“Il mondo contadino nel nostro passato"

Parte 9
Molte altre ancora, identiche, ne sarebbero seguite.  Molte spighe erano vive, ondeggiavano, bisbigliavano urtandosi ai lievi soffi del vento.  Con le falci sulla spalla, i mietitori, arrossati e stanchi, si dirigevano a li robi o alla casa feudale, quando c'era.  Trovavano i maccheroni cotti in una grossa pentola di rame.  I piatti erano pronti, con la pasta fumante che qualcuno aveva procurato a grattugiare con formaggio pecorino.  
In piedi lodavano il Signore.  Poi, seduti per terra, su bisacce, cominciavano a mangiare.  Alla fine lodavano il Signore e andavano subito a riposare.  Per cuscino le giacche e per tetto un cielo di stelle.  I grilli avevano acceso il firmamento con i loro cri-cri-cri interminabili e monotoni.  La luna illuminava le colline e le pianure.  Si stagliava oltre le montagne che sembravano chiese.  E intanto, adagiati nelle crepe della terra, i poveri mietitori, distrutti dalla fatica russavano, incuranti del frinire dei grilli, dell'alito di vento che carezzava i loro volti ruvidi, della luna che viaggiava incessantemente sopra le cime degli alberi, sopra le loro teste, fino a diventare sempre più pallida, più piccola, un fiocco, un barlume appena e tramontare del tutto.  Così trascorrevano le settimane.  
Il grano era stato mietuto e sistemato "a la costa " in "gregni, 'ncavaddrati e mazz”. L'allodola si alza con voli brevi, disegnando con le piccole ali grigio - scuro altalene soffici che degradano lentamente fino a scomparire del tutto nel campi già mietuti.  
E' il nuovo giorno.  I silenzi sono stati rotti dal canto improvviso del merlo e le lunghe ombre della notte, fugate da barbagli di luce dell'alba che schiude promesse di vita.  
La campagna si anima.  Come se mani invisibili avessero aperto il grande sipario per far comparire sulla scena attori, figure secondarie, protagonisti.  In lontananza abbaiare dei cani.  In lontananza qualcuno canta.  

E' doveroso ricordare una figura del mondo contadino che era espressione significativa della miseria di quei tempi: "la spicalora " (la spigolatrice).  Il sole tarda ad arrivare ... Tu sei già curva a raccogliere le spighe, sfuggite al mietitori.  La tua mano segue rapida l'occhio che cerca in mezzo alle erbe secche, alle spine, al crepacci della terra, dura per la prolungata siccità.  Quattro, cinque, dieci spighe.  Con gesti precisi togli a ciascuna lo stelo e le fai cadere nel sacco ove si perdono nel fondo che le accoglie ancor rade.  Ad oriente s'infiamma il cielo.  Lentamente le valli, i ripiani, le stradicciole si riempiono di luci, di rumori.  Tutti hanno raggiunto il posto di lavoro.  Qualcuno tiene per la cavezza il mulo che scalpitando, solleva polvere lungo la viottola.  Donna dal volto duro per il gelo dell'invemo o per la troppa calura estiva che screpolava le tue labbra, perdesti troppo presto l'infanzia.  Troppo presto offristi la schiena al peso eccessivo che ti faceva barcollare.  I vestiti sgraziati nascondono i tuoi lineamenti.  Come se non fossi donna, come se non avessi corpo, come se la tua bellezza camuffata, nascosta, non fosse più adatta per sedurre.  Come se la tua bocca, bocca di donna che contiene miele e zagare, dovesse servire solo per raccogliere lacrime e sudori, impasto triste e inevitabile nella calura estiva.  Ti vai spostando lentamente.  Il sacco che arriva quasi al tuoi piedi, comincia a pesare e la corda che lo lega alle tue spalle, rasente il collo, lascia dei segni, delle striature rossastre sulla tua carne che va perdendo morbidezza e armonia.  Le tue mani, da sottili che erano, fatte per portare anelli, a furia di stringere terra ed erbe, s'ingrossano, si curvano, si deformano.  Indossi camicie pesanti, ti copri il petto e il volto, quasi interamente, per difenderti dal sole che brucerebbe la tua bellezza, toglierebbe al tuo viso e al tuo corpo la lucentezza levigata che fa brillare le donne e le fa desiderare come morbida frutta matura.  Il sole è il padrone di ogni istante.  Le ore s'inseguono.  Cerchi spazi di ombra che trovi quando sfiori alberi.  La brocca d'acqua, appoggiata all'ulivo, smorza l'arsura della tua gola.  Il pane che consumi è troppo duro.  Sa di sale e di dolore.  Ogni tanto, svogliatamente, volgi lo sguardo verso la trazzera al passare fugace di pecore, accaldate e rumorose.  Ad occidente le prime ombre scivolano in silenzio.  I grilli accendono la notte che si popola di stelle e di misteri.  Hai tolto il fazzoletto dalla tua fronte.  I tuoi capelli, biondi come campo di grano, dorati come le spighe che hai raccolto, si sciolgono sulle tue spalle, luminosi e danzanti come canto, al lieve sussultare del tuo corpo.

Per la trebbiatura si sceglieva il posto più ventilato.  Si preparava l'aia.  Con le zappe si dissodava e si appianava una circonferenza di terra; la si puliva dalle stoppie e si dava uniformità al terreno.  Nelle bisacce si otteneva "la bastarda ", pulviscolo fine misto a scorie di spighe.  Qualcuno con le "quartare "n 'zulava l'aria " (operazione di preparazione dell'aia) su cui si spruzzava la bastarda che s'attaccava alla terra inumidita.  Si pigiava forte con i piedi perché aderisse il più possibile.  "Li gregni vicini" venivano trasportate a mano, messe al centro dell'aia e slegate.  Per quelle lontane si adoperavano i muli che viaggiavano fino a che l'ultima gregna era stata trasportata.  Tale operazione veniva chiamata "strauliari ". L'aia completa conteneva quattro - cinque - sei mazzi, a seconda della capienza.  Ogni mazzo equivaleva a venti covoni.  Si poteva trebbiare con una sola mula o con due - tre - quattro, addirittura con otto se l'aìa lo permetteva.  Il procedimento era quasi identico a quello per la trebbiatura delle fave.  Chi faceva entrare le bestie nell'aia, si lasciava andare a dei ritornelli rituali, come canti prolungati che si confondevano con altri canti di altri contadini:

  "Attunnu attunnu beddri armali!

Attunnu paparina!

Eia, beddr'armali

C'amma'ffari paglia!!!

  Cominciava così il girotondo.  I muli affondavano nei covoni fino ai fianchi e giravano, giravano spinti dalle voci e dalle nerbate del conduttore che ogni tanto doveva scansare il calcio di qualche animale che si adombrava facilmente e non sopportava la staffilata "di lu cacciaturi ". Ogni tanto si facevano uscire i muli per farli dissetare e riposare.  Si procedeva a rivoltare l'aia con i tridenti, perché le spighe ancora intatte potessero essere sgranate.  Tale operazione si ripeteva più volte, fino a quando si capiva che arrivava il momento di spagliare.  Si aspettava l'arrivo dei venti "boni" (favorevoli): il ponente e la tramontana.  Se soffiavano venti "bastardi" non si poteva spagliare.  
Il vento, puntualmente, cominciava a spirare verso le 11:00; durava fino alle 14:00 - 15:00.  Poi "abbacava " (si smorzava).  I muli brucavano gramigna, "spireddra, curriola, lattucheddra e fraschi sicchi " ' Intanto la donna preparava da mangiare.  
Di pomeriggio si riprendeva a "strauliari e a pisari ".
Quasi fino a sera.  

Intanto, molta paglia si era ammucchiata e si era formata "la mmargunata” più soffice di quella delle fave.  La notte arrivava.  Le mamme preparavano nella morbida paglia , giacigli per passarvi la notte.  I bambini si rincorrevano festosi e si tiravano manciate di paglia.  Con gioia si esibivano "cu li cazzicatummini " (spericolate capriole) che i grandi avevano loro insegnato.  C'era sempre la nonna che raccontava qualche storia... Un giorno un ragazzo portava le pecore al pascolo.  Ammirava lo splendido paesaggio primaverile.  Inseguiva con lo sguardo il volo delle capinere.  Avrebbe voluto prenderne qualcuna per sé.  Gli agnelli belavano festosi.  Ad un tratto il ragazzo prende un osso in mezzo alle erbe.  Lo esamina attentamente e comincia ad inciderlo con il coltello per farne uno zufolo.  Dopo qualche istante lo avvicina alle labbra e vi soffia dentro.  Ne fuoriesce un suono metallico, strano, come di parola.  Meravigliato il ragazzo lo depone a terra come preso da improvvisa paura.  Lo riprende e mentre avvicina nuovamente l'osso alla bocca , come per magia comincia a parlare: "Picurareddru chi mi teni 'm brazza, mannu ammzzatu a l'acqui sirini, di li me frati lu cchiù granni.fù ".  
Il racconto procurava sempre un misterioso timore.  Le stelle ammiccavano silenziose e lontane.  I cani, dopo l'ultima uggiolata, si accovacciavano in comode buche di paglia.  Con le coperte ruvide si era provveduto a preparare letti grandi ove potevano dormire fino a quattro persone. Ci si metteva a letto dopo aver tolto solamente le scarpe.  La nonna continuava a raccontare storie del passato.  Poi si accorgeva che i bambini dormivano e cercava anch'essa una posizione più comoda per riposare.  Appoggiati "a la 'mmargunata " erano visibili le brocche ripiene di acqua, "lu bummulu e la lanceddra " con il tappo di sughero, messe lì "a lu sirinu " (all'aperto) perché l'indomani l'acqua fosse freschissima.  Quando la paglia era stata completamente tolta, bisognava usare le pale con le quali, allo spirare del vento, si ripuliva il grano dalla "hiusca " una sorta di pulviscolo.  Si usava 'lu crivu strittu " per l'ultima operazione di pulitura del frumento che veniva ammucchiato, splendido e dorato, al centro dell'aia come una piramide.  Come per le fave allo stesso modo si sarebbe proceduto per trasportarlo a casa.  Nei sacchi o nelle bisacce.  Di giorno ma anche di notte.  Lungo le viottole anguste e familiari; lungo le trazzere antiche e polverose.  Con i muli legati l'uno dietro l'altro, in fila.  Con la paura di venire derubati prima di arrivare in paese.  Con la preoccupazione di essere sorpresi dal sonno mentre viaggiavano da soli nel cuore della notte.  E allora si sentiva in lontananza un suono mesto, indistinto, prolungato, come di civetta, o di gufo, o di piccolo mostro che sorgeva dalle tenebre per incutere paura ai viandanti, raminghi e solitari, mentre il mondo russava, incurante ed ignaro del pericoli dei poveri contadini.  Era il suono della "brogna ", una grossa conchiglia levigata e carnosa, ma fredda.  Qualcuno, mentre guidava la lunga fila di muli che trasportavano di notte il frumento, avvicinava alla bocca, il più possibile, la conchiglia e vi soffiava dentro forte, forte con quanto fiato avesse.  Ne usciva un suono cupo, malinconico, strozzato "hiu, hiu, hiu... ". Faceva tutto ciò per farsi compagnia, per sentirsi meno solo nella vacuità della notte e far sapere ai briganti che era sveglio, che non stava dormendo e che si sarebbe potuto difendere.  

Per il trasporto della paglia venivano riempiti "li rituna ", capienti contenitori di corda, a maglie intersecate.  Era un'operazione che necessitava di aiuto.  Bisognava essere abili nel pressare la paglia e nel caricarli sopra i muli, nel giusto equilibrio.  Si scaricavano "n'ti li paglialori " locali angusti e malmessi; si cercava di riempirle completamente per un'adeguata provvista per gli animali.  Anche la trebbiatura del grano era finita.  
I contadini avevano riposto nei granai la Grazia di Dio e si appressavano a saldare i debiti con il sarto, il calzolaio, il barbiere.  Nelle aie erano rimaste lunghe colonne di nere formiche che si affannavano, in un andirivieni metodico e ben articolato, a nascondere in minuscole buche chicchi di grano, per il lungo inverno.