c os'ho imparato da Auschwitz               
 

Un medico non ebreo che mi vide leggere un libro su Norimberga mi disse, "Quando leggo dell’Olocausto, divento clinicamente depresso." Aveva ragione. La letteratura sull’Olocausto va presa a piccole dosi, inframmezzata da altre letture. Se vi ci tuffate per mesi di seguito, finite coll’aver voglia di ammazzarvi.

 

Nel suo romanzo "Jurgen", James Branch Cabell racconta di come Merlino manda Jurgen da un Druido che gli aveva promesso di rivelargli la verità della vita. Merlino sembra intimorito all’idea di accettare l’invito personalmente. Jurgen, dopo aver ricevuto la rivelazione, trova che questa sia piuttosto spiacevole. Al che il Druido replica: "Se Merlino avesse visto ciò che hai visto tu, Merlino sarebbe morto, e morto senza rimpianti, poiché Merlino affronta i fatti in modo ragionevole."

 

Ciò nonostante, nel compilare l’Alfabeto di Auschwitz, ho imparato alcune cose.

 

 

Dio non c’è

 

La più importante lezione che si può imparare da Auschwitz è che Dio non esiste. Il Rasoio di Occam c’invita a non cercare una spiegazione complicata quando è disponibile una semplice. Da Auschwitz in poi, i teologi hanno dovuto affrontare una serie di grandi contorcimenti per rimanere legati all’immagine di Dio. Ci sono due sole possibilità: o Dio ha causato (o almeno permesso) la distruzione degli ebrei, dei gitani e delle altre vittime, oppure a Dio non importa. Il primo approccio è inaccettabile per due motivi. Significa che interi gruppi di persone possono essere messi all’indice in base alla razza o ad altre caratteristiche, il che va contro tutto ciò in cui io credo. E fa di Dio uno sterminatore di masse. D’altra parte, se a Dio non importa, perché credere in Lui? Un Dio incurante è crudele o negligente, o peggio, un Dio che non s’accorge degli uomini e delle loro ambasce. Quest’ultimo – il Dio di Spinoza e dello psicotico Dr. Schreber di Freud – è in realtà soltanto una formulazione metafisica, che ha poco o nulla a che vedere con l’idea popolare di Dio come essere che interviene nella storia umana.

 

Sebbene le possibilità siano due sole, esiste un terzo approccio per mantenere la fede in Dio: tacere e piantarla di fare domande. Curiosamente, questo è il messaggio non di Dio ma del diavolo al cavaliere ne "Il settimo sigillo" di Bergman. Probabilmente, la maggior parte di coloro che credono oggi in un Dio ebreo o cristiano – o almeno spero si tratti della maggioranza – semplicemente non mettono Dio a confronto con la domanda di come Egli abbia potuto permettere che Auschwitz accadesse. Quest’approccio però è inaccettabile per coloro che pensano che non vi sia alcuna area tabù per gli interrogativi umani.

 

La spiegazione di gran lunga più semplice per Auschwitz è che non c’è un Dio ad intervenire nelle faccende umane. Non esiste divinità che si curi di ciò che facciamo gli uni agli altri. Tutta la compassione e l’odio nell’universo umano sono nostri. Siamo soli.

 

 

Sopravvivere ad Auschwitz non fu un’esperienza nobilitante

 

Ho esitato prima di includere quest’aspetto, poiché è un fatto marginale più che una questione fondamentale. Inoltre, questo genere di considerazione potrebbe essere indirettamente usato per alimentare l’antisemitismo. Dato che si tratta di un’intuizione avuta nel fare ricerche su Auschwitz, non l’ho voluta tralasciare. Ma non voglio nemmeno darle troppa importanza.

 

Sarebbe facile credere che chiunque sia sopravvissuto ad Auschwitz sia per forza un santo. Non mette conto parlarne. Auschwitz era un campo di sterminio. Un santo ad Auschwitz sarebbe probabilmente morto il giorno dell’arrivo. Un santo che sopravvisse ci riuscì nonostante la santità, non grazie ad essa. Quelli che sopravvissero vi riuscirono perché avevano sfruttato qualche vantaggio sugli altri. I dottori sopravvissero perché fin da subito i nazisti avevano deciso di risparmiarli ed arruolarli nella vita amministrativa del campo, compresi gli esperimenti sulle cavie umane. Gli artigiani esperti sopravvissero perché le loro capacità erano necessarie. Le prostitute polacche furono risparmiate per la baracca bordello. I faccendieri, che si resero indispensabili alle autorità del campo, sopravvissero.

 

Art Spiegelman in Maus ci racconta la storia di suo padre, imprenditore, che sopravvisse ad Auschwitz. Riuscì a persuadere il capo della sua baracca di essere un ciabattino. Riuscì ad imparare come fare alcune semplici riparazioni. Quando gli fu dato un paio di stivali molto oltre le sue capacità, il sig. Spiegelman trovò un calzolaio in una delle altre baracche e subappaltò il lavoro. Il sig. Spiegelman sopravvisse in parte grazie al lavoro di quest’uomo, ma del fato del vero calzolaio non è dato di sapere.

 

Non ricordo la fonte di un altro racconto. Ogni mattina, gli abitanti di ciascuna baracca dovevano presentarsi all’appello. Nonostante il caos del campo, gli assassinii e le morti giornaliere per malattia e sfinimento, la linda predisposizione tedesca alla burocrazia implicava che i numeri dovevano essere controllati e che l’appello si facesse ogni giorno. Chiunque fosse scoperto all’appello senza scarpe sarebbe andato in gas – ma un attimo di distrazione e qualunque effetto personale poteva essere rubato.

 

Un ragazzo sopravvissuto ad Auschwitz raccontò di essere stato stuprato una notte nella sua cuccetta da un altro internato. Il mattino dopo si accorse che lo stupratore gli aveva rubato le scarpe, per esser certo della sua eliminazione. Egli ne prese così semplicemente un paio da qualcuno che ancora dormiva, assicurando la distruzione dell’altro al posto della propria.

 

Primo Levi sopravvisse perché era giovane, relativamente forte, e dottore in chimica. Queste sono le sue parole a proposito dei sopravvissuti di Auschwitz:

 

Restavano solo i medici, i sarti, i ciabattini, i musicisti, i cuochi, i giovani attraenti omosessuali, gli amici o compaesani di qualche autorità del campo; inoltre individui particolarmente spietati, vigorosi e inumani, … e infine coloro che, pur senza rivestire particolari funzioni, per la loro astuzia ed energia fossero sempre riusciti a organizzare con successo, ottenendo così, oltre al vantaggio materiale e alla reputazione, anche indulgenza e stima da parte del campo. … (Tutti gli altri) hanno seguito il pendio fino al fondo, naturalmente, come i ruscelli che vanno al mare.

 

Se questo è un uomo, pagg. 112-113

 

 

Auschwitz non è una carta di credito

 

Al liceo avevo un’amica libanese. La nostra era un’amicizia piena; potevamo parlare di quasi tutto. Mi raccontava d’aver appena lasciato un ragazzo; io replicavo con una critica, e lei rispondeva, "non tratterei mai te in quel modo." Eravamo molto attratti l’uno dall’altra, ma non sarebbe mai potuto succedere nulla a causa della questione arabo-ebraica, che era l’argomento sul quale la comunicazione s’interrompeva sempre.

 

La scuola si trovava in un quartiere a maggioranza ebraica, e la maggior parte degli insegnanti era ebrea. Lei non negava che l’Olocausto fosse accaduto, ma riteneva che i nostri insegnanti, parlandone ogni anno, lo usassero come una sorta di assegno in bianco per gli interessi ebraici del momento – un’accusa che mi faceva impazzire di rabbia a quei tempi, ma che oggi prendo più sul serio. Più tardi incontrai un’altra donna, di discendenza indiana d’America, che aggiunse la sua teoria: ti sono successe solo le cose che ti sono, in effetti, successe personalmente. Se hai sperimentato l’antisemitismo nella vita, ne hai fatto esperienza, e possibilmente hai imparato qualcosa e ti sei evoluto per causa sua. Ma se non ti è accaduto, quel che è successo al tuo popolo prima che tu nascessi non ti conferisce alcun genere di statura morale.

 

I nostri insegnanti del liceo amavano scrivere alla lavagna la citazione da Santayana secondo la quale se non si ricorda il passato, si è condannati a ripeterlo. Questa è la ragione più importante per ricordare Auschwitz – messaggio che va sovente perso nel modo in cui è trasmesso, ad esempio quando i nazisti sono presentati come un "altro" demoniaco, del tutto diverso da noi. Riprenderò questo tema più avanti. Il punto è che, ogni qual volta si parla di Auschwitz, vale la pena di chiedersi quale sia il substrato del discorso. Se mai va in aiuto di un progetto di sostegno di un singolo paese, o del miglioramento delle condizioni di un singolo gruppo, s’insultano coloro che sono morti. Se il discorso va a favore di un auto-esame, della fine dell’odio e del divenire persone migliori, allora si deve ascoltare.

 

 

Ci sono diversi modi di ricordare

 

Non basta ricordare semplicemente il passato; si deve ricordare la verità, analizzarla, trarne delle regole e desiderare d’agire. Ma non è questo ciò che solitamente facciamo. La maggior parte del nostro ricordare, a dire il vero, genera l’effetto contrario: è un passo preparatorio all’espulsione finale della verità dalla coscienza collettiva. Questo genere di memoria è simile al processo mediante il quale l’ostrica crea una perla ricoprendo un’impurità. Il film Schindler’s List è un esempio di questo tipo di memoria; ci manda a casa dai cinema speranzosi e sollevati, con la sensazione che l’Olocausto è sistemato: è sorto un eroe a prendersi cura dell’Olocausto. Così facendo, racconta la storia sbagliata. Le principali tematiche dell’Olocausto non furono salvezza e speranza, ma disperazione e morte. Di tutti i libri che ho letto su Auschwitz, nessuno menziona Oskar Schindler, o riporta l’episodio mostrato nel film del salvataggio degli "ebrei di Schindler" da Auschwitz. Al contrario, la maggioranza è concorde sul fatto che non c’era salvazione da Auschwitz. Secondo Hannah Arendt in Eichmann in Jerusalem, Adolf Eichmann testimoniò che nemmeno a lui era riuscito di salvare un "caro" ebreo da Auschwitz.

 

Come ricordare una verità che è causa di depressione clinica? Una verità che fa desiderare di morire ad un uomo o una donna che "affronta i fatti ragionevolmente"? Ti corazzi e la ricordi, punto e basta. La sola speranza che si può trarre da una tale verità, vista chiaramente, è l’impegno ad agire in modo diverso e a fare la propria parte per rendere il mondo diverso da com’è.

 

 

I nazisti non sono diversi da noi

 

Sono nato nel 1954, e la maggior parte di ciò che so della vita l’ho imparato al cinema. I nazisti di celluloide sono cattivi idioti e vanagloriosi, visti in film come Quella sporca dozzina e Operazione Crossbow. Si può leggere Ascesa e caduta del terzo Reich o qualunque libro sui processi di Norimberga e scoprire che le persone al vertice – Hitler, Goering, Goebbels ed altri – si comportavano come i cattivi dei film. Ma dietro di loro v’era una moltitudine di persone che non doveva per forza fare così. Seguivano i loro capi. Alcuni lo facevano con entusiasmo, altri seguivano seguendo la corrente. Come noi. Per ogni dr. Mengele, ogni sadico che godeva nell’uccidere, c’erano cento o mille Eichmann, burocrati che si occupavano di trovare la capacità ferroviaria per portare gli ebrei ad est o le scorte di Zyklon B necessarie a gassarli. La responsabilità degli eventi era così capillarmente diffusa attraverso la burocrazia, la società, che quelli che amavano uccidere lo facevano, e tutti gli altri ne erano protetti. La sola differenza tra la nostra società, od ogni altra, e la Germania nazista, è il capo carismatico che ci assicura che uccidere è giusto. E non c’è niente nella nostra società che gl’impedisca di prendere il potere – in effetti, ci è già successo in diverse variazioni.

 

In un recente articolo ho messo a confronto due libri, Ordinary Men, su un gruppo di poliziotti tedeschi di mezz’età incaricati di uccidere ebrei, e Band of Brothers, su un plotone di paracadutisti nell’invasione americana dell’Europa. L’umanità e la malvagità in entrambi i gruppi di uomini traspaiono dalle pagine dei due libri. Non v’è dubbio che, se ai tedeschi non fosse stato ordinato di uccidere, essi sarebbero stati molto più felici e che, se agli americani fosse stato ordinato di sparare a donne e bambini tedeschi indifesi, la maggior parte lo avrebbe fatto.

 

In quegli stessi anni del liceo – quelli della mia formazione morale – fui molto perplesso da opposti fatti di cronaca. Durante alcuni incidenti, simili al famigerato omicidio di Kitty Genovese, gruppi di persone erano stati a guardare mentre qualcuno veniva aggredito o ucciso. In altri casi, un gruppo di persone si era mosso in aiuto della vittima, l’aveva salvata ed aveva trattenuto l’assalitore fino all’arrivo della polizia. Io stesso detti una mano ad inseguire un paio di ladri per strada, e capii la spiegazione. Io avevo corso perché qualcuno aveva gridato "al ladro!", ed era scattato per la via. Quando la folla salva una vittima, qualcuno ha agito per primo, e gli altri hanno seguito. Quando la folla sta a guardare, nessuno ha preso l’iniziativa. Probabilmente la maggior parte delle persone è in equilibrio precario tra l’azione e l’inazione, tra il bene e il male. Tutto dipende da quello che si fa avanti.

 

Una delle citazioni più pregnanti che ho trovato leggendo di Auschwitz è anche una delle più famose, e fu pronunciata da Himmler in un petulante discorso ai generali delle SS, quando si trovò assediato da richieste di salvare alcuni particolari ebrei:

 

E poi arrivano ottanta milioni di degni cittadini tedeschi, e ognuno di loro ha il suo buon ebreo. Gli altri sono feccia, naturalmente, ma questo è un ebreo di prima qualità.

Poi egli proseguì affermando che si deve resistere a questi impulsi di debolezza e compassione, per divenire grandi:

 

La maggior parte di voi sa cosa significano cento cadaveri uno accanto all’altro, o cinquecento, o un migliaio. Aver sopportato questo, ed insieme esser rimasti persone dignitose, questo è ciò che ci ha resi così duri.

 

È tutto qui: la patologia del potere, il nucleo compassionevole nel petto di ottanta milioni di tedeschi, e persino l’illusione di avere conservato la dignità. Noi non siamo diversi.

 

 

Il genocidio è sempre con noi

 

Auschwitz non è stato unico nel suo genere, ma solo nelle dimensioni. In ogni epoca storica, gli esseri umani si sono macchiati di genocidi, dalle battaglie fra tribù concorrenti d’uomini preistorici fino alla "pulizia etnica" di oggi in Bosnia.

 

Come ognuno degli ottanta milioni di leali cittadini tedeschi ha il suo ebreo favorito, così ognuno di noi ha il suo genocidio preferito, quel genocidio che costituisce un’eccezione, che è stato compiuto per legittima difesa, o è un riprovevole ma comprensibile atto di guerra, o di eroismo, o l’esercizio del diritto divino a reclamare un diritto di nascita. Ci sono israeliani oggi che pensano che lo sparatore nella moschea sia un patriota e un eroe, serbi che ritengono che la debole reazione della NATO alla pulizia etnica sia stata sproporzionata, e milioni d’americani che non si rendono conto che gli stessi Stati Uniti sono fondati sul genocidio.

 

Se si dice che sì, ma è stato nell’altro secolo, e le cose erano diverse, e gli americani da allora sono cambiati, allora si pensi ai mucchi di cadaveri di My Lai, donne e bambini assassinati agli ordini del tenente William Calley.

 

So che sembro pericolosamente vicino ad affermare che il genocidio è inevitabile, che gli uomini uccideranno sempre altri uomini per la terra o il potere, quindi facciamocene una ragione. Invece non voglio per nulla dire questo. Gli uomini non hanno mai volato, finché non hanno imparato a volare. Il fatto che qualcosa è sempre stata così non significa che così deve continuare.

 

Finché ci viene insegnato che il genocidio è una cosa che può esser commessa solo da un demoniaco "altro da sé", che noi siamo brave persone e non potremmo mai provare il desiderio di macchiarcene, noi perpetueremo il genocidio, perché sono proprio quelli che negano (come diceva Santayana) che portano avanti le malvagità ed i disastri del passato. Gibbon ha scritto che la storia non è altro che la raccolta delle follie e delle sfortune del genere umano; ma non è inciso nella pietra che noi siamo eternamente condannati a commettere gli stessi crimini ed errori finché non ci estingueremo da questa terra. C’è una via d’uscita.

 

 

I nostri cuori sono vulnerabili ad un malessere cui si può resistere

 

Il nostro cuore morale, come quello fisico, è debole e vulnerabile alle malattie. Se riconosciamo questo, e facciamo intendimento di resistervi, abbiamo una possibilità di vivere. Se lo neghiamo e insistiamo ad assicurare che il nostro cuore è a prova di fallimento, facciamo entrare la malattia dalla porta principale.

 

Come frammenti di un ologramma, ognuno di noi contiene un’immagine dell’intera nostra specie; ognuno di noi è partecipe di tutta la bellezza e di tutto il male dell’essere umani. Tutti siamo partecipi della musica di Mozart e dell’animo omicida di Mengele. Se la mattina ci guardiamo allo specchio e diciamo a noi stessi, "ho il viso di un assassino", ci saremo messi nella posizione di cominciare il lavoro che deve essere fatto. Ciò implica fare un bilancio giornaliero, chiedendo a se stessi ogni sera cosa abbiamo fatto durante il giorno per ostacolare quell’assassino. Qualunque cosa facciano gli altri, che anch’essi svolgano quel lavoro o no, noi avremo fatto la nostra parte per fare in modo che Auschwitz non accada mai più.

 

 

   

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