“Il mondo contadino nel nostro passato"

Parte 5

  La potatura degli alberi si effettuava verso la fine dell'autunno e durante l'inverno.  Solo in pochi praticavano personalmente tale operazione.  La maggior parte lasciava gli alberi allo stato naturale, alleggeriti di qualche ramo che si spezzava a contatto con le verghe, durante l'abbacchiatura.  Gli attrezzi usati erano la roncola e il seghetto.  A gennaio, con le zappe, si toglievano le erbe dalle piantine di fave, di grano, di piselli.  Tale lavoro durava parecchie settimane e intanto le piantine, più libere e in mezzo alla terra rimossa e inumidita dall'abbondante pioggia, crescevano rigogliose, verdi, promettendo abbondanti raccolti.  Subito dopo la festa di San Giuseppe si seminavano pomodori e meloni.  Si era provveduto a lasciare libero qualche pezzettino di terra ove, con le zappe, si cercava di andare in profondità e scavare delle buche, distanti mezzo metro circa l'una dall'altra e dove si lasciavano cadere i semi che venivano ricoperti con una manciata di terra, la più fine.  Era tempo di zappare le vigne.  Quattro cinque uomini sul posto di lavoro ai primi chiarori dell'alba.  Si cominciava di gran lena.  Qualcuno, ritenuto il più esperto e il più resistente, guidava il gruppo e indicava i filari.  Bisognava che le zappe penetrassero interamente per dissodare bene intorno alle viti.  Il ritmo di lavoro diveniva sempre più incalzante.  Corpi ricurvi che si piegavano alzando e abbassando all'unisono le braccia, per imprimere maggiore forza alle zappe che, penetrando in profondità, dissodavano le zolle.  La fatica traspariva nei volti che s'imperlavano di sudore.  Ogni tanto un sorso di vino ridava forza e vigoria.  Qualcuno cantava... "Ann'a passari sti vintinovi anni... ". Qualche altro raccontava storie del passato, le tensioni della guerra, le partenze, le paure, le brutte notizie che arrivavano dal fronte.  E intanto il lavoro già fatto era visibile ed era di conforto.  Capitava di vedere la zappa librata in aria e restare in quell'atto più del solito.  Vicino alla vite, acquattata e mimetizzata tra le erbe, una pernice copriva interamente il nido, per covare le uova: quindici - sedici, a volte, anche diciotto.  Si cercava di fare il possibile per non disturbarla, altrimenti avrebbe abbandonato la nidiata.  Si procedeva oltre.  Dopo alcuni giorni le vigne erano a posto ed orgogliosamente il proprietario esclamava: "Pari na zita!" 

L'inverno se ne andava, con le sue ugge e malinconie.  Con l'arrivo della primavera, la campagna odorava di lava di mille colori.  I mandorli mettevano le foglioline lucenti, le fave inondavano tutt'intorno del profumo penetrante dei loro fiori.  Il grano cominciava ad ondeggiare, all'alitare del vento di ponente.  Le giumente strappavano a pieni bocconi folti ciuffi di erba, mentre i puledri, ancora scalpitanti e malfermi nelle gambe, succhiavano prepotentemente il caldo latte dalle turgide poppe materne.  A maggio l'universo contadino acquistava nuova fisionomia.  Nelle trazzere si sollevava già la prima polvere, al passare del gregge o allo scalpitare dissennato dei piccoli asinelli, nati da qualche giorno, simpaticissimi nelle loro corse, civettuole e scomposte.  Uniformità di verde, rotto da chiazze rossastre come di velluto: la sulla!  Le vigne avevano abbondanti foglie; esili grappoli pendevano dai tralci.  Bisognava legare con la "ligama" i rami ad un palo, conficcato al centro, per difenderli da improvvise folate di vento.  Si provvedeva a spargere manciate di zolfo per difendere le viti dall'attacco della peronospora, temutissima e che, in passato, aveva decimato tante vigne.  Era tempo di ripulire i seminati.  Si entrava con accortezza nei filari di fave, si faceva attenzione a non calpestarle e si toglievano le erbe con le mani.  La stessa cosa avveniva per il grano.  Succedeva che durante l'anno la pioggia non era caduta abbondante.  Ci si preoccupava che il grano non crescesse nella giusta misura.  Si ricorreva, mossi da una antica spiritualità religiosa a delle suppliche perché arrivasse la benefica pioggia:

Signiruzzu chiuviti, chiuviti

Li lavureddra sù morti di siti,

Si nun ci dati la grazia vù,

Li lavureddra nun criscinu'cchiù.

San Pasquali chiui l'occhi

Pi mannari l'acqua forti

E nni manna una bona

Senza lampi e senza trona.

Acqua d'in celu, sazia la terra

Inchi lu funti, pi carità,

Pi misericordia e pi pietà.

Su' vinuti li virgineddri,

Su' vinuti di luntanu,

Su' vinuti di lunga via,

Datici l'acqua, vui, Maria.

 

Si allogavano le donne sposate ma anche le nubili che guadagnavano al giorno £ 2.50. Gli uomini guadagnavano il doppio.  Il contratto di lavoro era semplice e sulla parola.  La moglie del proprietario contattava alcune donne che abitavano nella stessa strada e chiedeva se fossero disponibili a lavorare in campagna per alcuni giorni.  La risposta era quasi sempre affermativa e nei visi traspariva una luce che sapeva di gratitudine e riconoscenza.  I pochi soldi sarebbero serviti per i bisogni della famiglia.  Le lavoratrici, abitualmente, si portavano il pane.  Per il companatico, quando c'era, avrebbe provveduto il proprietario.  Un'altra storia, vissuta dal signor Spoto e da lui raccontata, merita essere ricordata.  Si era nel mese di aprile.  Si trovava con la moglie "a noru - misita pi scurriri lu lavuri" (per ripulire il grano dalle erbe).  Con loro c'erano dodici donne, allogate la sera prima.  La primavera infondeva allegria.  Il lavoro non pesava troppo.  I mucchietti dì erba con le radici al sole avvizzivano quasi subito e contrastavano con la vitalità delle spighe appena sbocciate.  Parlavano del più e del meno, di come Maria cresceva bella, con i capelli neri com'ala di corvo, con gli occhi grossi come prugne, che i giovani se la divoravano con lo sguardo, durante la processione del Venerdì Santo o durante la messa, la domenica, da dietro le colonne della chiesa. 0 di "Piddru", poveretto, rimasto vedovo con due figli da crescere, senza nessuno che gli facesse trovare il fuoco acceso per la minestra, al rientro da una giornata faticosa. 0 d'altro.  A mezzogiorno si recarono "a li robi", per mangiare.  Pane, patate fritte e mandorle.  Una di esse consumò solo un pezzetto di pane il rimanente lo rimise nella salvietta che annodò con diligenza e che fece sparire nella bisaccia, posta sopra la sella della mula, accanto all'albero di fico.  "Lu zu Peppi" aveva osservato il gesto della donna e non ne aveva fatto parola.  A sera, tutti pronti per il ritorno.  Solo la donna indugiava a cercare inutilmente la salvietta con il pane.  Si accorsero tutti delle lacrime che silenziose rigavano il volto della giovane madre.  Non avrebbe potuto portare il pane alla più giovane delle figlie.  "Lu zu Peppi" cercava di rincuorarla, che forse si sarebbe potuto rimediare e che avrebbe potuto riavere il pane con la salvietta.  A piedi, com'era partita, la comitiva raggiunse il paese.  Ognuna fece rientro alla propria casa.  Durante il viaggio, il signor Spoto ricordò di avere visto, qualche giorno prima, due malviventi che gironzolavano in quei dintorni, in cerca di verdure.  Potevano essere stati loro a rubare il pane.  Mentre la moglie preparava il desinare, si recò in casa di uno dei due e, riconosciuta sul tavolo la salvietta, chiese spiegazioni.  L'uomo non poté negare.  Lui e il compagno avevano rubato l'involto con il pane, spinti dalla fame.  Alla donna, la stessa sera, "lu zu Peppi" fece avere la salvietta con mezzo pane, perché potesse sfamare i figli.  La poveretta tirò un profondo sospiro di sollievo.