“Il mondo contadino nel nostro passato"

Parte 6

Le operaie portavano sempre, durante il giorno, un fazzoletto di lino in testa.  Le vesti, trattenute da una cintura, nere o biancastre, arrivavano fino alle caviglie.  Anche le calze, rustiche, nere, erano di lino.  Le scarpe, quando c'erano, se le passavano da madre in figlia, da sorella a sorella.  

A gennaio, febbraio si potavano le vigne.  Da una vite all'altra la distanza era di sei palmi.  Si trattava di viti "nustrali".  Tra il 1918 - 1920 si diffuse la fillossera.  Le viti furono potate regolarmente; ma al tempo dei germogli nuovi, la vegetazione fu misera, se non addirittura inesistente.  Quasi tutte le viti, distrutte.  Quelle che sopravvissero per quell'anno, morirono l'anno seguente. i contadini, frastornati e preoccupati, parlavano spesso di quell'avvenimento così insolito.  Si seppe che a causare tutto quel danno fu la fillossera.  Non venne elargito alcun contributo.  Su consiglio di persone competenti, ad una ad una, furono divelte tutte le viti.  Passarono sei o sette anni e dall'America arrivarono i vitigni selvatici che furono messi a dimora nel mese di gennaio.  Per qualche anno, ad Alessandria e dintorni, il vino genuino fu solo un lontano ricordo.  Si ricorreva a quello sofisticato.  In paese era arrivato un certo Don Biagio, commerciante, originario di Salemi. Aveva aperto una bottega di vino in Via Scipione.  Era un’ unica stanza a piano terra.  Alla sommità della porta sporgeva un mazzetto di rami di carrubo: segno che si vendeva il vino.  Nel locale c'erano tre o quattro tavoli di legno e alcune sedie di "scuparina” (palma nana).  Rimaneva aperto fino a mezzanotte.  Si vendeva solo lì.  Don Biagio lo serviva in un recipiente di latta da un litro e lo versava nei bicchieri.  Si giocava a carte - scopa, tressette, briscola.  Chi perdeva, pagava.  Ogni tanto arrivava qualche conoscente che assisteva, curioso, alla partita.  Gli si offriva del vino che i perdenti pagavano.  Chi riceveva la cortesia si disobbligava pagando un litro di vino che metteva a disposizione ai quattro giocatori.  Nella sala erano sistemati cinque - sei botti di 550 litri ciascuna, messe una accanto all'altra.  Un litro di vino costava tre soldi, cioè quindici centesimi.  Nel cassetto di un piccolo tavolo Don Biagio riponeva i denari, una bottiglietta d'inchiostro, la penna e qualche foglio di carta ruvida ove trascriveva, a caratteri grossi e malfermi i nomi dei debitori, che non erano pochi.  Ogni tanto nasceva qualche baruffa.  Il convento ospitava la caserma dei carabinieri che, per servizio, visitavano spesso i locali pubblici.  A "Sant'Antò” era attivo il locale di un certo Girolamo da Mussomeli.  Il vino era adulterato.  A notte fonda riempivano le botti, per mezzo di tubi di tela, con acqua dalla fontanella "di lu Baruni”.  Vi mescolavano particolari medicine che davano un certo sapore e il colore rubino.  In giro facevano sapere che il vino proveniva dalle zone di Menfi, di Castelvetrano o anche dal feudo del "Finocchio", ove le vigne, a causa della fillossera, erano morte da qualche anno.  Venne scoperto l'inganno.  Ai venditori di vino non rimase altro se non di raccogliere in fretta le loro cose e scapparsene, di notte, ai loro paesi di origine.  Nel frattempo si andavano sviluppando le vigne americane. i primi vitigni giungevano da Marineo, dove c'era un vivaio.  Li portava un certo Don Pietro "lu Pachinisi" con quattro muli.  In un mazzo c'erano cento viti (£2).  Il terreno per la vigna veniva preparato nel periodo estivo, nei mesi di agosto e settembre.  "Scatinavanu la terra cu li magaglia stritti; li magaglia chiatti sirbianu pi zappari li favi e lu frummentu".  Dissodavano la terra con zappe ben appuntite che sprofondavano a due - tre palmi.  Per mettere a dimora un migliaio di vitigni, serviva un tumulo e mezzo di terra.  Si assestava la terra con una corda lunga che veniva fissata ad un punto fermo.  A sei palmi di distanza l'uno dall'altro, venivano posti dei segni - "busi di disa o canneddri" perché venissero correttamente e ordinatamente indicati i punti dove piantare i vitigni.  
Gennaio era il mese più propizio per la messa a dimora delle piantine.  Nel primo anno, poiché la terra non era sfruttata, seminavano pomodori, zucche, cetrioli, meloni.  Lateralmente sistemavano piantine di fichi d'india.  La prima volta la vigna si zappava a marzo, la seconda volta a maggio e durante l'estate, ogni quindici giorni per mantenere la terra sciolta e far crescere bene le piantine che, intanto, si sviluppavano a vista d'occhio.  
Dopo due anni era necessario innestare.  Con i muli arrivavano gli innestatori da Pachino.  Ad Alessandria, allora, nessuno sapeva innestare.  Ricevevano tre soldi per vite.  S'innestava "a taccuni".  L'operazione consisteva nell'inserire una gemma, prelevata da una vite sana e vegeta, in uno spacco, praticato con un coltellino tagliente nella parte bassa della piantina.  Si faceva aderire perfettamente; si pressava forte con le dita, in modo che la gemma s'incollasse al legno tenero e umido del vitigno, pronto ed in amore per l'innesto.  Si legava con la "raffia"" e si copriva con un quadratino di carta.  Fino ad una certa altezza, oltre all'innesto, la pianta veniva ricoperta con fine terra.  Trascorsi quindici giorni, si provvedeva a liberare la pianticella dalla rafia e si vedeva se l'innesto era andato bene.  Si rimetteva solamente la carta per protezione dai raggi del sole e si toglieva tutt'intorno alla vite, a mo' di conca, la terra, perché le piogge autunnali non arrecassero danno all'innesto.  Tale operazione avveniva nel mesi di luglio agosto.
Ai primi di agosto cominciava "l'ammazzatu".  I chicchi d'uva cominciavano a gonfiarsi.  Alcuni rilucevano maturi, bianchi o neri che fossero.  

 

        Era tempo di preparare la loggia, riparo estivo per i contadini, formata da quattro pali equidistanti conficcati nel terreno, legati con "ligame" all'estremità superiori, mentre ai due lati venivano sistemati “canneddri, fratta e buda", mietuta precedentemente ai bordi del fiume e messa ad asciugare per otto - dieci giorni.  Parte veniva sistemata ai lati, parte veniva adagiata tra tronchi e rami connessi, a mo' di tetto, per riparare dal sole cocente dell'estate.  Due lati venivano appositamente lasciati liberi perché entrasse il vento di ponente, a portare refrigerio.  All'interno, dalla parte mediana del tetto, fuoriusciva "lu croccu"", legato con corde e filo spinato.  Serviva per appendervi "la camella, li vertuli, lu sciallu, la visazza"".  All'esterno vi tessevano, con disa, le canne.  Come pavimento c'era solo terra battuta.  L'acqua doveva stare sempre all'ombra.  Di giorno a far da guardia alla vigna c'erano sempre due bambini e un cane.  Quando stava per annottare, andava il capofamiglia e portava ai figlioli qualcosa da mangiare.  

        Dalla metà di maggio ai primi di giugno i contadini, a gruppi di tre - quattro, si recavano a "lu Rufesi" o al feudo Adriano, per mietere la disa (ampelodesma).  Si mettevano in cammino verso le tre e mezza, che le stelle risplendevano silenziose e lontane.  Scendevano con i muli, oltrepassavano la Battaria e giù, giù fino al fiume.  
Si sentiva al buio l'acqua che schizzava sotto gli zoccoli dei muli che urtavano i ciottoli disseminati, lungo gli argini umidi.  Attraversavano i territori di "Cirasi, di lu Miliuni, di Timpirussi" per ritrovarsi, dopo qualche ora "fuori stato".  Adocchiato il posto, si avviavano i muli al pascolo.  Si mettevano subito a lavoro.  Adoperavano "lu facigliuni" una sorta di falce con l'impugnatura di legno e con la lama dritta, lunga circa sessanta centimetri che all'estremità terminava ad uncino.  Segavano come per tagliare rami.  La disa, a mazzetti, veniva presa per l'estremità e scossa più volte, perché ne uscissero le frasche secche ed ingombranti.  Si facevano tanti mucchietti che venivano legati con un filo di disa.  Qualcuno, nel frattempo, preparava le "ligame" che sarebbero servite per legare i grossi fasci.  All'imbrunire il lavoro era già ultimato.  Le "ligame" venivano divise in parti uguali.  Si arrivava in paese a notte fonda.  L'indomani, di buon'ora, riprendeva il lavoro.  Bisognava annodare bene e con maestria l'estremità della disa, fare dei nodi resistenti, tirare a strappi con energia e costatare che la "ligama” fosse consistente.  Abitualmente si lavorava seduti su uno scalino, all'ombra, con sotto la bisaccia.  La disa veniva posta davanti la porta.  Bisognava inumidirla perché si potesse meglio lavorare e la si copriva con una bisaccia perché i raggi del sole non l'asciugassero.  Capitava di vedere frotte di ragazzi curiosi, fermi ad osservare i contadini che facevano passare dietro le spalle la "ligama" per imprimere con forza al nodo maggiore consistenza.  Se la disa era abbastanza lunga, bastava un solo nodo per fare la "ligama", altrimenti bisognava aggiungere altra disa all'estremità ed erano necessari due nodi.  Le "ligame" venivano stese al sole ad asciugare.  A sera si riportavano nella stalla, appese ad un piolo di legno, legate a mazzi di dieci, pronte per quando sarebbe giunto il momento della mietitura.