Dalla Guerra Fredda alla Guerra, di Sergio Finardi

Questo viaggio nella macchina industriale-militare statunitense prende in considerazione le premesse storiche e politiche dello sviluppo postbellico di tale macchina, la spesa militare nel periodo 1948-1998 e il suo supporto ideologico, la struttura del complesso militare-industriale e gli scopi politici ed economici del commercio di armamenti, il rapporto tra strategie militari e politica estera. È oggi urgente risalire alle fonti dell’incredibile manipolazione della verità in atto. Per questo occorre ritornare al 1945, prima di vedere come funziona oggi, e con quali obiettivi, l’apparato che sta incendiando i Balcani con la complicità dei governanti europei.

La macchina propagandistica e ideologica che ha tagliato anche gli ultimi residui di materia grigia del 90% dei giornalisti e dei politici italiani sui tragici avvenimenti iugoslavi, che nega ogni voce alle idee differenti, è una macchina ben sperimentata, l’arma più efficace che i signori della guerra statunitensi hanno inventato dal dopoguerra in poi sugli esempi fascista e nazista e che hanno esportato in tutto il mondo. È questa macchina che ha costruito, ancor prima delle risorse economiche, il potere enorme di un apparato militare che è oggi la punta di diamante di una destabilizzazione mirata di tutti i teatri politico-economici che non si adeguano agli interessi dei gruppi statunitensi. Credo utile iniziare il nostro viaggio citando le parole che John Loftus, del Dipartimento della Giustizia statunitense e Federal prosecutor nell’unità di ricerca sui criminali nazisti, scrisse in un suo libro del 1982: "In un certo senso, noi Americani siamo le ultime vittime dell’Olocausto, imprigionati dai segreti della Guerra fredda e rinchiusi in una fortezza di menzogne. In una società democratica, c’è solo una via di liberazione, molto difficile: Wahrheit Macht Frei", la verità rende liberi (1).

La matrice della Guerra fredda: da Krosigk a Churchill

"Ad Est, avanza inesorabilmente la cortina di ferro dietro alla quale, non vista dagli occhi del mondo, continua l’opera della distruzione". No, queste parole non sono tratte dal famoso discorso della "Cortina di ferro", simbolico inizio della Guerra fredda che Winston Churchill disse il 5 marzo del 1946 al Westminster College di Fulton, Missouri, ospite del presidente statunitense Truman. Esse vennero pronunciate molto prima, in un discorso trasmesso il 2 maggio del 1945 dalla radio di Berlino e riportato dal londinese The Times il 3 maggio (2). Erano del conte Schwerin von Krosigk, già ministro delle Finanze e degli Esteri in passati governi nazisti, che si rivolgeva alla nazione come capo del "governo provvisorio" insediatosi quel giorno stesso con la speranza di poter rappresentare gli interessi della Germania sconfitta nelle future trattative con gli Alleati.

L’immagine della cortina di ferro che scendeva tra Est e Ovest, usata nel contesto del discorso inaugurale dell’ultimo governo nazista, mirava ad incidere sulla coesione degli Alleati e ad ottenere per i tedeschi una sorta di salvacondotto in nome di una inevitabile futura guerra (che sarà pure esplicitamente menzionata) contro il nemico ideologico "comune", l’Urss di Stalin, il comunismo. Di una cortina di ferro che stava scendendo ad Est aveva parlato poco prima, in un discorso del 25 febbraio, anche Goebbels, ex ministro della propaganda nazista, forse memore dell’espressione usata, per la prima volta, in un libro di Vasily Rozanov del 1918 sulla Russia bolscevica, "Apocalisse del nostro tempo". Nel suo indirizzo alla nazione, Krosigk aveva inoltre sostenuto, alludendo alle trattative tra gli Alleati in corso in quei giorni a San Francisco per la costituzione dell’Onu, che non si poteva trovare "a San Francisco il soddisfacimento di ciò cui ora aspira una umanità sperduta", poiché nessun ordine stabile poteva basarsi "sul considerare il rosso incendiario [l’Urss] come un portatore di pace" (3).

Il governo provvisorio tedesco non durò tuttavia a lungo e il 9 maggio Eisenhower, a capo delle forze alleate che avevano ormai il controllo della Germania, ordinava l’arresto dei suoi rappresentanti, considerandoli per quello che erano, criminali di guerra. Era la capitolazione della Germania nazista, ma forse non dei sogni di Krosigk, un consumato diplomatico che aveva ritenuto evidentemente di poter trovare nel campo nemico orecchie che potessero intendere quella frase.

È possibile che egli pensasse soprattutto a quegli ambienti industriali e finanziari statunitensi ed europei che avevano visto di buon occhio la politica antiebraica e anticomunista della Germania hitleriana (4). Krosigk aveva di quegli ambienti una conoscenza probabilmente dettagliata, ma è difficile pensare che sperasse di trovare udienza proprio da uno dei campioni della disfatta del nazismo. Eppure, nei giorni immediatamente successivi al 9 maggio, il premier inglese Churchill, che stava guardando con crescente timore alla presenza sovietica nei territori est europei e balcanici e che certamente lesse il Times (5), esprimeva in due telegrammi (T. 877/5; T. 895/5), "personal and top secret", considerazioni molto vicine a quelle fatte da Grosigk.

L’11 maggio il premier telegrafava ad Anthony Eden, suo ministro degli Esteri impegnato allora nelle trattative di San Francisco: "Ci sono oggi notizie sulla stampa di un ritiro di molti contingenti americani che andrà avanti da ora, mese dopo mese. Cosa dovremo fare? Il Paese eserciterà presto una forte pressione su di noi per la smobilitazione parziale. In un breve lasso di tempo i nostri eserciti saranno sciolti, ma i russi potrebbero rimanere con centinaia di divisioni in possesso dell’Europa, da Lubecca a Trieste e alla frontiera greca sull’Adriatico. Tutte queste cose sono molto più importanti che gli emendamenti ad una Costituzione Mondiale che potrebbe non entrare mai in vigore, dato che sarebbe soppiantata dopo un periodo di tregua da una Terza Guerra mondiale" (6). Seguiva il 12 maggio il telegramma a Truman (divenuto da poco presidente degli Stati uniti dopo l’improvviso decesso di F. D. Roosevelt). Churchill vi scriveva tra l’altro: "Una cortina di ferro è scesa sul loro fronte [sovietico]. Noi non sappiano cosa sta succedendo dietro di essa. Sembra ci siano pochi dubbi però che l’intera regione ad est della linea Lubecca-Trieste-Corfù sarà presto interamente nelle loro mani".

Strane parole per chi parla di un alleato. La guerra, infatti, era ancora in corso e le conquiste militari sovietiche (oltre agli 11 milioni di soldati dell’Armata rossa che erano morti) avevano dato un contributo decisivo alla causa degli Alleati, mentre il Giappone non aveva ancora capitolato. Altro era evidentemente il sentire politico reale di un uomo che aveva animato le prime sanguinose campagne "occidentali" del 1919-1920 contro la nascente repubblica dei Soviet ed aveva fatto tutto il possibile per convincere il presidente F. D. Roosevelt a tenere fuori l’Urss dal progetto Manhattan, la realizzazione della prima bomba atomica.

Una alleanza privilegiata tra Stati uniti e Gran Bretagna era infatti in corso da molto tempo intorno a quelle che negli scambi tra Churchill e Roosevelt venivano chiamate "Tube Alloys", codice per l’energia atomica e il progetto Manhattan. Una alleanza che era consegnata ad accordi segreti tra Churchill e Roosevelt, come quello del Quebec del 1943 e di Hyde Park del 1944, centrati sulla futura cogestione angloamericana dell’energia atomica, sulla collaborazione di un ristrettissimo gruppo di scienziati inglesi ed europei al progetto statunitense e sull’esclusione dell’alleato sovietico da ogni notizia intorno a tale progetto (7). Non troppo utilmente, tuttavia.

Come la disponibilità recente di documenti e testimonianze di parte sovietica ha mostrato, una ristrettissima cerchia di dirigenti sovietici e Igor Kurchatov, il padre della prima bomba atomica sovietica, erano a conoscenza sin dal ’42 del progetto Manhattan e, dal ’43, avevano cominciato a ricevere notizie sulle soluzioni che si venivano adottando a Los Alamos, base del progetto Manhattan guidato da Robert Oppenheimer. Dal ’44, inoltre, un giovanissimo (18 anni) e geniale fisico, Ted Hall, incluso nel progetto quando ancora non aveva completato gli studi ad Harvard, aveva cominciato a passare ulteriori informazioni ai sovietici, sulla base del convincimento che un mondo futuro in cui una sola potenza avesse monopolizzato l’energia nucleare sarebbe stato anche più pericoloso di quello che stava morendo. Gli stessi sentimenti nutrivano altri scienziati che erano parte del progetto e il grande fisico Niels Bohr aveva invano cercato di convincere Churchill e Roosevelt a rendere i sovietici partecipi del segreto atomico.

Alla conferenza di Potsdam (luglio 1945, poco prima dell’attacco sul Giappone), quando Truman aveva fatto finalmente, ma vagamente, accenno a Stalin che gli Stati uniti possedevano una nuova straordinaria arma, Stalin aveva risposto senza enfasi che ne era contento e sperava che venisse usata presto contro il Giappone. Stalin doveva allora già avere un’idea approssimativa del tempo che sarebbe stato necessario all’équipe di Kurchatov per giungere a sua volta alla costruzione dell’ordigno ed arrivare a riequilibrare i rapporti di forza. Capitalizzare sulle conquiste territoriali fatte nell’est europeo, nei Balcani e in Medio Oriente e prendere tempo era diventata non del tutto ingiustificatamente la sua ossessione.

Il 6 agosto 1945, l’Enola Gay, un B29 statunitense appositamente trasformato e pilotato dal colonnello P. W. Tibbets, portava a termine la sua missione segreta verso Hiroshima. Il 9 agosto, alle 11, anche Nagasaki veniva cancellata. L’intervento sovietico in Manciuria contro i Giapponesi diventava indifferente per la capitolazione di un Paese di cui dal 20 giugno 1945, con precise istruzioni al suo governo, l’imperatore Hirohito aveva cercato di far trattare la resa.

Da Churchill a Truman

Che la ripresa nel telegramma a Truman del concetto usato da Krosigk e riportato dal Times non fosse per Churchill occasionale si vedrà pochi mesi dopo, appunto a Fulton, nel marzo del 1946. In quel discorso, Churchill ripeteva, questa volta pubblicamente: "Nessuno sa cosa intendano fare nell’immediato futuro la Russia sovietica e le sue organizzazioni internazionali comuniste e dove, se mai, si fermeranno le loro tendenze espansioniste e il loro proselitismo ... Dalla baltica Stettino all’adriatica Trieste, una cortina di ferro è scesa in mezzo all’Europa ...".

Il discorso di Fulton fece il giro del mondo, provocando grande impressione e grandi reazioni. L’11 marzo del 1946 la Pravda lo riportava e commentava ampiamente e il 14 marzo pubblicava un’intervista in cui Stalin denunciava il tentativo di Churchill di distruggere l’alleanza tra i vincitori e minare le basi delle organizzazioni internazionali che stavano nascendo, ricordando il già menzionato ruolo di Churchill nelle vicende iniziali della repubblica sovietica. Churchill aveva infatti tra l’altro invocato in quel discorso lo stabilirsi di una alleanza privilegiata "dei popoli di lingua inglese" nella gestione militare e politica di quella che era ormai l’era atomica e, al tempo, il pubblico cui Churchill parlava non conosceva gli accordi segreti intervenuti in precedenza tra le due potenze.

Commenti numerosi e molto imbarazzati vennero fatti anche ad Ovest sulle espressioni usate da Churchill. C’era infatti chi vedeva in quelle frasi un pericolo mortale per il delicatissimo processo che si stava sviluppando e per la necessità di preservare l’unità degli Alleati per porre le basi del mondo futuro, un’unità già scossa dalla politica staliniana in Iran e nell’Est europeo e dalle trame angloamericane in Germania. Questa parte vedeva allineati molti gruppi diversi in differenti Paesi, in particolare alcuni rappresentanti del nuovo governo laburista inglese che aveva nel frattempo sostituito quello di guerra di Churchill e parti importanti dell’establishment politico statunitense (personalità come J. Davies, H. Wallace, Ben Cohen, del gruppo che si era raccolto intorno a F. D. Roosevelt negli anni della guerra), o giornali come la New York Herald Tribune. Parte della diplomazia statunitense, inoltre, aveva visto nel discorso di Fulton, fatto davanti a Truman, un tentativo di condizionare pesantemente la futura politica estera del proprio Paese e l’aveva rifiutato esplicitamente.

C’era però chi aveva già preparato il terreno alla tesi di Churchill. Il compito era stato portato avanti già nel tardo ’45 da grandi quotidiani come il New York Times e il Journal of Commmerce e, successivamente, dal Wall Street Journal, o da riviste come Time, Readers’ Digest, Life, Fortune, Harper’s (che aveva invocato la divisione del mondo in due sfere contrapposte), da molte riviste cattoliche e dal capo dell’Associated Press. Gli articoli grondavano avversione contro l’orientamento cauto tenuto sino ad allora da Truman e dal Segretario di Stato Byrnes verso i sovietici (8).

Non era stato oggetto di analisi, da parte di quei grandi organi di stampa impegnati a denunciare il pericolo "rosso" e ad invocare (letteralmente) la salvezza della civiltà cristiana occidentale, il fatto che all’epoca compresa tra il telegramma di Churchill a Truman e il discorso di Fulton gli unici ad aver violato la solidarietà tra gli Alleati, escluso l’Urss dalla conoscenza del progetto Manhattan, salvato o solo blandamente incriminato i maggiori responsabili della finanza e dell’industria nazista (che di lì a poco ritorneranno alle loro banche e a dirigere i grandi complessi industriali della parte occidentale tedesca), fatto fuggire una buona parte dei criminali di guerra nazisti in America Latina, fossero stati proprio gli angloamericani. Per non dire degli entusiasmi espressi per l’esplosione di due bombe atomiche che avevano cancellato in qualche secondo la popolazione civile di due città nemiche. La storia successiva mostrerà ampiamente per quali progetti tali giornali si battevano, come vedremo nella prossima parte di queste note, e per conto di chi parlavano. Certo non a nome dei 298 mila statunitensi morti per sconfiggere la barbarie che aveva concepito Auschwitz e Dachau.

Il concetto di "cortina di ferro", tracciato da Krosigk e Goebbels, e più ancora la previsione di un possibile terzo conflitto mondiale tra i due campi contrapposti, aveva tuttavia avuto miglior fortuna dei suoi primi enunciatori, e la madre di tutte le strategie che avrebbero cominciato a forgiare le macchine militari del dopoguerra aveva speditamente attraversato prima la Manica e poi l’Oceano Atlantico. L’elemento base che aprirà la Guerra fredda non aveva dunque l’augusta paternità di uno dei prestigiosi vincitori della Seconda guerra mondiale, come sempre si ripete, ma di due degli ultimi rappresentanti della Germania nazista.

Il tradimento dei patrioti

A Yalta (febbraio ‘45) e a Potsdam (luglio ’45) gli accordi tra gli Alleati miranti alla gestione delle ultime fasi della guerra e dell’immediato periodo postbellico vennero presi con i sovietici, che già potevano avere idea dello sbilanciamento di forze che il successo del progetto Manhattan per la realizzazione della bomba atomica avrebbe potuto determinare nel mondo postbellico. Le successive violazioni di quegli accordi, da parte di Stalin nell’est europeo e da parte degli anglostatunitensi in Germania, aggravarono, ma non determinarono il quadro fondamentale della rottura tra gli ex Alleati, che aveva ben altre premesse, come mostrato nelle note precedenti.

Non si può però comprendere la costruzione postbellica della politica industriale militare degli Stati uniti e i suoi sviluppi successivi senza il formidabile intreccio di affari e interessi internazionali che aveva fatto le sue prime prove finanziando il riarmo nazista e sostenendo in contemporanea lo sforzo bellico di entrambe le parti belligeranti, provvedendo poi a creare le condizioni ideologiche favorevoli al discorso di Churchill a Fulton.

Una rete fittissima (9) di complicità, alleanze e, si direbbe oggi, di joint ventures si era andata infatti progressivamente creando negli anni ‘30 tra parte del grande capitale finanziario e industriale statunitense e quello tedesco, strettamente collegato con i nazisti. Gli aiuti dati ai nazisti da quella rete di complicità non si interruppero dopo l’entrata in guerra degli Stati uniti (dicembre 1941). Il supporto diretto o indiretto al nemico, tuttavia, cadeva sotto i rigori del "Trading with the Enemy Act", una legge della Prima guerra mondiale. Sia durante che dopo il conflitto, alcuni uomini dell’Amministrazione Roosevelt, tra cui il Ministro del Tesoro Morgenthau jr., appena frenati dai timori del presidente di compromettere lo sforzo industriale bellico, cercarono di mettere sotto accusa quei legami e le persone che li rappresentavano. Le prove raccolte erano molte e decisive, ma una provvidenziale "cortina di ferro" scese dopo la guerra sui documenti che comprovavano quegli aiuti. Chi aveva formato quella rete di complicità? Chi fece scendere il provvidenziale velo dell’isteria anticomunista su quei documenti?

Escludendo qui connessioni europee come quelle tra il magnate svedese Jacob Wallemberg e i nazisti (10) o quelle tra finanza inglese e tedesca, tra i maggiori responsabili statunitensi del sostegno dato ai nazisti c’erano:

Henry Ford, ardente ammiratore di Hitler, antisemita fanatico, insignito da Hitler dell’Aquila d’Oro, nonché il figlio Edsel. Entrambi fornirono un ampio sostegno finanziario e tecnico alla Germania nazista, sia direttamente sia attraverso la filiale francese della Ford dopo l’occupazione tedesca.

La famiglia Du Pont de Nemours (chimica ed esplosivi, che controllava allora la General Motors), in particolare Pierre, Irénée e Lammot Du Pont. Questi ultimi, nonostante l’origine ebraica della famiglia, furono tra i fondatori e finanziatori, con il famoso Alfred P. Sloan della Gm, della American Liberty League, organizzazione antisemita e razzista con centro a Detroit. Attraverso la Gm, i Du Pont versarono, tra il 1933 e il 1939, 30 milioni di dollari di allora nella IG Farben, l’Iri tedesca che sarà il fulcro del riarmo nazista e dell’utilizzo del lavoro forzato degli ebrei che erano rinchiusi nei campi di sterminio.

J. D. Rockefeller e W. C. Teagle (Standard Oil of New Jersey, Chase Bank). La Chase di New York gestiva i conti "petroliferi" della filiale tedesca della Standard sotto controllo nazista mentre, nello stesso tempo, la filiale parigina della Chase finanziava il regime di Vichy e quello di Franco. Attraverso le sue reti latinoamericane, la Standard aveva provveduto, con la complicità di finanzieri ed armatori come Onassis (allora in Argentina), a far arrivare ai nazisti qualcosa come 20 milioni di dollari di allora di prodotti petroliferi.

Sosthenes Behn, presidente dell’impero dei telefoni Itt (di futura cilena memoria), socio d’affari dei Morgan, nonché direttore della potentissima National City Bank of New York, finanziatore regolare della Gestapo dal 1933, attraverso la J. H. Stein Bank di Schroder (vedi oltre). L’Itt mantenne inoltre disponibili per i nazisti le reti telefoniche delle sue filiali nell’Europa occupata e in America Latina.

Ford, Rockefeller, Teagle e Behn, tra gli altri, intrattenevano poi solidi rapporti d’affari con il gigante chimico General Aniline and Film (Gaf), che era a tutti gli effetti una filiale della IG Farben tedesca, nonché produttrice del combustibile per aerei che veniva spedito via sussidiarie della Standard Oil alla Luftwaffe e dell’insetticida che venne usato ad Auschwitz nelle camere a gas. I quattro avevano contribuito a fondare nel 1929 tale complesso, allora come America IG/Chemical Corp. Anche molti ambienti della comunità tedesco-americana e le reti pronaziste che vi allignavano sostennero finanziariamente la Gaf.

Oltre a tali ruoli diretti, vi è anche da ricordare l’azione di un’istituzione che fu elemento chiave nella connessione tra ambienti statunitensi e nazisti, la Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, banca delle banche centrali, nata nel 1930 su ispirazione del futuro ministro nazista dell’Economia, Schacht, in cui sedeva (e siede) il "gotha" della finanza europea e statunitense. Documenti recentemente declassificati mostrano che nelle sedute del Board della banca si discuteva tranquillamente durante il conflitto di come gestire le riserve d’oro naziste, accumulate nelle zone occupate e poi nei campi di sterminio. I principali "uomini" della banca erano allora: 1) lo statunitense T. H. McKittrick, presidente e associato dei Morgan; 2) Emil Puhl, vicepresidente e "mente" della Reichsbank, cui Rockefeller offerse nel ’42 di raggiungere la direzione della Chase; 3) tra i direttori: Hermann Schmitz, capo della IG Farben, e il barone Kurt von Schroder, della J. H. Stein Bank di Colonia, finanziatore e dirigente della Gestapo, nonché socio d’affari di J. D. Rockefeller e del nipote Avery nella statunitense Schroder, Rockefeller & Co. Investment Bankers. Di quest’ultima faceva parte anche il cugino di Kurt, barone Bruno von Schroder, mentre i legali della banca erano John Foster Dulles (futuro Segretario di Stato statunitense sotto Eisenhower) e il fratello Allen (futuro capo della Cia da Eisenhower a Kennedy). La banca venne definita da Time "l’amplificatore economico dell’Asse Roma Berlino".

L’elenco potrebbe continuare per molto e molte altre connessioni potrebbero essere citate, ma ciò che è importante menzionare qui è il fatto che nessuno dei responsabili del sostengo dato ai nazisti venne nemmeno scalfito dal "Trading with the Enemy Act". Dopo la fine del conflitto, le inchieste (specie in Germania) vennero bloccate e boicottate in ogni modo, alcuni dei maggiori investigatori e Morgenthau stesso vennero attaccati, come agenti comunisti, dalla commissione MacCarthy sulle attività "antiamericane" (!) e dai fidi amici del big business al Dipartimento di Stato; una cortina di ferro calò su fatti come le forniture della Standard Oil ai nazisti (tra cui l’indispensabile additivo, piombo tetraetile, che era prodotto solo negli Stati uniti e senza il quale missioni aeree come il bombardamento di Londra non sarebbero state possibili). Al contrario, li si premiò. I loro affari con gli ex nazisti ripresero, compresi i forti legami stabiliti nell’America Latina, forieri di nuovi sviluppi.

Un criminale di guerra come Reinhardt Gehlen, capo del controspionaggio nazista, divenne un alto ufficiale dell’esercito statunitense dopo essere stato "recuperato" da Allen Dulles (allora nella sezione europea dei servizi statunitensi, l’Oss). Come è noto, il padre delle V2 che martoriarono Londra, Wernher von Braun, divenne con un centinaio di membri del suo gruppo tedesco il fulcro del programma missilistico strategico statunitense, e dal 1952 suo capo, sviluppando missili come i Redstone, i Pershing, i Saturn. Cittadino statunitense nel ’55, Braun diresse poi il centro spaziale della Nasa di Huntsville e divenne infine vicepresidente della Fairchild Industries, compagnia aerospaziale molto attiva e beneficiata dal Pentagono.

Altri criminali di guerra tedeschi, lituani, ucraini, bielorussi (11), polacchi, cecoslovacchi, croati e rumeni, che avevano costituito il nerbo portante della rete spionistica nazista nei territori occupati, entreranno dopo il conflitto nei nuovi servizi segreti occidentali, nelle varie sezioni statunitensi, europee e latinoamericane della Cia di Allen Dulles e nelle organizzazioni illegali tipo "Stay Behind" (Gladio), promosse sotto l’ombrello della Nato, fianco a fianco con i noti personaggi che oggi si vantano di averne fatto parte, pupazzi di un disegno che non era conseguente al calare della "cortina di ferro", ma che attivamente l’aveva promossa.

Per altro verso, i comandanti militari, gli agenti dell’intelligence, i funzionari civili e gli scienziati (tra cui Robert Hoppenheimer) non perfettamente allineati alle posizioni guerrafondaie del big business, o contrari alla politica dello scontro frontale con l’Urss, vennero costretti ad andarsene o vennero esautorati dalle loro funzioni. La macchina militare statunitense era pronta per un nuovo balzo in avanti.

La dottrina Truman

La "dottrina Truman" fu enunciata il 12 marzo del 1947, nel quadro delle mosse sovietiche che miravano ad esercitare un controllo sulla Turchia e sulla Grecia, ove era in corso un’aspra lotta tra il governo appoggiato dagli inglesi e la guerriglia comunista appoggiata dai sovietici. Truman, che era informato della decisione inglese di abbandonare la Grecia a causa delle ingenti spese che il sostegno a quel governo implicava in un momento di grave crisi per l’economia britannica, chiese al Congresso di approvare un ingente finanziamento speciale per il governo greco. Nel suo discorso, dopo aver ammesso che i regimi greco e turco non erano "perfetti", Truman disse tra l’altro: "Credo che debba essere politica degli Stati uniti il sostenere i popoli liberi che stanno resistendo a tentativi di soggiogamento da parte di minoranze armate o da pressioni esterne. Io credo che dobbiamo aiutare i popoli liberi a trovare il proprio destino nel modo che è loro. Io credo che il nostro aiuto debba essere innanzitutto economico e finanziario, perché esso è essenziale per la stabilità economica e un ordinato progresso [...] I popoli liberi del mondo guardano a noi per l’aiuto a mantenere le loro libertà. Se noi manchiamo nel nostro ruolo di leader, noi mettiamo in pericolo la pace nel mondo e sicuramente mettiamo in pericolo il benessere del nostro Paese. Grandi responsabilità ci sono state date dal rapido muoversi degli eventi" (12).

Un’unica potenza globale

Dal secondo conflitto mondiale non erano emerse due superpotenze, ma una sola, economica, finanziaria e militare, gli Stati uniti (13). La bomba a base di uranio di Hiroshima e quella a base di plutonio di Nagasaki avevano scavato un abisso tra gli Stati uniti e le altre potenze dotate di armamento convenzionale. L’Urss, che la logica della Guerra fredda dipingeva come un potente avversario, era all’epoca in realtà un paese che aveva subito distruzioni umane e materiali immani (20,6 milioni di morti totali) ed aveva dovuto spostare oltre gli Urali buona parte delle industrie sotto l’incalzare dei nazisti. Inoltre, i suoi problemi erano aggravati dallo sforzo di non perdere terreno sul piano strategico. Il primo esperimento nucleare sovietico venne solo nel 1949 e una capacità effettiva di attuare un bombardamento atomico solo molti anni dopo.

Ciononostante, lo sviluppo del complesso militare-industriale statunitense avvenne in stretta relazione con quello dell’apparato sovietico. Scriveva in "The Insecurity of Nations" Charles Yost (14), più di tre decenni spesi in posizioni di grande responsabilità nel servizio diplomatico statunitense: "Così come tanti esempi storici testimoniano, niente è più difficile da arrestare che la corsa autogenerantesi e reciproca della competizione militare, dove le intenzioni dell’avversario sono considerate coincidenti con le sue possibilità [offensive], dove gli eserciti non hanno mai abbastanza armi e uomini per considerarsi sicuri, dove la paura fa perdere il controllo e distorce le realtà’".

Bandiere rosse sulla Casa Bianca

"È un fatto incontestabile che il nostro Paese, il simbolo del mondo libero, è l’obiettivo ultimo e inestimabile del comunismo internazionale. I leader del comunismo internazionale hanno fatto giuramento di raggiungere il dominio del mondo. Ciò non sarà raggiunto sino a quando la bandiera rossa non sventolerà su tutti gli Stati uniti". Sembra impossibile che un essere ragionevole abbia potuto scrivere queste parole. Ancora più impossibile sembra che queste parole siano state scritte non negli anni isterici del maccartismo, ma quando si apriva l’era Kennedy, Stalin era morto da tempo e Stati uniti ed Urss cercavano nuove vie di dialogo e distensione. Ancora più incredibile è che esse facciano parte non di qualche libello di propaganda, ma di un discorso ufficiale di uno degli uomini che per decenni fu tra i più influenti e potenti degli Stati uniti. Correva l’anno 1960, e J. Edgar Hoover, capo dell’Fbi, così si esprimeva in un messaggio generale ai propri sottoposti (15).

Se scaviamo nei discorsi pubblici fatti da quasi tutti coloro che guidarono la politica e le scelte fondamentali degli Stati uniti, in buona parte in questa seconda parte di secolo, possiamo trovare centinaia di questi esempi. Il costante obiettivo di questo tipo di affermazioni era di sostenere presso il pubblico l’esistenza di una minaccia mortale. Nessuno di coloro che le aveva nel tempo pronunciate poteva davvero credere alle baggianate che diceva pubblicamente; certamente non uomini di consumata esperienza internazionale e di grande potere che percorsero in tutto o in buona parte gli anni della Guerra fredda. Per la più parte, essi mostrarono invece prudenza di giudizio e conoscenza profonda della realtà delle cose ogni qual volta ci fu da prendere decisioni importanti. Il loro fanatismo era destinato al pubblico, molto meno alle decisioni reali, anche se finiva per determinare gravi sovrapposizioni e confusioni, più o meno volute, tra analisi delle esigenze della difesa e propaganda ideologica.

Le spese militari della Guerra fredda

La corsa agli armamenti, una volta creato il consenso per sostenerla, divenne così una spirale inarrestabile. In entrambe i campi le spese furono sicuramente molto maggiori di quelle fornite nelle statistiche ufficiali, ma nel campo statunitense possiamo contare almeno sulle cifre destinate dal bilancio federale alla Difesa e settori connessi. Se ricostruiamo le spese federali dei 44 anni della Guerra fredda in modo che esse siano comparabili tra loro (16), possiamo avere idea di quale enorme massa di risorse pubbliche sia stata sottratta a impieghi di reale sviluppo e deviata ai profitti dei signori della guerra.

Le cifre che forniremo si riferiscono a spese strettamente militari che non considerano elementi quali: il supporto pubblico dato alla ricerca in campi scientifici che hanno avuto strette relazioni con, ma non finanziamenti diretti da, il settore militare; i costi sostenuti per l’attività legale, illegale o coperta di organismi non direttamente dipendenti dalla Difesa (come la Cia); il supporto a tassi agevolati o a fondo perduto dato a numerosissimi Paesi perché potessero acquisire armamenti dalle società statunitensi o perché propendessero ad allearsi con gli Stati uniti piuttosto che con l’Urss. Non si tratta di bruscolini, ma di centinaia di miliardi di dollari pubblici e privati che dovrebbero essere inclusi nei "costi" della "difesa" durante gli anni della Guerra fredda, ma che qui non è stato possibile considerare.

Tirando le somme (17), la spesa pubblica per la difesa statunitense nei 44 anni considerati è stata complessivamente pari a circa 13,6 triliardi (migliaia di miliardi) di dollari del 1997. In termini di lire italiane, tale cifra è quasi impossibile da leggere, trattandosi di circa 23.118.300.000.000.000 di lire (23,1 milioni di miliardi di lire). Sempre in termini 1997, si è trattato di una spesa annua media di 309,1 miliardi di dollari per 44 anni (525 mila miliardi di lire annui). Le punte massime sono state di 414 miliardi di dollari nel 1986 (in termini allora correnti pari a 282,9 miliardi di dollari), di 406,7 miliardi nel 1987, di 399 miliardi (pari allora a 51,8 miliardi) nel 1968.

Si può ricordare che la spesa pubblica militare più alta (1986 e 1987) corrisponde al secondo mandato del "liberista" Reagan, la terza al penultimo anno della presidenza di L. B. Johnson (mentre era in corso l’intervento statunitense in Viet Nam). Altresì può essere notato che la spesa pubblica annuale militare (sempre in termini ‘97) negli anni della presidenza Eisenhower (1953-1961) è stata mediamente del 30% inferiore a quella degli anni della presidenza Reagan (1981-1989), Eisenhower e Reagan essendo gli unici due presidenti che nel periodo considerato hanno ricoperto due mandati completi.

Comprendere la valenza di queste cifre non è facile, ma possiamo ricordare che, prendendo ad esempio il 1990, il valore totale delle importazioni di prodotti alimentari dell’Africa subsahariana (47 Paesi escluso il Sudafrica) è stato pari nell’anno a circa 6,8 miliardi di dollari, mentre la cifra spesa allora in termini correnti dagli Stati uniti per la difesa è stata 45 volte superiore e pari a 306,2 miliardi di dollari. Se anche solo il 10% di questa ultima cifra e di quella corrispondente sovietica fosse stato "scalato" e donato in aiuti ai quei 47 Paesi per importare alimenti si sarebbe potuto finanziare quelle stesse importazioni per sette anni. O, se si vuole, le due potenze, con una semplice riallocazione annua del 10% delle loro spese militari avrebbero potuto inondare di alimenti gratuiti quei 47 Paesi per 44 anni, spezzarvi definitivamente il circolo fame/sottosviluppo, eliminarvi buona parte delle necessità che li hanno portati a contrarre ingenti debiti internazionali, contribuire consistentemente a promuovere in essi la sanità pubblica e l’alfabetizzazione. Una vera spesa "produttiva", dato che avrebbe aiutato quei Paesi - fonte oggi di gravissimi problemi - ad aiutarsi da soli, ma un disastro per banchieri occidentali e mercanti di cannoni.

Parla un uomo importante

Quale follia ha permesso le spese che abbiamo visto, che - unite a quelle di molte altre potenze - danno cifre ancora meno "percepibili" nella loro immensità? Cosa ha permesso l’accumulo di decine di migliaia di testate nucleari che avrebbero potuto distruggere la terra centinaia di volte? Una risposta può venire da un recente intervento.

Nel febbraio del 1998, davanti ai convenuti al National Press Club statunitense, un signore in pensione pronuncerà queste parole: "Come i miei contemporanei, io ero mosso dalla paura ispirata dalle credenze che datano dai primissimi tempi dell’era atomica. Per noi, le armi nucleari erano il salvatore che aveva messo in ginocchio un implacabile nemico nel 1945 [il Giappone, ndr] e tenuto agli ormeggi un altro [l’Urss, ndr] per quasi mezzo secolo. Noi pensavano che una superiore tecnologia provocasse un vantaggio strategico, che un più grande numero [di bombe] significasse maggiore sicurezza, che la finalità del ‘contenimento’ giustificasse qualsiasi mezzo per ottenerla. Queste sono potenti convinzioni, profondamente radicate e non facilmente liquidabili [...] Per tutta la mia carriera militare io le ho condivise [...] Esse però sono state responsabili dei rischi più forti e dei più incredibili costi del confronto Usa-Urss. Hanno intensificato e prolungato una già acuta animosità ideologica. Hanno prodotto generazioni successive di nuovi e più distruttivi strumenti e sistemi di bombardamento. Hanno fatto nascere burocrazie elefantiache, appetiti gargantueschi e programmi globali. Hanno eccitato emozioni viscerali, promosso bigotterie e demagogie e messo in moto forze di ingovernabile ampiezza e potere. Ancora più importante, il perdurare di queste convinzioni e delle paure che vi sottostanno ha perpetuato le politiche e le pratiche della Guerra fredda che non hanno oggi più alcun significato [mentre] continuano a comportare enormi costi e ad esporre l’umanità a pericoli inimmaginabili. Io trovo tutto questo intollerabile e non posso rimanere in silenzio. Io conosco troppo bene tutte queste cose, le fragilità, le incrinature, i fallimenti delle politiche e delle pratiche loro connesse [...] Come milioni di altri, io ero arruolato nella Guerra santa, assuefatto ai suoi costi e alle sue conseguenze, credevo nella prudenza di giudizio di successive generazioni di leader militari e politici [...] [In realtà] decisioni di vitale importanza venivano prese senza adeguata comprensione ... affermazioni non dimostrate sostituivano le analisi ... e l’opportunismo politico si infiltrava nelle valutazioni delle necessità militari ... Con il tempo, la pianificazione [atomica] si era allontanata sempre più, e alla fine disconnessa completamente, da ogni senso di realtà scientifica o militare" (18).

Il signore in questione aveva qualche competenza per dire queste cose. Era infatti il generale Lee Butler, via via a capo del Joint Strategic Target Planning Staff, dello Strategic Air Command e da ultimo dello Strategic Command, ovvero capo degli organi statunitensi che nel tempo si erano succeduti nella programmazione ed esecuzione del bombardamento atomico. Era stato inizialmente pilota dei bombardieri B52. Si era ritirato dall’US Air Force dopo 33 anni di servizio.

Nei 45 anni della Guerra fredda, secondo dati presentati nel 1997 dal Congressional Research Service degli Stati uniti, le guerre internazionali e quelle civili combattute nel mondo hanno prodotto 40 milioni di morti, il 75% dei quali civili.

Spesa e organizzazione della Difesa

Nell’arco di anni che va dal 1970 al 1991 la spesa per il solo ministero della Difesa è stata annualmente e mediamente pari al 5,6% del Pil statunitense. Secondo il Dipartimento della Difesa, nel 1998 e in termini correnti, la spesa militare complessiva del Paese avrebbe raggiunto i 268 miliardi di dollari (255 per la Difesa), con una crescita reale zero, mentre nel 1999 sarebbe di 271 miliardi di dollari (257 per la Difesa), con una diminuzione reale dell’1%. È noto come Clinton abbia recentemente posto rimedio a tale "diminuzione reale".

Dopo il 1991, i bilanci della Difesa si sono in termini reali contratti, senza tuttavia portare ad una diminuzione complessiva della forza in campo, in quanto si è trattato in buona parte di una razionalizzazione della spesa e di un freno messo all’accumulo insensato di mezzi di distruzione nucleare. Il ministero della Difesa (19) calcola che dal 1992 al 1997 le allocazioni di risorse ricevute dal Budget federale si siano contratte mediamente in termini reali (a prezzi 1998) del 3,1% all’anno. Nello stesso periodo, comunque, il Budget federale ha destinato alla difesa una media del 4% del Pil statunitense, comprensiva delle risorse destinate al ministero dell’Energia, che gestisce delicati elementi del nucleare, ed altre voci più particolari. Il Sipri calcola che questa più complessiva spesa militare avrebbe visto nel periodo 1992-1996 una contrazione media annua del 3,3%, con il 1992 ancora in aumento del 5,6% e con gli anni seguenti in contrazione media del 5,5% (20).

Una comparazione con i bilanci della Difesa delle altre maggiori potenze (21) può dare comunque un’idea del differenziale di potenza detenuto dalle forze armate statunitensi. In termini correnti per l’anno 1996, le spese per la difesa sostenute dalla Federazione Russa erano il 26,1% di quelle degli Stati uniti, quelle della Francia il 17,4%, quelle della Cina il 13,1%, quelle della Gran Bretagna il 12,3%, quelle dell’Italia l’8,8% (v. grafico).

Le risorse per il personale (pari nel 1997 a 70,3 miliardi di dollari, o circa il 27% del totale dell’anno) hanno visto nel periodo 1992-1998 una contrazione media annua del 5,3%. Parzialmente diversa la situazione delle risorse assegnate alla stipulazione di contratti con le industrie belliche. In termini reali tali risorse sono diminuite dal 1992 al 1997 ad una media annua del 9,6%, ma ne è previsto un aumento di circa il 3 e il 7% rispettivamente nel 1998 e nel 1999.

Per quanto concerne alcuni dei più importanti settori della difesa, ancora nel periodo 1992-1998, le risorse assegnate all’Esercito (pari nel ‘97 a 64,4 miliardi di dollari) hanno visto una diminuzione annua media reale del 5,2%; quelle assegnate alla Marina (79,5 miliardi nel ‘97) una diminuzione del 4,9%; quelle dell’Aeronautica (73,2 miliardi nel ’97) del 5,1%. Vi è tuttavia da dire che in generale il trend negativo viene fortemente ridimensionato o in qualche caso annullato nel ’97, nel ’98 e nella previsione ’99. La Marina conserva ancora il ruolo preminente nella gerarchia delle spese.

Le risorse che abbiamo sopra delineato sostengono un complesso di forze armate i cui effettivi sono pure diminuiti nel tempo, ma che rimangono pur sempre un numero imponente. Nel 1960, con una popolazione di circa 190 milioni di abitanti (60 milioni meno dell’attuale) le forze armate statunitensi avevano 2,5 milioni di effettivi (22), cresciuti poi nel 1968, in pieno conflitto vietnamita, a 3,5 milioni. Nel 1990, gli effettivi erano ancora circa 2 milioni e sono arrivati a 1 milione e 401 mila nel giugno del 1998, con l’Esercito a 479 mila effettivi (più 361 mila effettivi della Guardia nazionale e 208 mila riservisti), la Marina a 381 mila (più 94 mila riservisti), l’Aeronautica a 370 mila (più 180 mila riservisti) e i Marines a 171 mila (più 42 mila riservisti). Alle cifre summenzionate, occorre poi aggiungere 770 mila civili del Dipartimento della Difesa. Le forze militari dislocate all’estero contano più di 200.000 effettivi, divisi quasi equamente e principalmente tra Estremo Oriente ed Europa.

Un conto di un paio di anni fa, probabilmente non completo, dei mezzi a disposizione dei vari corpi elenca una lista impressionante di mezzi. L’Esercito ha circa 10,500 carri armati e più di 31 mila mezzi corazzati di altro tipo, più di 8 mila pezzi di artiglieria, 2.200 missili terra aria, 5.300 elicotteri, più di 460 radar di sorveglianza, 153 mezzi da sbarco, circa 300 aerei, 35 mila mezzi anticarro, più di 300 cannoni contraerei, più di 100 veicoli spia. La Marina ha circa 100 sottomarini atomici, di cui una ventina dotati di armi nucleari, 144 navi da guerra (caccia, fregate, incrociatori e 12 grandi portaerei), più di 730 navi da supporto, 25 navi da combattimento per la guardia costiera, più di 3.000 aerei e 1.400 elicotteri. I Marines hanno circa 2.300 veicoli corazzati e 3.300 anticarro, più di 22.400 lanciamissili, quasi 800 pezzi di artiglieria pesante, circa 650 mortai e 2.000 missili, più di 600 aerei e 700 elicotteri. L’Aeronautica ha 174 bombardieri strategici, 3.750 aerei tattici, più di 1.100 aerei da trasporto e 2.200 da supporto, circa 220 elicotteri.

Alla fine dell’anno in corso le riduzioni dell’armamento nucleare dovrebbero portare il numero dei missili balistici intercontinentali a 550, con 2.000 testate complessive, i missili balistici installati a terra o su navi a 432 con 3.456 testate complessive, i sommergibili con missili balistici a 18 con 5.456 testate e i bombardieri pesanti a 115.

La gestione di queste forze è affidata ad un insieme di organismi, gerarchicamente connessi al Segretario alla Difesa, dall’Osd (Office of the Secretary of Defense) alla direzione militare vera e propria sotto il comandante in capo del Jcs (Joint Chiefs of Staff, che raccoglie i comandanti in capo delle Armi), dai dipartimenti delle varie Armi all’Uccs (Unified Combatant Commands), all’Ispettorato generale ed infine ad Agenzie con compiti specifici (Dia, Defense Intelligence Agency; Dla, Defense Logistics Agency). Il comandante in capo dello Jcs è anche il primo consigliere del Presidente e dell’Nsc (Consiglio nazionale per la sicurezza) in materia militare.

Il complesso militare-industriale

Grandi beneficiari sia delle spese militari che del commercio internazionale di armamenti promosso dalle Amministrazioni statunitensi sono stati nel tempo una ventina di gruppi maggiori di produzione militare, connessi in vario modo a centinaia di altre aziende.

A partire dalla metà degli anni 80, le fusioni di compagnie o le acquisizioni sono diventate comunque sempre più frequenti. Nel periodo 1982-1997, ben 52 grandi gruppi venivano interessati a tali processi e di questi, nel 1997, rimanevano solo 5: Boeing, Raytheon, Litton Industries, Lockheed-Martin Marietta e Northrop Grumman. Nel 1997, tra i principali fornitori singoli del Pentagono, si contavano comunque ancora 13 società: Alliant Techsystems, Boeing, GenCorp., General Dynamics, Harris Corp., Litton Industries, Lockheed-Martin, Newport News Shipbuilding, Northrop Grumman, Raytheon, Textron, TRW, United Technologies Corp.

Pur considerando che il loro giro di affari comprende altre voci oltre al militare, tali compagnie hanno ancora dimensioni economiche e occupazionali notevolissime. Secondo i dati riportati da Fortune, nel 1997 ad esempio la Boeing realizzava introiti per 46 miliardi di dollari ed occupava nell’anno 239 mila persone, la Lockheed Martin 28 miliardi di dollari (173 mila occupati), la United Technologies Corp. 24,7 miliardi (180 mila occupati), la Allied Signal 14,5 miliardi (70 mila occupati), la Textron 10,5 miliardi (64 mila occupati), la Northrop Grumman 9,1 miliardi (52 mila occupati). Pure fortemente connesso al settore militare era il gigante General Electric (91 miliardi di dollari di introiti nel 1997) (23).

Altre società con giri di affari minori erano la B. F. Goodrich (aerospazio e chimica speciale, Ohio), la EG&C (strumenti di monitoraggio, elettronica ottica), la General Dynamics Aerospace (poi acquisita dalla Lockheed), la Gulfstream Aerospace, la Thiokol (sistemi di propulsione missilistici e altro), la Rockwell (acquisita poi dalla Boeing), la Texas Instrument (acquisita dalla Raytheon).

La ristrutturazione del settore ha ovviamente toccato pesantemente l’occupazione. Tra il ’77 e l’87, l’occupazione diretta o contigua al settore militare era cresciuta di 1,8 milioni di persone, complessivamente raggiungendo la cifra di 3,7 milioni di addetti nell’ultimo anno (nell’88, in Urss, vi erano circa 5 milioni di addetti al settore e in Europa circa 1,5 milioni). Dal 1987 al 1997, l’occupazione statunitense nel settore inverte il trend, diminuendo di 1,5 milioni di unità ed arrivando a poco più di 2,2 milioni.

Queste cifre, però, non danno compiutamente l’idea della rete straordinaria di interessi coinvolti nel complesso industriale-militare, una rete che fa assumere al settore una ancor maggiore rilevanza, in termini di consenso e di destini economici e sociali collegati al militare. Alla fine degli anni ‘70, ad esempio, limitandosi ai sistemi d’arma maggiori e convenzionali (non nucleari), le società statunitensi avevano in produzione 91 tipi differenti di aerei militari, 16 tipi di veicoli corazzati, 41 tipi/versioni di missili, 33 tipi di navi da guerra. Tali tipi di armamenti venivano prodotti da 38 società e affiliate, sparse in tutti gli angoli degli Stati uniti. Alla fine degli anni ‘80, la lista completa dei maggiori produttori di sistemi difensivi o di ricerca correlata alla difesa (24) contava ben 550 società, tra case madri, sussidiarie e affiliate, escluse come detto le minori.

Nell’insieme del periodo 1998-2003, il Pentagono ha previsto una spesa per contratti con le compagnie private pari a circa 331 miliardi di dollari, secondo un programma di ammodernamento che toccherà molti sistemi ed elementi (carri armati M1A2, elicotteri Longbow Apache, aerei come l’F/A18E/F, il V22 Tiltrotor, l’F22 Fighter, nuovi sottomarini d’attacco). Nello stesso tempo è in discussione il nuovo programma di difesa balistica nazionale, una "corsa al fallimento" nelle parole del generale in pensione Larry Welch, incaricato di esaminarlo. La corsa vede già formate due parti concorrenti per realizzarla: da un lato la Boeing, dall’altro la United Missile, joint-venture tra Raytheon, Lockeed e TRX.

Può esserci di parziale consolazione il fatto che a volte, non diversamente dall’Italia, contratti e spesa militare producono anche negli Stati uniti vari effetti "collaterali". Si può ad esempio citare il caso degli interessi coinvolti nella saga della costruzione del bombardiere B1B durata più di trent’anni e partita con il B70, che nella versione finale (1982) era costato 28 miliardi di dollari ed aveva dato benefici a circa 70 società. Nick Kotz, dell’American University, afferma nel volume da lui dedicato alla vicenda (25) che il senatore William Proxmire, durante le udienze del Congresso dedicate alla vicenda, aveva dimostrato che la sola Rockwell International aveva finanziato segretamente la campagna elettorale di Nixon nel 1972, vacanze invernali di ufficiali del Pentagono sull’isola di Bimini (Bahamas) nel 1974 e partite di caccia nella Chesapeake Bay (Maryland) per alti ufficiali, oltre che tentato di far approvare dalla agenzia della Difesa per il controllo delle spese quasi 1 milione di dollari di allora per voci ingiustificate di rappresentanza, lobbying e "intrattenimento".

L’esportazione degli armamenti come "aiuto allo sviluppo"

Nel 1996/97, la spesa militare mondiale assorbiva circa 850 miliardi di dollari, di cui 191 miliardi spesi dai Paesi in via di sviluppo, Pvs (circa 260 dagli Stati uniti, 167 dall’Unione europea, Turchia e Canada). La cifra relativa ai Pvs equivaleva a 4 volte l’ammontare complessivo di tutto l’aiuto estero da essi ricevuto per accordi bilaterali o multilaterali e una parte di tale cifra era connessa all’acquisto all’estero di armamenti. Negli anni ‘80, molti Pvs avevano fatto registrare per la spesa in armamenti quote crescenti dei propri prodotti nazionali lordi, mediamente di 4 o 5 volte superiori a quelle dei Paesi Nato (ad esempio, il 10/15% per Siria ed Israele, il 20% per l’Arabia Saudita, il 25% per l’Iraq). In calo tra l’88 e il ’94, l’importazione di armamenti convenzionali da parte dei Pvs era poi risalita negli anni successivi.

Nel periodo 1993-1997, gli Stati uniti pur rimanendo di gran lunga al primo posto nella classifica dei maggiori esportatori di armi (26), facevano registrare in termini reali un calo medio annuo del 4,4% con punta massima di calo nel 1994 e una forte ripresa nel 1997 (+14%). A fronte del calo relativo delle esportazioni, le politiche perseguite dai responsabili del commercio di armamenti statunitensi erano state quelle di allentare i vincoli ai trasferimenti presenti nel periodo pre 1991. Nella discussione congressuale del 10 giugno del 1997, relativa alla proposta (27) di un codice di condotta nel commercio di armamenti (Arms Trade Code of Conduct, poi approvato), veniva reso noto che nel periodo 1991-1996 gli Stati uniti avevano fornito armamenti ai Pvs per circa 11,9 miliardi di dollari l’anno, il 58% in più rispetto al periodo "caldo" 1985-1990, e che le vendite dell’ultimo periodo erano destinate per l’84% a Pvs la cui forma di governo non era democratica.

Dal 1992 al 1996, il valore complessivo dei trasferimenti di armi dagli Stati uniti a Pvs con regimi non democratici aveva raggiunto la considerevole cifra di 50 miliardi di dollari, l’84% del valore totale del commercio di armamenti con i Pvs. Tali esportazioni erano state finanziate tramite i programmi di assistenza allo sviluppo o i programmi di vendite amministrate da parte del Pentagono. Sul totale dei trasferimenti di armi effettuati dagli Stati uniti nel periodo, i Pvs occupavano una percentuale del 67%. Nello stesso dibattito, veniva affermato che i sussidi alle esportazioni di armi (prelevati dalle entrate fiscali) avevano raggiunto nel 1995 i 7,6 miliardi di dollari, costituendo più del 50% dell’"aiuto" previsto da accordi bilaterali dei vari Paesi con gli Stati uniti e il 39% di tutto l’aiuto estero statunitense. Secondo il senatore Ted Kennedy, le forze armate indonesiane, testualmente da lui definite una mafia, avevano ricevuto ogni anno 1,6 miliardi di dollari in prestiti della World Bank sostenuti dagli Stati uniti, pari al totale annuo del budget dichiarato della difesa indonesiana. Il solo personale governativo addetto alla promozione di armi prodotte da società statunitensi raggiungeva nel 1997 le 6.500 unità.

Il commercio degli armamenti come "politica industriale"

Lo sviluppo dei trasferimenti legali di armi ha ovviamente un senso politico maggiore, ma qui vorremmo notare la relazione esistente tra tale sviluppo e i programmi di ammodernamento dei sistemi della difesa, sebbene sia ancora oggi molto dibattuto il senso militare di tali operazioni (28). Apparentemente sembra un assurdo vendere armi sofisticate al resto del mondo se l’obiettivo generale delle spese militari è quello di mantenere o aumentare le distanze tra la propria potenza militare e quella degli altri. In realtà, le vendite all’estero, soprattutto da parte di un leader della produzione bellica, producono proprio la situazione desiderata: un nuovo sbilanciamento tra le potenze belliche di una certa regione, nuove tensioni e potenzialità di conflitti. Ciò rende poi più plausibile la richiesta delle lobbies militari industriali perché vengano finanziati nuovi e più potenti sistemi. Il gioco è piuttosto semplice e si è ripetuto decine di volte.

Armi realmente obsolete a parte, buona parte delle esportazioni statunitensi è formato oggi da materiale che è definito "obsoleto", ma che è stato in realtà costruito solo da 10/15 anni e conserva ancora potenze micidiali, come recentemente denunciato da due eminenti studiosi impegnati sul fronte del controllo degli armamenti, Lora Lumpe e Paul P. Pineo della Federation of American Scientists (29).

L’esportazione, poi, è connessa in un circolo vizioso anche alla superproduzione. Se guardiamo alla situazione creata, specialmente negli anni ‘80 negli Stati uniti, ci troviamo di fronte a paesaggi surreali: un enorme quantità di armamenti, velivoli e naviglio è "parcheggiata" in disuso o semi disuso in varie basi statunitensi, da quelle navali ed aeree delle due coste a quelle interne. Parte di questo materiale non è stato mai usato (fortunatamente), parte è presto diventato obsoleto in virtù della stessa corsa militare, parte è stato "atterrato" dalla diminuzione delle spese militari dopo il 1991. Come i tristemente famosi B52, i carri armati M60 e M48, parte degli Abrams M1 (ora c’è il nuovo e più potente M1A2), veicoli pesanti da trasporto in battaglia (Hmmwv), trattrici e trainati superpesanti per trasporti eccezionali (Hemtt e gli Hets), vari tipi di missili, aerei di ogni specie, elicotteri, artiglieria pesante. A seconda della sua natura ed obsolescenza, tale materiale è andato a costituire veri e propri monumenti alla follia umana come il cimitero dei B52 a Tucson (Arizona); o è stato depositato sui fondi delle coste oceaniche o nel Golfo del Messico. Altro materiale obsoleto viene destinato poi a vendite all’incanto o a donazioni gratuite a Paesi come la Bosnia e la Giordania, l’Egitto, il Brasile e il Barhein, o Taiwan, per citare solo alcuni esempi riportati recentemente da William Greider (30). Occorre poi notare che, come scrive Greider nel saggio citato sopra, le poche proteste per la svendita di tali armamenti a molti Pvs sono venute da società costruttrici "che tentavano di vendere nuovi armamenti agli stessi Paesi".

Per altro verso occorrerà sottolineare che il circolo vizioso sunnominato ha anche lo scopo di creare quel tipo di entrate che permettono all’industria militare di mantenere attive le linee produttive sino all’ammortamento dei costi e alla resa di profitti, o di trattenere il personale altamente qualificato di cui si serve, sola situazione che permette poi di affrontare nuovi progetti. I tempi della politica mal si adattano infatti ai tempi economici e produttivi di settori come il militare o il petrolifero. Non c’è praticamente nessun sistema d’arma complesso che possa svilupparsi, realizzarsi e rendere profitti entro i termini di un mandato presidenziale o di due elezioni politiche successive. Spesso, nemmeno i regimi autoritari o dittatoriali hanno continuità adeguate a tali tempi. La massa di progetti e di finanziamenti da mettere in campo, i tempi della verifica e della sperimentazione sono tali che una lunga continuità delle linee "politiche" diviene assolutamente necessaria per garantire il "buon" fine dell’investimento. Un programma disconnesso, una parziale modifica delle quantità da produrre, un embargo o un colpo militare inatteso contro un "cliente", provocano nel settore militare movimenti devastanti, molto maggiori che in qualsiasi altro settore.

L’industria militare statunitense, non diversamente da altre, ha tenuto di fronte a tale difficoltà "politica" un atteggiamento in qualche modo economicamente "normale": tentare di influire sul politico, all’interno o all’estero, per poter sopravvivere soprattutto nei momenti di crisi (cioè di pace), con nuovi sistemi o nuove esportazioni. Se guardiamo alle politiche perseguite nel mondo in vari periodi dalle società del settore, possiamo fare un elenco quasi infinito di trame, corruzioni, pressioni, esportazioni illegali, artata creazione di situazioni conflittuali, ecc. Una buona parte di questo elenco rimanda ad un’attitudine da mercanti di cannoni che ha forgiato la storia di questo settore (31), ma un’altra parte, non piccola, rimanda al nodo politico del rapporto tra programmazione del business militare e variazioni delle strategie e degli scenari politici. E anche la riconversione dal militare al civile è possibile solo quando avviene in un quadro di concertazione internazionale e di programmazione economica. La dura battaglia recente sulle mine antiuomo e anticarro ne è un esempio, ma la lotta delle maestranze della italiana Valsella dimostra che le volontà politiche di programmare sono ancora più necessarie di quelle morali. Se tali volontà non ci sono o se ne hanno di opposte (come nel caso italiano), gli unici a pagare sono i lavoratori, da Los Angeles, a Seattle a Brescia.

Scenari strategici e politica estera

Quando l’entità statuale sovietica venne dissolta (dicembre 1991), alcuni mesi dopo gli eventi che avevano portato ad uno dei colpi di Stato più strani dei tempi recenti (32), gli strateghi militari e politici statunitensi si trovarono di fronte alla necessità di ridisegnare l’insieme degli obiettivi della sicurezza nazionale e, con essi, del complesso militare. Nel 1992, la Defense Planning Guidance, documento routinario per la pianificazione militare preparato per l’occasione dal sottosegretario alla Difesa incaricato degli Affari politici, Paul A. Wolfowitz e del suo vice D. A. Vesser con il supporto del Consiglio Nazionale per la Sicurezza, presentava così caratteri non troppo usuali. Le anticipazioni di stampa avevano suscitato un vespaio che avrebbe convinto successivamente l’allora segretario alla Difesa, Dick Cheney, a far rivedere alcune affermazioni, ma l’assetto generale rimase tuttavia lo stesso anche nella versione finale (maggio 1992).

Nel primo testo, i cui tratti salienti comparvero sull’International Herald Tribune dell’8 marzo 1992, si affermava senza mezzi termini la necessità di evitare qualsiasi tentativo di porre in discussione la riconquistata leadership nucleare e strategica degli Usa. Nello stesso tempo si indicava come massimo pericolo del momento la tentazione di ridurre i bilanci della Difesa. Venivano poi indicati altri pericoli potenziali:

una Difesa Comune Europea che si fosse costituita in modo non compatibile al ruolo guida della Nato;

il possibile tentativo del Giappone e/o della Corea unificata di acquisire un ruolo autonomo nucleare nell’area asiatica;

il risorgere di un blocco nucleare centrato sulla Federazione Russa, sul Kazakhstan, sull’Ucraina e la Bielorussia;

l’emergere di un nuovo tentativo egemonico in Medio Oriente (la guerra contro l’Iraq si era conclusa da poco).

Sulla prima pagina del quotidiano succitato, una cartina del mondo indicava con alcuni circolini le zone dei pericoli strategici individuati dal rapporto e i cinque riquadri esplicativi dicevano testualmente:

"Cuba e Corea del Nord. Gli Stati uniti devono essere preparati per ciò che il rapporto descrive come atti irrazionali da parte di Cuba e Corea del Nord, che si ritiene stiano entrando in periodi di intensa crisi nella sfera economica e politica";

"Iraq, Corea del Nord, Pakistan e India. Gli Stati uniti potrebbero dover affrontare il problema se intraprendere o meno i passi militari necessari per prevenire lo sviluppo o l’uso di armi di distruzione di massa";

"Russia. Gli Stati uniti devono continuare a brandire le armi nucleari verso quelle strutture e capacità considerate oggi o in futuro di grande importanza dai leader russi o altri avversari nucleari";

"Europa. Gli Stati uniti devono conservare una forte presenza per assicurare la permanenza della alleanza della Nato ed estendere l’impegno alla difesa europea occidentale ai Paesi della parte orientale, nel caso venisse presa una decisione in tal senso dalla Alleanza" (!);

"Giappone. Gli Stati uniti devono rimanere all’erta rispetto agli effetti potenzialmente destabilizzanti che in Asia orientale potrebbero avere i tentativi di alleati americani, come il Giappone ma anche la Corea, di assumere un più grande ruolo come potenze regionali".

Che non fossero estemporanee improvvisazioni, lo confermava esplicitamente un documento simile del 1994 ove si sosteneva la necessità impellente per gli Stati uniti di "mantenere i meccanismi atti a prevenire potenziali concorrenti da anche solo aspirare ad un ruolo regionale più ampio o ad un ruolo globale" (33).

Non ci vuole molta fantasia per immaginare le reazioni di alleati e avversari a documenti di tale fatta, né per collegarli con le azioni politico-economiche successive degli Stati uniti: Russia, Cuba, Asia Orientale e allargamento della Nato, Iugoslavia, dicono qualcosa al proposito, con buona pace di coloro che quando il dito indica la luna guardano il dito.

Scriveva (34) all’inizio del secolo il banchiere polacco Jan S. Bloch nel suo "Il Futuro della Guerra": " ... la guerra, invece di rimanere un confronto colpo su colpo in cui i belligeranti misurano la loro forza fisica e morale, diventerà un certo tipo di stallo [...] Questo è il futuro della guerra: non il combattimento, ma l’affamamento, non l’uccisione degli uomini, ma la bancarotta dell’avversario e il disfacimento della sua intera organizzazione sociale".

È tuttavia giusto notare che l’opzione militare nella politica internazionale e gli interessi che la sorreggono si sono sviluppati grazie soprattutto al miserevole vuoto di una politica estera incapace di una visione lungimirante e cooperativa della politica internazionale. Una politica estera che è andata sbandando dalla gendarmeria (35), alle minacce, dall’utilizzo della Nato come grimaldello per i mercati est europei, alla perpetua ricerca di "stati fuorilegge", all’inseguimento di ogni tavolo di trattativa ove potesse infilarsi. L’opzione militare è cresciuta in queste scelte, ma non le ha inventate. Ed è cresciuta anche in un altro miserevole vuoto, quello delle politiche estere dell’Europa.

La macchina militare statunitense si è così trasformata sempre più in uno strumento per obiettivi di carattere politico di breve momento. I nuovi indirizzi hanno sostenuto il passaggio da una forza orientata complessivamente alla deterrenza di un conflitto globale poco probabile ad una forza "pronta" nel suo complesso a combattere guerre limitate ma realmente possibili, deterrente puntato contro variazioni indesiderate degli equilibri regionali. Pur mantenendosi la necessità di una "copertura" globale strategica (ivi compresa la continuazione, sottoscritta dall’Amministrazione Clinton, di una versione non troppa ridotta del programma reaganiano di "scudi spaziali"), l’insieme delle forze è stato orientato a poter sostenere contemporaneamente conflitti convenzionali in parti diverse del globo, con o senza concorso internazionale. Entro questa scelta (36), stanno andando avanti indirizzi in cui la funzione dei sistemi informativi e dell’intelligence tende ad assumere il ruolo di cuore del sistema (37), le operazioni speciali dettano i parametri di intervento per tutto l’insieme (38), le operazioni cosiddette OOTW (other than war) impongono mediante strutture militari la presenza politica degli Stati uniti nelle aree calde del mondo (39). Infine, sta andando avanti l’idea - militarmente inconsistente (40), ma accattivante per il pubblico e molto lucrativa per l’apparato industriale - che un incessante corsa a nuovi sistemi bellici e informativi supertecnologici possa garantire il mantenimento di una facile superiorità bellica degli Stati uniti e, allontanando sempre più i "guerrieri" statunitensi dai teatri di guerra reali, rendere minori i problemi di consenso interno alle nuove avventure. "Marooned in the Cold War" (41), lasciati soli negli schemi della Guerra fredda, i nuovi egemoni sono passati dalla "titanica" lotta contro l’arcinemico rosso alle ombre sfuggenti del "fondamentalismo islamico", dei conflitti pseudoetnici, degli "stati fuorilegge", in uno sviluppo in cui si mischieranno - più che in passato - guerre-lampo ed embarghi, mass-media, bombardamenti, ricatti, Pentagono e Wall Street.

L’infame spettacolo offerto dai mass media italiani nell’ultima tragedia iugoslava dice però che gli Stati uniti non dovranno più gravarsi dei costi (come hanno sempre fatto a suon di milioni di dollari) per assoldare giornalisti all’estero. Questi ultimi hanno deciso di lavorare per loro anche gratis.