“Il mondo contadino nel nostro passato"

Parte 10
Altra presenza che testimoniava la miseria, la ristrettezza, la povertà di allora era data da "li sulamara ". Poverelli che non possedevano niente, che non avevano terra da seminare, che vivevano alla men peggio, improvvisando ogni cosa.  Si recavano nelle aie abbandonate, a piedi, o con qualche asino più morto che vivo, assediato nelle ferite purulente da mosconi insistenti e verdastri.  Con grosse scope di "scuparina" ripulivano l'aia, ammucchiavano tutta la bastarda al centro, comprese le formiche che continuavano a trattenere chicchi.  Poi "cu lu crivu e lu ventu " recuperavano una misera manciata di frumento che lasciavano cadere in fondo alla bisaccia, logora e rattoppata.  Si trasferivano in un'altra aia, e in un'altra ancora.  Per giorni.  Per settimane.  Alla fine avrebbero raggranellato qualche sacco di grano.  Sarebbero andati anche loro al mulino.  Per un po' di farina.  Per qualche pane.  Per la pasta. Ma erano gli stessi che andavano a "cimiddriari " (frugare fra i rami già bacchiati) mandorle e olive, quando avevano ottenuto dai proprietari il permesso di cercare tra i rami o per terra qualche mandorla o oliva dimenticata, sfuggita all'occhio "di lu scutulaturi " (colui che bacchia mandorle o olive).  

        Subito dopo mezz'agosto, cominciava il raccolto delle mandorle che rappresentavano un aspetto primario nell'economia del paese.  Si adoperavano verghe e canne resistenti.  Il lavoro iniziava sempre all'alba.  Per prima si raccoglieva una varietà soprannominata "cavalera dura ". Per due motivi: Bisognava togliere presto la buccia, altrimenti, indurendo, si sarebbe appiccicata troppo e avrebbe richiesto maggiore tempo, sforzo e fatica.  Poi perché gli uccelli, soprattutto i corvi, facilmente ne bucavano il guscio per mangiarne il frutto.  Gli uomini percuotevano con le verghe e i rami; le donne, con i fazzoletti in testa e le gonne lunghe fino alla caviglia, raccoglievano da terra le mandorle, facendo attenzione a schivare le piantine spinose, i cardi selvatici che via via si incontravamo.  Si riempivano panieri e coffe che qualcuno provvedeva a svuotare nei sacchi e nelle bisacce.  Generalmente questo lavoro durava fino alle ll:00 -- ll:30.  Poi, quando la calura diventava insopportabile si ritornava a li robi, ci si rinfrescava con acqua fresca, precedentemente conservata all'ombra; ci si accoccolava e si cominciava a togliere le bucce, con le mani quando era possibile, oppure si usavano ciotoli.  Le mandorle sbucciate venivano sparse al sole, su tende, su bisacce, ad asciugare, per due - tre giorni.  Qualcuno provvedeva a preparare il pranzo.  
Tutti gli altri lavoravano.  Anche i ragazzi.  C'era chi raccontava momenti di vita del passato, chi cantava vecchie canzoni, nostalgiche e piene di ricordi.  Si riprendevano le verghe verso le 17:00.  Il lavoro continuava fino alle prime ombre della sera.  Per delle settimane.  Sempre le stesse cose.  Lo stesso metodo.  L'estate splendeva nei suoi colori di frutta matura, nel giallo o nel rosso dei fichidindia, saporiti e rinfrescanti; nella polpa cremosa dei fichi bianchi e neri, con le crepe; nell'uva matura che si abbandonava nei tralci dei pergolati e nutriva uomini e uccelli.  Ogni tanto, dall'alto, una mandorla colpiva infuriata l'occhio di "lu scutulaturi ". Si buttava la verga in disparte e si cercava un rimedio qualsiasi al dolore lancinante che infastidiva la vista, diventata improvvisamente nebulosa.  Si inzuppava un fazzoletto con acqua e si adagiava nelle cavità dell'orbita, nella speranza di lenire il fastidio.  Con il passar dei giorni, grazie a Dio, il lavoro si concludeva.  Le mandorle stese al sole venivano messe nei sacchi e portate a casa, al sicuro.  Per essere vendute, più in là, ad un prezzo conveniente.  
In campagna rimanevano le bucce.  Si provvedeva a fare "lu cufularu ", un cerchio di pietre eretto fino a sessanta - settanta centimetri.  Alla base, internamente, si metteva qualche rametto di sommacco secco per appiccare il fuoco.  Quando le fiamme erano ben alimentate, si aggiungevano pezzetti di pale di fichidindia, perché aumentasse il peso della cenere.  Le bucce di mandorla venivano buttate "ni lu cufularu ", gradatamente, fino a esaurimento completo della scorta.  Si aspettava quattro - cinque giorni perché la cenere si raffreddasse del tutto e poterla prelevare.  Qualche volta il nido si trovava vuoto.  Qualcuno era stato più veloce.  La cenere di buccia di mandorle si usava per lavare la biancheria.  Perciò aveva un prezzo.