“Il mondo contadino nel nostro passato"
Parte 6
Le operaie portavano sempre, durante il giorno, un fazzoletto di lino in
testa. Le vesti, trattenute da una
cintura, nere o biancastre, arrivavano fino alle caviglie.
Anche le calze, rustiche, nere, erano di lino.
Le scarpe, quando c'erano, se le passavano da madre in figlia, da sorella
a sorella.
A gennaio, febbraio si potavano le vigne.
Da una vite all'altra la distanza era di sei palmi.
Si trattava di viti "nustrali".
Tra il 1918 - 1920 si diffuse la fillossera.
Le viti furono potate regolarmente; ma al tempo dei germogli nuovi, la
vegetazione fu misera, se non addirittura inesistente.
Quasi tutte le viti, distrutte. Quelle
che sopravvissero per quell'anno, morirono l'anno seguente. i contadini,
frastornati e preoccupati, parlavano spesso di quell'avvenimento così insolito.
Si seppe che a causare tutto quel danno fu la fillossera.
Non venne elargito alcun contributo.
Su consiglio di persone competenti, ad una ad una, furono divelte tutte
le viti. Passarono sei o sette anni
e dall'America arrivarono i vitigni selvatici che furono messi a dimora nel mese
di gennaio. Per qualche anno, ad Alessandria e dintorni, il vino genuino
fu solo un lontano ricordo. Si
ricorreva a quello sofisticato. In
paese era arrivato un certo Don Biagio, commerciante, originario di Salemi.
Gennaio era il mese più propizio per la
messa a dimora delle piantine. Nel
primo anno, poiché la terra non era sfruttata, seminavano pomodori, zucche,
cetrioli, meloni. Lateralmente
sistemavano piantine di fichi d'india. La
prima volta la vigna si zappava a marzo, la seconda volta a maggio e durante
l'estate, ogni quindici giorni per mantenere la terra sciolta e far crescere
bene le piantine che, intanto, si sviluppavano a vista d'occhio.
Dopo due anni era necessario innestare.
Con i muli arrivavano gli innestatori da Pachino.
Ad Alessandria, allora, nessuno sapeva innestare.
Ricevevano tre soldi per vite. S'innestava
"a taccuni". L'operazione
consisteva nell'inserire una gemma, prelevata da una vite sana e vegeta, in uno
spacco, praticato con un coltellino tagliente nella parte bassa della piantina.
Si faceva aderire perfettamente; si pressava forte con le dita, in modo
che la gemma s'incollasse al legno tenero e umido del vitigno, pronto ed in
amore per l'innesto. Si legava con
la "raffia"" e si
copriva con un quadratino di carta. Fino
ad una certa altezza, oltre all'innesto, la pianta veniva ricoperta con fine
terra. Trascorsi quindici giorni,
si provvedeva a liberare la pianticella dalla rafia e si vedeva se l'innesto era
andato bene. Si rimetteva solamente
la carta per protezione dai raggi del sole e si toglieva tutt'intorno alla vite,
a mo' di conca, la terra, perché le piogge autunnali non arrecassero danno
all'innesto. Tale operazione
avveniva nel mesi di luglio agosto.
Era tempo di preparare la loggia, riparo estivo per i contadini, formata da quattro pali equidistanti conficcati nel terreno, legati con "ligame" all'estremità superiori, mentre ai due lati venivano sistemati “canneddri, fratta e buda", mietuta precedentemente ai bordi del fiume e messa ad asciugare per otto - dieci giorni. Parte veniva sistemata ai lati, parte veniva adagiata tra tronchi e rami connessi, a mo' di tetto, per riparare dal sole cocente dell'estate. Due lati venivano appositamente lasciati liberi perché entrasse il vento di ponente, a portare refrigerio. All'interno, dalla parte mediana del tetto, fuoriusciva "lu croccu"", legato con corde e filo spinato. Serviva per appendervi "la camella, li vertuli, lu sciallu, la visazza"". All'esterno vi tessevano, con disa, le canne. Come pavimento c'era solo terra battuta. L'acqua doveva stare sempre all'ombra. Di giorno a far da guardia alla vigna c'erano sempre due bambini e un cane. Quando stava per annottare, andava il capofamiglia e portava ai figlioli qualcosa da mangiare.
Dalla
metà di maggio ai primi di giugno i contadini, a gruppi di tre - quattro, si
recavano a "lu Rufesi" o al feudo Adriano, per mietere la disa (ampelodesma). Si mettevano in cammino verso le tre e mezza, che le stelle
risplendevano silenziose e lontane. Scendevano
con i muli, oltrepassavano la Battaria e giù, giù fino al fiume.
Si sentiva al buio l'acqua che schizzava sotto gli zoccoli dei muli che
urtavano i ciottoli disseminati, lungo gli argini umidi.
Attraversavano i territori di "Cirasi, di lu Miliuni, di Timpirussi"
per ritrovarsi, dopo qualche ora "fuori stato".
Adocchiato il posto, si avviavano i muli al pascolo.
Si mettevano subito a lavoro. Adoperavano
"lu facigliuni" una sorta di falce con l'impugnatura di legno e con la
lama dritta, lunga circa sessanta centimetri che all'estremità terminava ad
uncino. Segavano come per tagliare
rami. La disa, a mazzetti, veniva
presa per l'estremità e scossa più volte, perché ne uscissero le frasche
secche ed ingombranti. Si facevano
tanti mucchietti che venivano legati con un filo di disa. Qualcuno, nel frattempo, preparava le "ligame" che
sarebbero servite per legare i grossi fasci.
All'imbrunire il lavoro era già
ultimato. Le "ligame" venivano divise in parti uguali.
Si arrivava in paese a notte fonda.
L'indomani, di buon'ora, riprendeva il lavoro.
Bisognava annodare bene e con maestria l'estremità della disa, fare dei
nodi resistenti, tirare a strappi con energia e costatare che la "ligama”
fosse consistente. Abitualmente si
lavorava seduti su uno scalino, all'ombra, con sotto la bisaccia.
La disa veniva posta davanti la porta.
Bisognava inumidirla perché si potesse meglio lavorare e la si copriva
con una bisaccia perché i raggi del sole non l'asciugassero.
Capitava di vedere frotte di ragazzi curiosi, fermi ad osservare i
contadini che facevano passare dietro le spalle la "ligama" per
imprimere con forza al nodo maggiore consistenza.
Se la disa era abbastanza lunga, bastava un solo nodo per fare la "ligama",
altrimenti bisognava aggiungere altra disa all'estremità ed erano necessari due
nodi. Le "ligame"
venivano stese al sole ad asciugare. A
sera si riportavano nella stalla, appese ad un piolo di legno, legate a mazzi di
dieci, pronte per quando sarebbe giunto il momento della mietitura.