“Il mondo contadino nel nostro passato"

Parte
7
 
Alla fine di maggio il verde della campagna cominciava a declinare.  Chiazze giallastre si mescolavano confusamente al bordi delle strade, lungo le trazzere, nel campi.  Le margherite, durante il giorno, si afflosciavano sul gambi quasi vizze.  Le pecore brucavano svogliatamente; nel meriggio caldo e sonnacchioso, si disponevano ammassate a ridosso di qualche collinetta, per farsi ombra.  I campi di fave erano intatti, ma le piantine mostravano già i segni del decadimento.  Alcuni avevano le foglie marrone opaco, s'inclinavano appesantite dall'abbondante frutto.  A sgranarli, ci si accorgeva che i semi erano induriti, nerastri.  Era finito per quell'anno il piacere di mangiare le tenere fave con le uova.  Pietanza gustosa e succulenta che, per più settimane, soddisfaceva i bisogni dell'alimentazione.  Capitava spesso, in una certa ora del giorno, mentre gli uomini, curvi, tiravano con le mani fili d'erba tra i filari di fave, vedere pennacchi di fumo che si elevavano e si perdevano nell'aria, lasciando odori densi, inconfondibili, lontani.  Le donne avevano smesso di lavorare e si erano recate "a li robi".  Avevano riempito i grembiuli di fave; accoccolate, sbucciavano e facevano cadere i semi umidi e teneri in una pentola di terracotta "la pignateddra", annerita per il quotidiano uso.  "N'ti la tannureddra", ardevano fuocherelli spediti, alimentati, di tanto in tanto, da qualche rametto secco d'ulivo o da tralci di viti, asciutti e nodosi.  Olio, sale, cipolle a pezzettini e fave.  Dopo qualche minuto l'odore buono stimolava le narici che aspiravano profondamente quasi a pregustare la bontà della pietanza.  Ogni tanto l'addetto ai lavori, per evitare di scottarsi, metteva sui manici foglie di fave, sollevava la pentola e con destrezza rimescolava più volte perché il tutto non si appiccicasse.  Ancora qualche minuto e con la forchetta o con un pezzettino di legno appuntito verificava se le fave erano cotte.  Ad un richiamo, gli uomini cominciavano ad avvicinarsi, chinandosi, di tanto in tanto, a staccare qualche ciuffo d'erba dimenticato.  La donna rimescolava con decisa sveltezza le uova che per qualche attimo rimanevano intatte, nel loro albume e nel loro tuorlo e che, a contatto con il cucchiaio, si scioglievano e si amalgamavano in un impasto indissolubile, odoroso e ghiotto. 

 

         Tempo di mietitura, tempo di fatica, ma anche di speranza!  Si sentiva nei campi il rumore delle falci affilate che, guidate da mani esperte, pareggiavano le piante di fave in tanti mucchi simmetrici, equidistanti, uno accanto all'altro, come strane figure messe a giacere, inerti, in attesa di morire proprio a causa dello stesso sole che le aveva fatto nascere e crescere.  Rimanevano "li manati" (fascine) per qualche giorno ad essiccare.  Poi bisognava rivoltarli perché si essiccassero completamente.  Anche il fieno era stato mietuto.  Si adoperava "la furlana", attrezzo composto da un grosso manico di legno che terminava all'estremità con una specie di mezzaluna di ferro affilatissima e tagliente.  Bisognava saperla imbracciare, dare la giusta inclinazione per mietere il trifoglio, la sulla e tutte le erbe che si afflosciavano all'istante, sotto i colpi precisi e ritmati dei mietitori.  La terra, improvvisamente orfana di quel manto verde e variopinto, lasciava intravedere buche più o meno profonde ove veloci trovavano rifugio serpentelli innocui e bisce, spaventati dall'inaspettato rumore.  Il sole di giugno aveva asciugato le fave, legate in grossi mucchi con le "ligame" e sistemati verticalmente.  L'aia era pronta.  
A poco a poco si andava riempiendo.  Si caricavano i muli e si legavano i fasci con robuste corde.  Si scaricavano e si ammucchiavano in modo da riempire tutto lo spazio dell'aia.  Si facevano entrare i muli appaiati che inizialmente erano ricalcitranti per l'impatto con i fasci che, a contatto con gli zoccoli, scricchiolavano emettendo un rumore caratteristico di cose che si scompongono in maniera disordinata.  
Le "ligame" erano state sistemate fuori dall'aia.  Sarebbero servite per legare fascine di legna, o per qualcos'altro.  Il contadino che guidava i muli teneva in una mano le redini e nell'altra "la zotta", una sorta di frusta che serviva a incitare gli animali.  Sotto la coppola, a contatto con la testa, metteva un fazzoletto che serviva a difendere il collo dai raggi del sole e dalla polvere della paglia, pruriginosa e fastidiosissima. 
 
Voci per incitare i muli.  Voci che si perdevano in lontananza o che si mescolavano ad altre voci di altri contadini impegnati a fare le stesse cose.  "Allestiti, muredda, ah baiuliddra..."". I muli giravano al trotto incessantemente, come in una danza che sembrava non dovesse mai finire; anche se il dorso luccicava di sudore e le froge spalancate ansimavano a respirare vento; nell'aia il conduttore incita le mule: 
"O bedda, o capitana, o muredda, o baia”.  Intanto la frusta schiocca "Occhiu vivu e cori cuntentu".  I muli trottano allargando e restringendo il giro a seconda della volontà del guidatore che declama, seguito dal compagni di lavoro:

  Arrisvigliati curuzzu  
Dammu volu a lu piduzzu,  

Dammu lena, damrnu sciatu,  

Viva Diu sacramintatu.

  E darrè la margunata  
Cc'e Maria, l'Annunziata,  
Chi ti conza la 'nzalata  
Cu l'acitu e bona ugliata.  
E firria cantu cantu  

Ca
cc'è l'angilu Santu,  
Lu Patri, lu Figliu e lu Spiritu Santu.

  E tri voti ludatu sia  
Lu nomu di Gesù e di Maria.

  E tri voti l'aiu ludatu  
Cu lu cori e cu lu Xiatu.  

0 Maria  
Aiuta a mia e a cu è darrè.  
0 San Simuni,  
Guardatimi di li ferri di li muli.

Dammu l'urtimu firriuni  
Pi fari cuntenti a lu patruni.  

E arrenniti gran mula  
Ca t'è dari'na bona nova.  
E chi nova è chista?  
Va a lu ventu e t'arrifrisca.

  Il volto, la fronte, gli occhi, le mani del contadino si tingevano di nerume quasi a deformarne la fisionomia, come fosse un altro, un estraneo, arrivato lì per caso, sconosciuto a tutti, venuto per far piangere il bambino che si era appena svegliato e si tratteneva con le mani alle corde "di la naca", ancora insonnolito e disorientato.  
Il
grande mucchio si andava assottigliando.  Un altro contadino, con il tridente spingeva al centro dell'ala le fave che schizzavano lontane.  Ogni tanto si davano il cambio.  Ad un tratto i muli si arrestavano.  Venivano condotti fuori dall'ala e fatti dissetare in una bacinella.  Poi si dava loro la biada perché ritemprassero le forze.  Intanto i contadini procedevano “a vuitari l'aia " (rimescolare l'aia) con i tridenti e già si capiva che con un'altra trottata, il lavoro sarebbe stato a buon punto.  Lasciavano i tridenti e si dirigevano "a li robi " per mangiare, in attesa del vento.  Il vento di ponente arrivava puntuale.  Si annunciava nelle cime più alte degli alberi che si muovevano appena.  
Era il segnale.  Si raggiungeva frettolosamente l'aia, si annodavano i fazzoletti, si scrutava l'orizzonte.  "Sta arrivannu na hiunnata  di ventu!  " (Sta arrivando un alito di vento!).  I tridenti si abbassavano e si innalzavano sempre con lo stesso ritmo.  Bisognava sfruttare le folate dì vento, necessario per pulire le fave dalla "bastarda ". Intanto nella parte estrema dell'aia andava comparendo "l'ammargunata", cumulo di paglia che si formava durante la "smagliatura”.  Quando cominciava ad imbrunire e le ombre sopraggiungevano lente e furtive, cessava il lavoro e ci si preparava alla notte.  Si portavano i muli dove c'era abbondante gramigna, si legavano al garrese, con una lunga corda fissata ad un grosso chiodo di legno che si faceva conficcare, il più possibile, nella terra dura e resistente.  La cavezza, le redini e il capestro venivano collocati sulla sella, a portata di mano, per essere utilizzati l'indomani.  Le galline erano state messe al sicuro "ni lu cufinu " (gerla) coperto da una bisaccia.  Le volpi e le faine facevano spesso, di notte, razzie.  Perciò era meglio essere prudenti.