldavano in lontananza, chissà dove.
Lo sapevano bene i contadini, e sapevano che qualcuno di loro ci aveva lasciato
la pelle, "allampatu cu la mula, vicino all'albero di
mandorlo, smembrato dal tuono e ridotto a schegge.
Nasceva un'insolita animazione. Si
sentivano voci vicine e lontane, concitate e frettolose.
"Piglia tutti cosi e portali a li robi". "Allistitivi ca
sta vinennu lu timpurali . "Arricuglitivi”.
Ma già grosse gocce facevano sentire il loro tic-toc-tac che diventava sempre più
frenetico e uniforme.
Pioveva. Qualcuno cercava riparo
come e dove poteva. Nel maggese i
muli continuavano a strappare svogliatamente ciuffi
d'erba, ormai secca, incuranti dell'acqua che li inzuppava e rendeva lucidi,
molli, appiccicaticci i peli, e che scivolando sul dorso, si perdeva tra le
crepe della terra.
Ogni rumore era cessato all'improvviso. Gli
alberi sembravano protendere i loro rami ad accogliere la benefica pioggia.
Gli uccelli erano spariti d'incanto.
Si vedeva qualche minuscolo pettirosso che appariva goffo sul ramo, come
un batuffolo di cotone colorato, con le piume inumidite che ogni tanto
scrollava, muovendo in giro i suoi occhietti vispi e civettuoli.
Il pastore si affannava con fischi, urla e verga a portare le pecore al sicuro,
al dì là del fiume, pericoloso per le piene vorticose dei primi temporali
dell'autunno. Si sentiva lo
scampanio scomposto e concitato delle pecore che belavano con insolito vigore,
seguite a saltelli dagli agnellini nati da qualche giorno, anch'essi sorpresi da
tanta pioggia e intenti a non perdere le madri.
Qualcuno aveva già aperto la porta della casa, piccola e modesta.
Aveva appeso ad un chiodo di ferro, conficcato ad una delle pareti, il sacchetto
con il pane, le noci, le mandorle e si era scrollato più volte, battendo forte
sui talloni, per far disperdere le gocce d'acqua che ancora indugiavano sui
vestiti.
Aveva governato le bestie, il mulo e l'asino, che, compiaciuti, strappavano
dalla mangiatoia ciuffi di fieno e di paglia, scodinzolando paghi.
Ogni tanto divaricavano le zampe, inalberavano le code e la copiosa orina
schizzava sopra gli zoccoli, fin sui capretti che continuavano indifferenti a
succhiare.
E intanto che la pioggia
flagellava ogni cosa con estrema determinazione, il cielo s'incupiva sempre più,
appressandosi l'ora del tramonto.
Qualcuno apriva la porta gocciolante e lucente e allungando l'occhio
all'orizzonte esclamava: "Sta facennu
occhiu, nni nni putemmu iri". Si sellavano i muli, si caricava ogni
cosa, si legava la capra, si mettevano i capretti nelle bisacce, si chiudeva la
porta e via.
La trazzera si animava. Era
come se tutti i contadini si fossero
dati convegno allo stesso punto e nello stesso momento. "Comu ti la
passasti?... " "Prima ch’
arrivavu a lu pagliaru, mi culavu comu un puddricinu.. "Dumani a scanzirri “. Si faceva la via del ritorno confabulando del più e del meno.
Si arrivava alle prime case del paese che annottava.
Si scaricavano i muli, si mettevano al solito posto le selle, le bisacce
e le cavezze; si governava la capra e i capretti che scodinzolavano,
sgambettando nell'unica stanza che generalmente aveva la funzione di stalla, di
stanza da pranzo, da letto, da bagno e serviva anche da magazzino.
Dalla cucina, la "tannura",
arrivava e si diffondeva un confortevole tepore buono, misto all’odore
della minestra che, a momenti, sarebbe stata scodellata.