“Il mondo contadino nel nostro passato"

Parte 4

Ai primi di novembre, subito dopo la commemorazione dei defunti, si cominciava a raccogliere le olive. Ogni otto giorni, generalmente la domenica, si raccoglievano le olive che cadevano per terra o perché già mature, o perché il vento le aveva staccate dai rami.  Quando cominciava il raccolto vero e proprio, se il tempo lo permetteva e se si era già seminato, si andava tutti i giorni.  Non si cercavano operai esterni alla famiglia, per fare economia.  Si percuotevano i rami alti con verghe e canne, mentre i rami facilmente raggiungibili si scaricavano con le mani.  Durante l'estate di San Martino, quando il sole concedeva lunghi sprazzi si tepore, si vedevano le donne accoccolate, con i fazzoletti in testa, affrettarsi a prendere da terra, in mezzo alla prima erbetta, le morbide olive, verdi, nere o marrone scuro, e riempire coffe e panieri che poi gli uomini versavano nei sacchi o nelle bisacce.  Ogni tanto cantavano.  Rievocavano momenti del passato.  Qualcuno si lasciava andare ai ricordi e raccontava brevi storie, a volte vere, altre immaginarie.  Capitava che in mezzo agli alberi di ulivo ci fosse qualche albero di sorbo.  Tante giacevano a terra, mature, morbide, cremose.  Le raccoglievano in un paniere e a mezzogiorno sarebbero diventate il companatico.  A sera i sacchi erano già carichi sui muli, le verghe nascoste tra i rami più folti.  Si tornava.  Lunghe file di animali portavano a casa il prezioso carico.  I sacchi venivano appoggiati in un angolo; quelli che non avevano spazio li portavano direttamente “a lu trappitu”, nei posti numerati. Vi spargevano del sale e mettevano dei segni particolari per scoraggiare i malintenzionati. Allora l'inverno era pesante.  La pioggia arrivava abbondante e frequente.  Le terre s'inzuppavano e tante olive marcivano.  Capitava non raramente di vedere qualche asinello sprofondare, forse per l'eccessivo carico o per la troppa stanchezza, fino alle ginocchia nella terra melmosa e fangosa, vacillare un istante e adagiarsi supino su un fianco.  A volte la bisaccia si slegava e le olive si perdevano nelle pozze d'acqua, mentre i contadini, bestemmiando, imprecavano.  L'asinello non ce l'avrebbe fatta a rialzarsi da solo.  Si scaricavano i sacchi.  Qualcuno sorreggeva l'asino per la cavezza e lo incitava; qualche altro lo spingeva, tirandolo per la coda.  Finalmente il poveretto era nuovamente in piedi, sudato e maleodorante.  Al frantoio si aspettava il turno.  Al centro della stanza campeggiava la mola, in parte concava, dalla circonferenza della metà di una stanza.  La pietra veniva lavorata in campagna e trasportata in paese, a mezzo di buoi appaiati.  La collocavano sopra due tronchi legati con una robusta catena e la trascinavano fino a destinazione.  Poteva contenere una macina di olive: due quintali all'incirca.  All'intemo della mola grande c'era una seconda mola, più piccola, che serviva a tritare le olive.  Alla mola piccola veniva fissata una catena che si legava al petto della mula, la quale, al via del padrone, girava in continuazione e, per evitare attimi di sbandamento, le si coprivano gli occhi e la testa con un panno.  Le olive venivano tritate e ridotte in poltiglia.  Dalla mola principale, attraverso uno sportello di ferro, veniva prelevata la pasta che finiva in un contenitore di legno rettangolare.  Gli operai mettevano la pasta di olive con paglia nelle coffe".  Una volta ripiene, venivano collocate al torchio, in quindici o sedici per volta.  Il torchio era un arnese di quercia, lavorato in loco dai falegnami.  Una sorta di confessionale.  Al centro c'era una barra di legno che fuoriusciva in due parti uguali.  Alla base il torchio girava su se stesso, spinto dagli operai, due per lato, mentre la corda che partiva dal frantoio, ove erano state collocate le coffe, girava intorno a se stessa, fino a che si arrotolava completamente.  A questo punto, gli operai, spingendo, facevano pressione sulle coffe, e ne fuoriusciva l'olio.  Al centro, una cavità in lamiera, raccoglieva l'olio che, per mezzo di una canaletta laterale, andava a finire in un barile dalla capienza di quattro cinque decalitri.  Ai lati c'erano due manici di corda.  Appena lo si riempiva, due operai provvedevano a metterlo in disparte.  Quando il liquido risiedeva, veniva tolto "lu cippu" per fare uscire l'acqua.  Non appena compariva la prima traccia di olio, il recipiente veniva nuovamente otturato.  L'interessato lo faceva versare in una tinozza di legno e successivamente nelle brocche
con piccoli cerchi in lamiera, dalla capienza di quindici - sedici litri.  L'olio veniva trasportato a casa con i muli, a mezzo di "cangeddri' " d' ferro; complessivamente quattro, uno per ogni brocca.  "A lu trappitu molto spesso, facevano la loro comparsa i questuanti: i monaci di Santo Stefano Quisquina e di Alessandria.  Arrivava pure il povero con un recipiente di terracotta "l'aglialoru "  I contadini si mostravano quasi sempre cordiali e generosi, anche se qualcuno, di tanto in tanto, brontolava per l'annata non molto abbondante.  Il frantoio era aperto di giorno e di notte, con gli operai che si alternavano.