“Il mondo contadino nel nostro passato"
Parte 8
Intanto sull'aia qualcuno stendeva una coperta e vi faceva cadere, dal
sacchetto slegato, pane e formaggio. Venivano
sbucciate le patate bollite e si preparava l'insalata con lattughe e cipolle.
Vi si strofinava una manciata d'origano.
Un profumo inebriante si diffondeva immediatamente.
Qualcuno finiva di sistemare bisacce e coperte tra la paglia di fave, per
passarvi la notte. Si mangiava che
la prima stella, lontana e luminosa, risplendeva raggiante di bellezza.
Ad occidente le ultime chiarie si perdevano lentamente nelle cavità dei
monti lontani. I gufi comunicavano
messaggi d'amore alle compagne, silenziose
e attente: "hiu, hiu, hiu
!!! " Sembrava che il
mondo intero tendesse l'orecchio a quel verso monotono e malinconico.
Come se la notte stringesse il suo manto di mistero su ogni cosa.
I ragazzi si stringevano nella coperta per una sorta di mal celata paura
che non volevano ammettere. Paura
per il buio, per le ombre degli alberi che si proiettavano fin sull'aia, per
qualche rumore strano. Chiudevano
gli occhi nella speranza di addormentarsi.
Poi li
Si riprendeva a lavorare. Si
pulivano le fave dalle ultime scorie. Non
si usava più il tridente ma la pala. Un buon mucchio di fave riluceva al centro dell'aia.
Si adoperava "lu
crivu ", il
setaccio a mano o trattenuto dal manico di corda al tridente, posizionato
verticalmente.
Con
il corbello si riempivano sacche e bisacce.
Si stava attenti a contarne il numero perché si avesse l'esatta misura
del raccolto che, il più delle volte, si doveva dividere con il padrone della
terra. L'aia veniva completamente
ripulita. La paglia di fave, in
parte, sarebbe stata adoperata come concime, specie per piante di fichi d'india.
Quando il trasporto delle fave era avvenuto, l'ultimo viaggio serviva per
portare ogni cosa direttamente in un altro fondo, per la mietitura del grano o a
casa.
L'estate indorava i campi
ondeggianti di spighe mature. A
perdita d'occhio, come mare, biondeggiavano mosse dal vento che le spingeva ora
da una parte ora dall'altra, scomponendole.
A serpentina. Poi ogni
movimento cessava d'improvviso.
Era
l'immobilità totale. Una distesa
infinita d'oro che dalle pianure, saliva sulle colline e s'inerpicava fin sul
costoni delle montagne. Era
arrivato il tempo della mietitura.
Per
vedere se le spighe erano pronte, se ne strofinava qualcuna nel palmo della
mano.
Se i chicchi sgusciavano
senza difficoltà, era tempo di prendere le falci.
Giungevano per quell'occasione, dai paesi vicini, da Cattolica,
Montallegro, Siculiana i mietitori con i loro asinelli, sbilenchi e ossuti.
Si sistemavano in piazza, sui marciapiedi, all'ombra, in attesa che
qualcuno li allogasse. I
proprietari delle masserie, quelli che avevano i feudi, contattavano e
allogavano una - due opere di uomini, a seconda della necessità.
Ogni opera comprendeva nove uomini: otto mietevano, uno legava i covoni. Portavano 'lu pitturali
" di tela cerata, a difesa della camicia, dei pantaloni e del petto
preservato dalle resche di spighe, fastidiose e pungenti.
La "manicheddra " anch'essa
di tela cerata, serviva a proteggere il braccio destro.
Al mignolo e all'anulare della mano sinistra portavano 'li
jtaleddra " di canna, a difesa dalla falce.
Larghi cappelli di paglia proteggevano la testa dal sole.
Li avevano comprati alla fine di maggio, per la festa del Crocifisso.
La fiera si svolgeva "a lu
sirruni ", uno spiazzo di terra arida e brulla, con le erbe secche e
ingiallite. Nasceva un'insolita
animazione. Veniva gente dai paesi
vicini. Portava muli, asini,
giumente, capre, agnelli per cercare di vendere o di comprare. in speciali
bancarelle venivano esposte falci, zappe, coltelli, selle, cavezze, capestri,
corde, finimenti, campanellini per carretti, forbici, incerate, catene, cappelli
e tante altre cose. Il prezzo di un
mulo si aggirava intorno ai quindici - venti - trenta tarì.
Un tarì equivaleva a quarantadue centesimi. Circa otto soldi e un grano.
Due tarì corrispondevano a diciassette soldi. Iniziavano i patteggiamenti tra l'acquirente e il
proprietario. Spesso non riuscivano
a mettersi d'accordo.
Si
introduceva 'lu ragatteri " (il
mediatore) che abilmente proponeva soluzioni.
Quando il negozio andava in porto riceveva un tarì
come ricompensa. La fiera si
concludeva a mezzogiorno. "A cantu
di calannira " quando, cioè, le prime allodole cantando si alzavano in
volo alle prime luci del nuovo giorno, i mietitori erano curvi al duro lavoro. Si sentiva soltanto il rumore delle falci che recidevano le
spighe. Il feudo si svegliava nel
volo di qualche tortora che rasentava le bionde messi, nel frinire cadenzato
delle cicale o nel lenito scodinzolare delle mucche che ruminavano immobili
Qualcuna ferma, immobile, qualche altra sdraiata e che girandosi svogliatamente,
faceva vibrare il campanaccio "don...
don... don... " Dopo qualche ora di lavoro, pigliavano "l'agliu
" una fetta di pane ciascuno e un po' di formaggio, per non essere
digiuni. Prima di mangiare, gli
operai lodavano il Signore. Il capo
operaio era generalmente il più competente nel lavori dei campi e il più abile
nel canto. Spettava a lui iniziare
la lode: "Ludammu
e ringrazziammu lu Santissimu e Divinissimu
Sacramentu". Gli altri rispondevano ad una voce "Sia lodatu". In piedi consumavano il primo pasto.
Veniva ripetuto il ringraziamento. Verso
le nove si tornava a mangiare. Il
solito rituale. Si facevano il
Segno di Croce, si sedevano per terra e mangiavano.
Mentre consumavano il pasto, nessuno parlava. Questo era l'ordine. Intanto
le ore si
sommavano. La calura diventava sempre più insopportabile; la fatica
appariva nei volti rigati di sudore, nelle camice inzuppate, umide.
C'era uno che aveva il compito di seguire a cavallo gli operai; dava
l'acqua a chi la chiedeva e porgeva le "ligame" bagnate per legare i
covoni. Verso mezzogiorno e intorno
le 17:00 altre due pause per riposare e mangiare qualche fetta di pane con il
solito formaggio. Soliti ringraziamenti e lodi al Signore.
Molte spighe erano state falciate e raggruppate abilmente in 'jermita".
Ogni sette - otto jermita formavano "na
gregna ".
Quando la calura cominciava a declinare, dopo le 17:00, il "ligatore
" metteva nella cintura dieci "ligame" e servendosi di "ancinu e ancineddru", andava a fasciare " li
gregni". L'ancinu era una forcella di legno a "V" con il
manico di legno. L'ancineddru era
una forcella di ferro con l'estremità ricurva, atta a prendere "li jermita " che venivano posti, fino a quattro, nell'ancinu.
Si stendeva la "ligama" per terra; si faceva pressione con le
braccia e le ginocchia; si legava la "ligama" in modo scorrevole,
facile da sciogliere nell'aia. La
giornata stava per concludersi. Si
sentiva lo scampanio delle pecore che tornavano allo stazzo. Le ombre della sera si allungavano come lunghe, invisibili
mani su ogni cosa. Lungo il letto
del fiume ciottoloso e asciutto, file di mucche come in processione, risalivano
lentamente verso il recinto. Ranocchi
e raganelle gracidavano semicoperte dal limo verdastro
di qualche pozzanghera. La sera era
scesa. Una giornata di duro lavoro
conclusa.