“Il mondo contadino nel nostro passato"

Parte 2
A ottobre si cominciava ad arare la terra, che dopo le prime, abbondanti piogge si era ammorbidita.  Le stoppie erano state precedentemente bruciate.  I contadini si alzavano intorno alle quattro del mattino.  Davano da mangiare alle mule fave, orzo e avena.  Si preparava meticolosamente tutto l'occorrente: aratro con vomere e "tinniglia " di ferro,  varduneddra ", 'jugu ", “pinturi ", "rasula" , bisacce con pane, carrube, olive nere e verdi, cipolla, uva, vino, quando c'era, e acqua.  La capra veniva legata "a la cudera " della mula.  Quando arrivavano sul posto, l'alba era ancora lontana.  Scaricavano ogni cosa.  Sistemavano come meglio potevano "li robi"; appaiavano i muli, regolavano l'aratro con delle corde, una per animale, attaccate alla cavezza, perché fungessero da guida.  "Attia mureddra, ah mirlina". Il vomere sprofondava nella terra e l'apriva in zolle molli e fumanti con nebbioline di vapori che si dissolvevano quasi subito.
Il sole spuntava a conforto di una fatica dura e non sempre gratificante.  Si solcava lungo il perimetro del campo come a circoscrivere il lavoro.  
Verso le nove c'era una pausa che consentiva la colazione e un po' di riposo.  Si dava ai muli la 'pruvenna" preparate nelle "sacchine".  Anche loro avevano bisogno di riposare, di mangiare la biada per recuperare energia ed essere nuovamente pronti a spingere l'aratro che avrebbe, alla fine, rivoltato tutta la terra del campo per prepararla alla semina.  Un'altra pausa veniva fatta intorno alle tredici.  I muli trituravano con i forti denti le fave che, scricchiolando, facevano un rumore caratteristico, come di rametti secchi che si spezzavano.  Adagiati sulle bisacce, i contadini si abbandonavano al tepore confortevole di un sole ottobrino, radioso e malinconico.  Mangiavano le solite cose: pane e olive.  Qualche fetta di melone e un po' d'uva, ormai quasi completamente guasta.  Discutevano del lavoro fatto, dell'acqua che era venuta nella giusta misura, del momento della semina che a giorni sarebbe arrivato.  Ogni tanto si sentivano delle voci.  Erano i cacciatori che, passando, salutavano.  I muli rilucevano sudati e ormai stanchi.  Le piccole allodole con le piume grigiastre sulla testolina, volteggiavano a brevi voli e si acquattavano a ridosso delle zolle, per passarvi la notte.  Cominciava ad imbrunire.  Tutto intorno si allungava un silenzio che sapeva di magia e di stanchezza.  C'era chi tornava a casa e chi dormiva in campagna.  Nel pagliaio c'era sempre qualche fascina di erba secca.  Vi si stendevano le bisacce e per coperta uno scialle.  Prima di coricarsi scrutava il cielo per coglierne i segni: domani sarà bel tempo.  Si metteva a giacere e prima di addormentarsi si stringeva nel suo scialle, raggomitolandosi il più possibile, come a difesa dal freddo della notte e dai pericoli dell'imponderabile.  Se lo svegliava l'abbaiare concitato dei cani, sgusciava silenzioso e ancora insonnolito.  Imbracciava svelto la vecchia doppietta, mal messa e arrugginita e aspettava fino a quando i cani si accucciavano e si riaddormentavano.  Intanto le ore si andavano sommando e giungeva il nuovo giorno. 

  I contadini vestivano con pantaloni e giacche di marraschino pesante.  I pantaloni arrivavano all'altezza del ginocchio, e da questo al piede scendevano calzettoni di lana che si portavano d'inverno e d'estate.  Gli scarponi di cuoio si pulivano, al rientro dalla campagna, con il grasso e si usavano gli stessi per uscire, anche quando ci si doveva recare in piazza.  La camicia era di tela e la preparavano le donne con il telaio, posto nella stanza da letto.  Aveva l'ossatura di legno, il pettine e la "chioccia ", una sorta di pedale che serviva alla donna per regolarsi a seconda del lavoro iniziato.  Il tessuto era di lino e veniva seminato nelle terre alessandrine. il lino si seminava verso la fine del mese di ottobre.  I chicchi erano più piccoli di quelli del frumento, e di colore scuro.  La semente si chiamava ”linusa". Si addiceva per le terre forti e si seminava "a pruvinu e “nfuitu". Quando spuntava, si toglieva l'erba con le mani.  Alla fine di maggio o ai primi di giugno, quando era maturo, si sradicava con le mani.  Si facevano dei mazzetti che venivano legati con "ligame" di disa.  Generalmente il lino veniva raggruppato in dieci mazzi che si collocavano in posizione verticale e si appoggiavano tra di loro.  L'insieme di dieci mazzi si chiamava "na rota". Si metteva ad asciugare.  Bastavano dieci giorni di sole perché fosse pronto.  Veniva ammucchiato su una coperta ruvida e sgranato con una robusta mazza. Poi riempivano le coffe e quando soffiava il vento, facevano cadere il prodotto su una coperta pulita, liberandolo dalla "Xiusca”.  La maggior parte seminava il lino perché ritenuto necessario e utile.  Gli steli rimanevano legati e li portavano a casa.  A metà agosto venivano trasportati e messi "n'ti lu gurgu"  al fiume Magazzolo o al Platani, nelle vicinanze di Cattolica Eraclea.  Si lasciava qualcuno a far la guardia.  Dopo quattro giorni bisognava prelevarli.  Appena spuntava il sole, ognuno prendeva dall'acqua la sua parte, contrassegnata da segni particolari, come rametti di oleandro o biglietti posti su un ramo che fuoriusciva.  Si mettevano ad asciugare in posizione verticale.  Quand'era asciutto si legava.  Ogni dieci fascine formavano un fascio. Si caricava sui muli e si portava a casa.  Dopo qualche giorno, si riportava nuovamente in campagna, dove c'era "lu magliaturi", una sorta di grossa pietra, levigata e rotonda.  Per terra, a contatto con la pietra, veniva fissata una bacchetta di legno cui si attaccava una corda che passava sopra la fascina del lino e che veniva legata al piede del lavoratore.  Costui si serviva di una mazza di legno per lavorare il lino.  Spesso questo tipo di lavoro veniva affidato a gente che aveva dimostrato particolare perizia e maestria.  Cardava il lino con un attrezzo di legno chiamato cardo e con la spatola che serviva per togliere le scorie.  Il cardo è un attrezzo di legno con dieci chiodi un po' ricurvi che serviva a cardare il lino.  L'operaio riceveva come paga due o tre lire, come un qualunque altro lavoratore.  Si otteneva così, finalmente, il filo che le donne passavano alla conocchia e lo filavano col fuso di legno che aveva la forma di un carciofo fornito di due "virticchi", uno in cima, l'altro al centro.  "Lu virticchiu " è simile a "na ciappiteddra (ciottolo piatto e levigato).  
Si ottenevano due tipi di lino: il tipo più pesante serviva per confezionare bisacce e coperte ruvide che si utilizzavano sia a casa che in campagna.  Con quello più fine si otteneva la tela per la biancheria: lenzuola, asciugamani, tovaglie, camice, mutande ("cazi di tila') che arrivavano fino alla caviglia ed erano legate da due lacci bianchi dello stesso tessuto.  Le donne, quando ultimavano il lavoro del telaio, portavano la tela al fiume per lavarla e sbiancarla.  La mettevano al sole sull'erba, su qualche cespuglio o sui ciottoli.