Le condizioni della libertà.

Dinamica capitalistica e questione del soggetto nell'epoca della "globalizzazione": una rilettura teorica e politica del Manifesto del partito comunista

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Riccardo Bellofiore
Dipartimento di Scienze Economiche
Università di Bergamo
Piazza Rosate, 2
24129 Bergamo
email: bellofio@cisi.unito.it

Introduzione

Lo spettro del comunismo ha cessato di inquietare l'Europa, ma il Manifesto non ha cessato di inquietare i rivoluzionari.

Wal Suchting, "What is Living and What is Dead in the Communist Manifesto?", p. 163

Riprendere in mano, a centocinquant'anni dalla sua comparsa, il Manifesto del partito comunista può essere fatto con metodi e obiettivi diversi 1 . E' possibile, evidentemente, collocare l'opuscolo nella temperie politica e culturale degli anni in cui vide la luce; come è possibile soggiacere alla tentazione di un confronto immediato tra il testo e la realtà che abbiamo di fronte. Un approccio 'storico', il primo; un approccio 'attualizzante', il secondo. Esemplare, in un certo senso, del primo è la riedizione della Einaudi, con la lunga e utile postfazione di Bruno Bongiovanni, mentre esemplare del secondo, è l'introduzione che Eric Hobsbawm ha premesso alla ristampa inglese della Verso uscita anch'essa quest'anno. Entrambe, però, mettono bene in rilievo i rischi di operazioni del genere. Da una parte, la riduzione del Manifesto a 'classico', quando non a documento di un'altra epoca, con una nascosta, ma non meno efficace, sterilizzazione dell'impatto presente di quelle pagine. Dall'altra parte, all'opposto, la rivendicazione al Manifesto di una dimensione profetica, sia pure dimezzata: dove la profezia sta nell'avere anticipato - con la sola colpa di averlo fatto con troppo grande anticipo – i caratteri del capitalismo mondializzato dei nostri giorni; e il suo essere dimezzata sta nella spiacevole circostanza che, giusto quando le previsioni 'analitiche' di Marx si sarebbero concretizzate, esse avrebbero al contempo distrutto il soggetto sociale che doveva farsi messaggero di una società futura, meno disumana e portatrice di una libertà più autentica nell'eguaglianza 2 .

Vi è qui, a me pare, un difetto dovuto a un eccesso di 'empirismo'. Si ragiona quasi come se i 'fatti' fossero lì, neutri, a consentire di saggiare la validità del costrutto teorico; dal che consegue un ammirato stupore nel verificare quanto lo sviluppo delle forze produttive tratteggiato da Marx nel Manifesto assomigli al nostro presente. E' evidente, peraltro, che, visto che i fatti neutri non lo sono mai, in questo modo ci si ritrova pressoché sempre a spacciare come non problematica la ricostruzione dominante della realtà attuale, e ci si limita a rivestire l'interpretazione di senso comune di una retorica radicale – tanto più radicale, in effetti, quanto più la descrizione prevalente di come stanno le cose nega qualsiasi possibilità di intervento alle classi dominate.

In queste pagine percorrerò – per mestiere, per così dire; ma anche per convinzione - una via diversa. Il criterio di valutazione cui sottoporrò il Manifesto sarà di natura eminentemente 'logica' e 'categoriale'. Assumerò lo scritto di Marx ed Engels come parte di un percorso teorico e ,sempre, implicitamente o esplicitamente, politico più complessivo, che raggiunge la sua maturità soltanto nei lavori del Marx 'critico dell'economia politica', cioè nei Grundrisse e nel Capitale. La domanda che mi porrò sarà, insomma, in che misura una rilettura 'all'indietro' di Marx – una rilettura, cioè, che interpreti alla luce delle successive conquiste concettuali del Marx delle opere maggiori le proclamazioni brillanti ed efficaci del Manifesto – sia produttiva. Produttiva, innanzitutto, nel senso di mostrare la permanente attualità degli affondi che il Manifesto lancia per una interpretazione della dinamica di classe dell'ultimo secolo e mezzo, senza lasciarsi intralciare dalle parti più datate e deboli di quel pamphlet. Produttiva, inoltre, nel senso di fornirci le armi per una diversa rappresentazione del capitalismo contemporaneo, 'globalizzato' e 'postfordista', che sfugga a quella visione senza conflitto e senza politica che va oggi per la maggiore tanto a destra quanto, purtroppo, anche a sinistra; e che discenda invece dal metodo, che a me sembra prettamente marxiano, di mettere sotto processo i 'fatti', rilevandone la natura contraddittoria. Produttiva, infine, per rimettere sul tappeto il nodo politico della teoria marxiana, cioè, da un lato, l'inseparabilità della dimensione analitica da quella politica nel Manifesto come nella critica dell'economia politica, e, dall'altro lato, la questione della natura e della costruzione del soggetto antagonista.

La struttura di questo contributo è la seguente. Nella seconda sezione, ricapitolerò brevemente le tesi portanti del Manifesto, mettendo in evidenza le questioni controverse e le critiche principali a cui esso ha dato origine. Nella terza sezione, presenterò quello che è a mio parere il nocciolo della 'critica dell'economia politica' sviluppata da Marx principalmente negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, e mostrerò in che senso da questo punto di vista molte delle difficoltà ad una interpretazione convincente del processo capitalistico che emergono dal Manifesto possano essere superate. Nella quarta sezione, accennerò in modo sintetico alle conseguenze che una esegesi del lascito marxiano di questo tipo ha per una diagnosi del capitalismo contemporaneo. Nella quinta e ultima sezione, interverrò sul tema del soggetto sociale e del soggetto politico come questione 'aperta', nel Manifesto così come nel marxismo 3 .

Il Manifesto del partito comunista

Si dissolvono tutti i rapporti stabili ed irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti.

Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del Partito comunista, p. 87

Apriamo dunque di nuovo il Manifesto La struttura della argomentazione è chiara e lineare. Il punto di avvio è il ruolo rivoluzionario della borghesia, che "non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali" (p. 87). Della borghesia, nelle prime pagine dell'opuscolo, Marx ed Engels tratteggiano l'ascesa economica e politica: attraverso la fase mercantile, lo stadio manifatturiero, la grande industria moderna, infine lo sviluppo del mercato mondiale che retroagisce sul ritmo di espansione dell'industria; e passando da ceto oppresso, a contrappeso alla nobiltà e fondamento primo delle grandi monarchie, al dominio politico esclusivo nello Stato rappresentativo moderno. A colpire oggi l'immaginazione sono, come è naturale, le pagine dedicate all' "impronta cosmopolitica" data "alla produzione e al consumo di tutti i paesi" dalla borghesia (ivi), al fatto che l'introduzione di industrie nuove che soppiantano le antichissime industrie nazionali "diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili" (p. 89), al subentrare di una interdipendenza universale al posto della antica autosufficienza e dell'antico isolamento. Alla 'tesi', costituita dall'inedito e veloce progresso delle forze produttive e del grado di civiltà seguito all'ascesa della borghesia, fa però da subitaneo contraltare l' 'antitesi', ovvero l'annuncio che le crisi commerciali ricorrenti e sempre più acute segnalano che il capitalismo è in un'era terminale della sua esistenza. La contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione è oramai talmente profonda che questi secondi "sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta" (p. 92).

L'approssimarsi di una crisi 'oggettiva' trova corrispondenza nella costituzione, sul versante "soggettivo", di una classe operaia in crescita quantitativa e potenzialmente organizzabile. In effetti, secondo il Marx e l'Engels del 1848, non soltanto la storia è sempre stata storia di lotte di classe, ma la stessa struttura sociale si è venuta, grazie al capitalismo, 'semplificando' in una polarizzazione duale radicale: "L'intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l'una all'altra: borghesia e proletariato" (p. 83). Il quadro della condizione operaia che viene fornito dal Manifesto tutto è meno che consolatorio. Il lavoratore è divenuto un accessorio della macchina, poiché "il lavoro dei proletari ha perduto ogni carattere indipendente", e all'operaio "si richiede soltanto un'operazione manuale semplicissima, estremamente monotona e facilissima ad imparare" (p. 94). A questa degradazione della prestazione lavorativa corrisponde una riduzione del 'prezzo' del 'lavoro', per cui "il salario decresce nella stessa proporzione in cui aumenta il tedio del lavoro" (ivi); come anche corrisponde un aumento della durata e dell'intensità del lavoro. Lo stesso lavoratore è oramai equiparato a uno strumento di lavoro tra gli altri, e vede dipendere la propria vita dalle oscillazioni della domanda e dell'offerta della 'merce' che vende sul mercato del lavoro, dalla concorrenza di altri essere umani più a buon mercato, e dal progresso tecnico. Ciò non di meno, la stessa accumulazione capitalistica si incarica di addensare masse di operai nelle fabbriche, e di unificarne le condizioni di esistenza, consentendo così coalizioni difensive contro il padronato, in grado di strappare vittorie temporanee: "Il vero e proprio risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma il fatto che l'unione degli operai si estende sempre di più" (p. 97). Unione che viene periodicamente infranta dalla dinamica capitalistica, ma che "risorge sempre di nuovo, più forte, più salda, più potente"(p. 98). La "lotta delle classi si avvicina al momento decisivo" (p. 99).

Il nesso tra tendenza 'oggettiva' alla crisi e movimento 'soggettivo' rivoluzionario è talmente stretto che, con espressione rimasta celebre, Marx ed Engels scrivono che "Con lo sviluppo della grande industria, dunque, vien tolto di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili" (p. 104). Mettendo le mani sulla leva statale – che non è altro "che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese" (p. 85) – il proletariato, elevatosi a classe dominante, può abolire la proprietà privata, accentrare gli strumenti di produzione in mano pubblica, accelerare lo sviluppo delle forze produttive, e infine creare le condizioni affinché alla società capitalistica subentri "una associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti" (p. 121).

La sintesi delle proposizioni del Manifesto che abbiamo presentato fa risaltare le difficoltà a malapena celate dal fascino lucido e trascinante del discorso. Difficoltà che hanno dato luogo, nel tempo, a insistenti critiche alla teoria marxiana. I problemi più evidenti hanno a che vedere con, da un lato, il discutibile crollismo che traspare dalle pagine di Marx ed Engels. Tanto le leggi che regolano il decorso strettamente economico dell'accumulazione quanto la costituzione del soggetto antagonista, che in qualche modo 'riflette' quelle leggi, appaiono condurre all' 'inevitabile' catastrofe della società borghese e alla vittoria del proletariato, in una visione dove determinati processi 'materiali', indipendenti dalla volontà degli essere umani, ne determinano la coscienza sociale, facendo del capitalismo "l'ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale" che "chiude dunque la preistoria della società umana", come recita la "Prefazione" del 1859 a Per la critica. Un interprete simpatetico a Marx ha osservato che "sembra qui che il capitalismo produca, per partenogenesi, le condizioni necessarie e sufficienti della sua dissoluzione 4 , mentre un interprete meno ben disposto, ma una volta di grande finezza, vi trova qui le tracce di una concezione della storia a 'disegno' 5 . Sia pure per ragioni diverse, il responsabile ultimo di questa deriva marx-engelsiana sarebbe Hegel. Per Wal Suchting, il tentativo di rovesciare la dialettica hegeliana non riesce nel suo intento quando si limita a sostituire la materia allo Spirito Assoluto, facendo della realtà economica una successione di stadi predefiniti e della coscienza degli agenti storici il riverbero del processo storico materiale. Per Lucio Colletti, la teleologia e il finalismo di Hegel trapassano in Marx quando la visione del rapporto capitalistico come rapporto 'alienato' comporta la ripresa dell'idea hegeliana secondo cui l'alienazione segna la rottura dell'Unità originaria che lo sviluppo storico si incarica di ricostituire.

E' indubbio che il Manifesto si presta, in qualche misura, a tali rilievi critici. E' noto, d'altronde, che la teoria del 'crollo' - nelle forme più sofisticate in cui essa viene ripresa nel Capitale, ovvero come teoria della caduta tendenziale del saggio del profitto e come teoria della crisi da realizzo – non è convincente (e non lo è, per di più, per ragioni che lo stesso apparato categoriale di Marx aiuta a chiarire). Altrettanto dubbia è la tesi della pauperizzazione che Marx ed Engels introducono nel corso della loro argomentazione sulla tendenza alla crisi, almeno nella forma che essa prende nel Manifesto. Tale tesi, infatti, afferma proprio l'abbassarsi assoluto della sussistenza del lavoratore, e vede in ciò la premessa della rottura rivoluzionaria: "l'operaio moderno, invece di elevarsi man mano che l'industria progredisce, scende sempre più al di sotto delle condizioni della sua propria classe. L'operaio diventa un povero, e il pauperismo si sviluppa anche più rapidamente che la popolazione e la ricchezza. Da tutto ciò appare manifesto che la borghesia non è in grado di rimanere ancora più a lungo la classe dominante della società e di imporre alla società le condizioni di vita della propria classe come legge regolatrice. Non è capace di dominare, perché non è capace di garantire l'esistenza al proprio schiavo neppure entro la sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo sprofondare in una situazione nella quale, invece di esser da lui nutrita, essa è costretta a nutrirlo. La società non può più vivere sotto la classe borghese, vale a dire l'esistenza della classe borghese non è più compatibile con la società" (pp. 103-104). Una enunciazione del genere non è accettabile: non perché essa non possa contingentemente risultare plausibile (basta, a questo proposito, osservare la situazione in cui è costretta a vivere la popolazione del pianeta nell'era del c.d. capitalismo 'mondializzato'), ma perché essa viene avanzata nella forma di una predizione incondizionale; una predizione, per di più, che è stata smentita per oltre un secolo dalla crescita contemporanea del capitale e del salario reale.

Una forma particolare di 'pauperizzazione', se si vuole, è quella che colpisce il lavoratore in quanto tale, se si presta fede al quadro che Marx ed Engels nel 1848 forniscono della prestazione lavorativa, destinata a una ineluttabile e progressiva dequalificazione. Lasciamo per un attimo da parte la questione della conferma o meno dell'ipotesi secondo cui le macchine cancellerebbero le differenze del lavoro – una questione che, come è noto, è non poco controversa. Il punto è concettuale. Una lunga, e non ingloriosa, tradizione ha visto in questo spogliamento del lavoro concreto di ogni qualità, in questa – per dirla con Braverman – 'degradazione' del lavoro all'interno della produzione, il fondamento della nozione cruciale della critica dell'economia politica, il lavoro 'astratto', che sarebbe tale in quanto, appunto, nel processo lavorativo lo stesso lavoro concreto diverrebbe una 'astrazione reale'. Questa lettura si è opposta alla linea che è venuta col tempo prevalendo, e che insiste sulla circostanza che Marx nel primo capitolo del Capitale deduce il lavoro astratto dallo scambio generalizzato di merci. L' 'astrazione reale' è in questo secondo caso, all'opposto, il prescindere nello scambio dal fatto che le merci sono beni qualitativamente diversi, prodotti da lavori concreti differenti. Il lavoro astratto, in questa diversa accezione, non ha nulla a che vedere con la qualità del lavoro nella produzione. La posizione di Marx con Engels nel Manifesto sembra propendere per il primo corno dell'alternativa – ma, come dirò nella prossima sezione, entrambe le tesi sono da rigettare.

Le difficoltà del Manifesto non si fermano certo qui. Il dualismo classista del Manifesto è stato oggetto di comprensibili rimostranze, visto che la storia della formazione sociale capitalistica ha progressivamente 'complicato' invece di semplificare i rapporti di classe, estendendo e variando, in particolare, le classi 'intermedie'. Ancora Wal Suchting, recentemente e del tutto a ragione, ha osservato che la categoria di 'classe' appare nell'opuscolo del 1848 in forma gravemente inadeguata e vaga, e che, soprattutto, in quell'opera il modo con cui viene delineata la lotta di classe nel capitalismo trascura il fatto saliente che si è trattato spesso e volentieri di lotte interne alla classe dominante, piuttosto che tra borghesia e proletariato (qualcosa che il Marx del 18 brumaio di Luigi Bonaparte e de Le lotte di classe in Francia mostra invece di aver ben appreso). Si potrebbe ovviamente continuare con l'elenco delle previsioni smentite, da quelle a breve termine, sulla imminente rivoluzione in Germania, a quelle di più lungo termine, sul fatto che fra tutte le classi che stanno di fronte alla borghesia "il proletariato soltanto è una classe autenticamente rivoluzionaria" (p. 99) – qualcosa che, con il senno di poi, appare tutt'altro che garantito.

Dobbiamo dunque concludere per il 'fallimento' del Manifesto del partito comunista? Non credo. Non credo che le cose stiano in questi termini perché, come ho anticipato nelle righe introduttive, non guardo a quello scritto principalmente come opera 'puntuale', ma come parte dell'iniziale progetto teorico-politico sviluppato poi essenzialmente da Marx nei decenni a venire. Nelle sezioni che seguono mi proverò allora a tornare di nuovo sui temi del Manifesto a partire da una particolare interpretazione della 'critica dell'economia politica' marxiana. Non condivido infatti una lettura 'discontinuista' di Marx, ma a patto che la continuità venga letta 'all'indietro' e non 'in avanti'. Non è vero, insomma, che il Marx giovane detti le mosse del Marx maturo. E' vero, al contrario, che il Marx maturo ridefinisce radicalmente la risposta da dare alle domande teoriche e politiche che egli si era posto, assieme ad Engels, negli anni quaranta.

Il Marx della maturità

Per cui non si deve più dire che un'ora di un uomo vale un'ora di un altro uomo, ma piuttosto che un uomo di un'ora vale un altro uomo di un'ora. Il tempo è tutto, l'uomo non è più niente; è tutt'al più l'incarnazione del tempo.

Karl Marx, Miseria della filosofia, p. 48

E' bene, per essere il più sintetici possibile, dichiarare da subito le linee lungo le quali leggo i Grundrisse e il Capitale, con un particolare riferimento ai problemi sollevati dal Manifesto. 6 . E conviene cominciare dal 'perno' della costruzione teorica marxiana, la nozione di lavoro 'astratto'. Come ho detto, trovo riduttive ambedue le interpretazioni che si contendono il terreno: tanto quella che vede nel lavoro astratto qualcosa che si produce soltanto nello scambio, quasi che il valore fosse 'creato' nella circolazione, quanto quella che vede nel lavoro astratto il lavoro che ha perso ogni carattere di concretezza nel processo produttivo, sicché la circolazione si limita a 'realizzare' un valore già interamente formato nella produzione. Personalmente, trovo più convincente leggere l'astrazione del lavoro come un processo. L'interpretazione più diffusa, quella che vede la determinazione del lavoro astratto soltanto nello scambio finale sul mercato delle merci dove i lavori 'privati' vedono sanzionata la loro socialità per il tramite dello scambio di cose contro denaro, si limita a registrare il fatto che il lavoro in quanto 'risultato', il lavoro 'morto' nel prodotto, rappresenta indirettamente un processo di 'alienazione' della soggettività dei lavoratori nella circolazione. Evidentemente, però, le cose sono più complicate. Infatti, lo scambio di merci è scambio generale soltanto nel capitalismo, quando cioè il lavoro non è lavoro di semplici produttori indipendenti ma è lavoro salariato – di conseguenza, è chiaro che gli scambisti del primo capitolo del primo libro del Capitale non hanno nulla a che vedere con una mitica 'società mercantile semplice', ma sono in realtà imprese capitalistiche che organizzano al loro interno un lavoratore 'collettivo'. Per questo, nei Grundrisse Marx presenta una seconda deduzione del lavoro astratto, dove il lavoro astratto è inteso simultaneamente come il lavoro 'vivo' del lavoratore salariato opposto al capitale della produzione – il lavoro vivo, scrive Marx, come lavoro astratto 'in divenire'. Qui l'astrazione reale deve investire in un qualche senso il lavoro come 'attività', cioè il lavoro in atto estorto alla forza lavoro. Il lavoro 'vivo' non è altro che il valore d'uso del lavoratore in quanto forza lavoro: è cioè la capacità lavorativa acquistata dal capitale monetario e messa in movimento nel processo di lavoro come mezzo al processo di valorizzazione.

In quel che precede sono evidenti due 'sequenze' intrecciate. La prima sequenza, più evidente, è quella monetaria. Il processo capitalistico è un circuito monetario che si apre con un finanziamento iniziale alla produzione, dove il capitale in forma monetaria, prestato dal capitalista 'monetario' al capitalista 'industriale', acquista forza lavoro; prosegue con la produzione immediata dove il capitale 'comanda' il lavoro all'interno di una data tecnologia e di una data organizzazione del lavoro; e si conclude con la vendita dei risultati della valorizzazione sul mercato finale dei prodotti, il recupero delle somme inizialmente stanziate, la loro restituzione al finanziatore, e l'ottenimento di un sovrappiù di valore. La seconda sequenza, più nascosta, è quella attinente al lavoro. La successione in questo caso va dalla forza lavoro come 'potenza' di lavoro, alla erogazione di lavoro come capacità di lavoro 'in atto' e valore 'in potenza', al lavoro oggettivato come lavoro 'alienato' nello scambio e denaro 'in potenza', da 'attualizzare' sul mercato finale 7 . Non insisterò su un punto, peraltro fondamentale, della visione marxiana, cioè sul fatto che tanto la traduzione di forza lavoro in lavoro vivo, quanto la traduzione della forma valore della merce in denaro, sono eventi altamente incerti, che non possono essere dati per scontati senza fornire una rappresentazione gravemente mutilata del capitalismo. Per questo la teoria marxiana non può essere ridotta puramente e semplicemente a una teoria dell'equilibrio: il movimento fuori dall'equilibrio ne è componente essenziale. Piuttosto, metterò in chiaro altri due punti importanti, e interconnessi, che ci sono utili per tornare ai temi del Manifesto. Il modo, innanzitutto, con cui il Marx maturo configura quella vera e propria inversione di soggetto e oggetto che l'opuscolo del 1848 anticipa quando parla di "lavoro appendice delle macchine". Il modo, quindi, in cui va intesa l'astrazione del lavoro nella produzione, e la connessa questione della qualità del lavoro, a cui pure rimandano Marx ed Engels quando scrivono di "lavoro dei proletari" che "ha perduto ogni carattere indipendente".

Per quel che riguarda il primo punto, l'inversione di soggetto e predicato – ovvero, il processo di 'ipostasi reale' che sia il Marx giovane come il Marx maturo individuano come tipico del modo di produzione capitalistico – è evidente che il Marx degli scritti economici è giunto a configurarla con una ricchezza inimmaginabile rispetto al torso del Manifesto. Ed è anche chiaro che tale inversione non caratterizza soltanto lo scambio sul mercato finale, dove il lavoro dei produttori, da attributo dell'essere umano, si capovolge in entità indipendente, cioè in 'valore' dei prodotti, che lo domina. L'inversione si estende ora anche al mercato iniziale, al mercato del lavoro. Quando l'operaio vende la propria forza lavoro al capitalista, la capacità di lavorare, ovvero la merce venduta su quel mercato, da attributo dell'individuo diviene, appunto, la determinazione particolare, il predicato, che assurge a soggetto di cui il lavoratore empirico, che cede i propri servizi al capitale è mera appendice. D'altra parte – spiacevolmente per il lavoratore, ma spiacevolmente anche per il capitale – questo rapporto tra capacità lavorativa e lavoratore empirico può essere rovesciato ma non può essere 'sciolto', ovvero la prima non può essere definitivamente separata dalla corporeità del secondo. Ma vi è di più - tocchiamo così il secondo punto, quello attinente alla natura e alla qualità del lavoro nella produzione - l'inversione finisce con il caratterizzare la stessa produzione immediata. L'argomentazione propria di Marx è che, quando si passa dalla sussunzione formale alla sussunzione reale del lavoro al capitale, quando cioè si sviluppa un modo di produzione specificamente capitalistico, il lavoro diviene 'senza qualità'.

Vi è qui, nota giustamente Chris Arthur 8 , un errore concettuale in cui è facile scivolare, e che è invece da evitare; un errore dal quale non sono sicuro lo stesso Marx sia esente nella sua opera matura, e in cui certo, lo abbiamo documentato, cade con Engels nel Manifesto. L'errore è quello "di identificare il lavoro astratto, cioè la sostanza di valore, con il presunto carattere 'astratto' del lavoro moderno nella sua forma fisica". Negli stessi Grundrisse, in un brano di grande suggestione, Marx equipara l'attività puramente 'astratta' con l'attività meramente 'fisica': di qui, il salto all'equazione sussunzione reale del lavoro al capitale = dequalificazione del lavoro è di molto facilitato. A me sembra che il discorso più complessivo di Marx spinga invece in un'altra direzione, quella secondo cui il lavoro non soltanto 'conta' come generico nello scambio ma diviene, cioè 'è' generico nella stessa produzione, nella misura in cui nel modo di produzione specificamente capitalistico le caratteristiche e le abilità concrete del lavoro, che permangono sempre, sono però 'dettate' dalla tecnica e dall'organizzazione capitalistica, cioè sono funzione dell'incorporazione dei lavoratori al capitale. Ogni rivoluzione tecnologica e organizzativa riproduce, nella forma che le è specifica, il 'mestiere' e momenti di lavoro più o meno 'qualificato', senza che sia possibile determinare a questo proposito una definita e immutabile linea di tendenza a priori. La sussunzione reale del lavoro al capitale comporta che è il capitale il soggetto che, determinando la configurazione produttiva, fissa anche le qualificazioni interne al lavoratore collettivo. Si tratta di un fenomeno che è compatibile tanto con ondate di dequalificazione quanto con ondate di riqualificazione della prestazione lavorativa. Ad essere essenziale, nella costruzione teorica marxiana, non è, insomma, la 'degradazione' del lavoro, ma il suo carattere forzato ed eterodiretto, il fatto cioè che il lavoro è subordinato ad una tecnologia ed una organizzazione pensate 'fuori' e 'contro' il lavoro, e nei quali il lavoratore viene 'incorporato' come un 'altro' senza la cui attività il processo non potrebbe comunque mettersi in moto. Il nocciolo sostanziale della questione è qui il controllo sul lavoro, 'qualificato' o meno.

Tiriamo le fila. Il lavoro astratto nelle sue tre dimensioni che coinvolgono la forza lavoro come capacità di lavoro, il lavoro vivo come attività, il lavoro oggettivato come risultato, è il valore nel movimento della valorizzazione, che coinvolge produzione e circolazione ad un tempo. E' soltanto quando il lavoro nella produzione diviene oggetto dell'iniziativa capitalistica che incessantemente ne ridisegna le modalità, e quando viene quindi 'trattato' dalle imprese come astratto in vista dell'ottenimento di un profitto monetario, che l'identità dei prodotti in quanto merci nello scambio, il presupposto della teoria del valore marxiana, viene ad essere fondata, cioè posta, da un processo autenticamente reale 9 . Il lavoro nella produzione rimane, come sempre, lavoro 'concreto', ma tale concretezza materiale assume ora un 'contenuto' adeguato alla 'forma' della 'valorizzazione'. Così come la merce si sdoppia in valore d'uso e valore, così il lavoro, si sdoppia nel momento stesso dell'attività, in lavoro 'concreto', in quanto tale incommensurabile, e in lavoro 'astratto', in quanto tale misurabile - e la cui misura immanente è il tempo di lavoro 10 . Tale astrazione del lavoro nella produzione, che non ha nulla a che vedere – ribadiamolo - con una riduzione effettiva del lavoro a lavoro deconcretizzato 11 , è, in senso proprio, più fondamentale dell'astrazione del lavoro nello scambio 'finale' 12 . Rispetto al Manifesto questi sviluppi teorici confermano che il lavoro individuale 'appendice' delle macchine ha perso ogni carattere di indipendenza, ma il quadro del rapporto capitalistico di produzione che ne emerge non patisce più dell'impropria identificazione con una immaginaria tendenza all'impoverimento del lavoro, secondo cui il lavoro capitalistico sarebbe il lavoro privo di determinazioni concrete.

A seguito dell'approfondimento dovuto alla conquista delle categorie di lavoro 'astratto' e di 'sussunzione reale del lavoro al capitale', è possibile ridefinire nei suoi termini esatti la questione della pauperizzazione. Una volta che il capitalismo rivoluziona incessantemente le tecniche e i modi del lavoro, è perfettamente possibile che l'aumento della forza produttiva del lavoro si accompagni ad un continuo innalzamento della sussistenza dei lavoratori, cioè ad un aumento del salario reale, e, eventualmente, ad una contrazione della durata della giornata lavorativa, pur in presenza di una riduzione del 'lavoro necessario', cioè della quantità di lavoro richiesta per il mantenimento e la riproduzione del lavoratore. Detto altrimenti: l'estrazione di plusvalore relativo equivale a una diminuzione del salario relativo, e perciò a un restringimento della quota del neovalore prodotto che torna ai lavoratori. La caduta del salario relativo è, secondo Rosa Luxemburg, una vera e propria 'legge', e legge 'oggettiva', della distribuzione nel capitalismo, una legge contro cui si può lottare soltanto se si ha nel proprio orizzonte il superamento del capitalismo. Infrangere quella legge equivale, infatti, a mettere in crisi la valorizzazione, e perciò l'economia e la società capitalistiche 13 . E però quella legge non comporta affatto le conseguenze del Manifesto, secondo cui nel capitalismo inesorabilmente si producono la riduzione del salario monetario e del salario reale. Le cose stanno anzi all'opposto. Al di qua della soglia che vede crescere il salario reale unitario allo stesso ritmo della produttività per addetto esistono margini per un accordo 'riformistico' che veda crescere insieme salari reali e quota dei profitti.

Come per la condizione del lavoro dentro la sfera della produzione, così per la condizione del lavoro dentro la sfera del consumo si può dire allora che la realtà capitalistica è duplice: per quel che riguarda il terreno del valore, la relazione di classe non può che essere antagonistica, senza rimedio; ma per quel che riguarda la sfera del valore d'uso è nell'ordine delle cose una possibile convergenza tra le classi, in quanto maggiore 'soddisfazione' e 'partecipazione' dei lavoratori - sino a che essi beninteso, accettano la posizione subordinata - possono essere un propellente dell'accumulazione. Non ho usato a caso il modo della 'possibilità'. Che un patto riformistico sia, di tempo in tempo, praticabile non significa affatto che esso sia 'naturale', o – come qualcuno ha voluto pensare – che 'il capitale lavori (abbia lavorato, lavorerà) per noi'. Al contrario, le imprese perseguiranno sempre la via del massimo profitto con il minimo sforzo nelle condizioni date: una strada diversa deve essergli imposta, grazie alle armi del conflitto sociale e della politica. Quello che è certo, di nuovo, è che il Marx maturo torna sulla questione della pauperizzazione con tutt'altri accenti rispetto alle proposizioni un po' ingenue del Manifesto. Rimane comunque, sotterranea ma ineludibile, la contraddizione profonda e insanabile di lavoro e capitale.

L'uscita da tale contraddizione non può in ogni caso essere configurata sulla base di un esaurirsi della spinta propulsiva impressa alle forze produttive dal carattere 'finale' quale quella implicita nel crollismo dell'opuscolo del quarantotto. Non è possibile farlo anche perché, come si è anticipato, risultano inattendibili persino le più elaborate versioni della 'teoria del crollo' che è possibile rintracciare negli inediti del secondo e del terzo libro del Capitale. La 'caduta tendenziale del saggio di profitto', intesa come tendenza secolare alla diminuzione del saggio di profitto, è stata contestata, a ragione, in quanto non vi è motivo per cui l'aumento della 'composizione organica del capitale' non potrebbe in linea di principio essere controbattuto dall'incremento del saggio di plusvalore, esso stesso funzione dell'introduzione del progresso tecnico 14 . Si può, certo, ribattere che l'argomentazione marxiana è declinata mettendo in prima linea i limiti alla giornata lavorativa totale della massa operaia, dal che discenderebbe, a prima vista, una irreparabile tendenza alla riduzione del saggio di profitto massimo 15 al crescere del capitale costante causato dalla meccanizzazione e dalla automazione. La replica è però immediata: effetto delle nuove tecniche produttive è la riduzione del valore unitario delle merci, e quindi niente esclude a priori che il saggio del profitto possa invece aumentare qualora, pur con giornata lavorativa data o in caduta, la svalorizzazione delle merci costitutive del capitale costante sia adeguatamente più veloce. La 'crisi da realizzo', a sua volta, è stata sostenuta in modi alternativi o complementari, facendo leva tanto sulle possibili 'sproporzioni' tra settori quanto sul limitato consumo delle masse, cioè sul 'sottoconsumo'. Entrambe le versioni vanno rigettate, in forza proprio di uno strumento concettuale introdotto da Marx, gli 'schemi di riproduzione'. Gli schemi dimostrano che la domanda al capitale proviene dal capitale medesimo. Di nuovo in linea di principio, non è detto che la declinante domanda di consumi proveniente dai lavoratori, che è l'altra faccia della caduta del salario 'relativo', non potrebbe essere sostituita da una domanda di investimenti che cresce, come ammontare e come quota, al declinare dei consumi operai rispetto al reddito. Gli schemi dimostrano che, in generale, l'equilibrio è sempre possibile, anche se mai garantito.

Anche in questa circostanza, però, il bilancio per le ipotesi del Manifesto non può essere considerato come completamente negativo. E' vero che la tesi del 'crollo' deterministico non può essere dimostrata. Ciononostante, l'arsenale marxiano si rivela produttivo di ipotesi feconde per una ricostruzione della tendenza alla crisi, sia pure non del tipo 'finale'; e può dare vita a una ricostruzione di 'storia ragionata' che corrisponde abbastanza bene alla sequenza delle 'grandi crisi' attraversate dal modo di produzione capitalistico. Financo Michele Salvati, recentemente, ha potuto scrivere che "è anche probabile che la reazione contro il marxismo si sia spinta un po' troppo oltre, almeno nel mio paese: il marxismo (come strumento, non come ideologia) può ancora generare preziose intuizioni sul funzionamento dell'economia di mercato" 16 . Sarà perciò consentito a chi scrive spendere qualche buona parola, e lavorare un po', sulla teoria della dinamica capitalistica di Marx.

Si tratta di questo. 'Caduta tendenziale del saggio di profitto' e 'crisi da realizzo' possono essere articolate tra di loro. L'antagonismo con la forza lavoro e la conflittualità infracapitalistica spingono le singole imprese ad un aumento del capitale fisso per lavoratore. E' sicuramente possibile che, come si è appena ricordato, la crescita della composizione 'organica' possa essere battuta dall'innalzamento del saggio di plusvalore; o, ancora, che la stessa composizione in valore del capitale cada in conseguenza del progresso tecnico. Condizione dell'uno e dell'altro accadimento è però una aumentata 'pressione' sul lavoro e il tendere al massimo l'estrazione di lavoro vivo in rapporto al lavoro necessario. D'altronde, quanto più ha successo questa 'controtendenza' alla caduta del saggio del profitto, tanto più, evidentemente, si vengono a modificare le condizioni di equilibrio intersettoriali, e tanto più si allarga perciò il divario tra consumo dei produttori diretti e neovalore prodotto. Circostanze del genere rendono sempre più plausibile l'insorgere di 'sproporzioni', e sempre più improbabile che un aumento 'autonomo' degli investimenti sia in grado di impedire la crisi da realizzo.

Il processo capitalistico si trova insomma tra Scilla e Cariddi. La prima evenienza, una caduta del saggio del profitto dovuta alla lievitazione della composizione organica del capitale, sembra spiegare abbastanza bene la Grande Depressione della fine del secolo scorso, mentre la seconda evenienza, una sovraccumulazione del capitale indotta da elementi di crisi da realizzo, appare una componente essenziale per dar conto della Grande Crisi degli anni trenta di questo secolo. Pure in quest'ultimo caso si è trovata la via d'uscita dalla crisi: con la spesa bellica, con l'ulteriore estensione del consumo 'improduttivo', con l'intervento 'keynesiano' (che ha assunto esso stesso, non per colpa di Keynes, caratteri di 'improduttività')17 . La quota dei lavoratori 'produttivi', se non il loro ammontare assoluto, aveva già iniziato a decrescere nelle punte avanzate dello sviluppo. Il lavoro vivo non cessava peraltro di restare al centro del modo di produzione capitalistico. I massicci prelievi dal sovrappiù, la svalorizzazione del capitale costante, le aspettative positive degli imprenditori – tutti elementi indispensabili perché il processo di accumulazione procedesse nel nuovo regime che è stato spesso qualificato come 'fordista-keynesiano' – si fondavano sul persistente ruolo 'passivo' della classe operaia. Dalla metà degli anni sessanta alla metà degli anni settanta la congiunzione di una accentuata concorrenza infracapitalistica (tra le aree economiche americana, europea, giapponese) e di una conseguente spinta all'intensificazione del lavoro, conducevano, in presenza di una stabile 'piena occupazione', ad una crisi direttamente sociale della valorizzazione, segnata da un aumento dei salari reali in eccesso rispetto alla produttività, e dall'interruzione, temporanea ma drastica, della caduta del salario relativo.

Quanto si è appena detto a proposito della crisi è un indice del fatto che nella teoria del Marx maturo un altro approfondimento da tenere in conto riguarda il quadro della struttura di classe. Non soltanto negli scritti storici, ma nella stessa 'critica dell'economia politica' Marx abbandona la tesi del Manifesto secondo la quale lo sviluppo dell'accumulazione si accompagnerebbe a una riduzione a due delle classi. E' noto, per esempio, che una delle critiche che Marx rivolge a Ricardo è segnatamente che egli "dimentica di rilevare il continuo accrescimento delle classi medie che si trovano nel mezzo fra workmen da una parte, capitalista e landlord dall'altra", classi che, direttamente nutrite in sempre maggiore ampiezza sul reddito prodotto dai lavoratori, "gravano come un peso sulla sottostante base working e aumentano la sicurezza e la potenza sociale degli upper ten thousand" 18 . La citazione dimostra, peraltro, come l'abbandono dell'idea di una progressiva 'semplificazione' della struttura di classe non significa affatto rinunciare a dar conto della complessità sociale a partire dal confronto antagonistico tra le due classi, e da come questo antagonismo incida sulla divisione del tempo sociale. Il Manifesto lascia in eredità alla riflessione successiva proprio questa idea, che la modernità capitalistica ruota attorno a questa dualità di classe 'fondamentale', così come l'idea che esista una intrinseca dimensione politica di questo antagonismo, che della politica è certo oggetto di manipolazione. Per quanto il Marx maturo abbandoni il modo primitivo in cui questi principi orientano la sua ricerca in gioventù, soprattutto sul terreno dell'economia politica, essi rimarranno ciò non di meno al cuore della sua costruzione teorico-politica.

Marx e il capitalismo 'globale'

Il termine 'mondializzazione' designa una configurazione particolare del capitalismo nella quale il capitale, tanto industriale quanto finanziario, ha recuperato, grazie all'aiuto attivo degli stati più forti, una libertà d'azione pressoché totale.

François Chesnais, "La mondialisation du capital et ses consequences", p. 26

Cosa ha da dire il Manifesto al lettore di oggi? Una risposta diffusa a questa domanda, negli ultimi tempi, è quella che dà autorevolmente Eric Hobsbawm: "Il punto è che il mondo trasformato dal capitalismo, che egli descrisse nel 1848 in frasi di cupa e laconica eloquenza, è riconoscibile come il mondo nel quale viviamo centocinquant'anni dopo" 19 . Quale sia il mondo nel quale viviamo secondo Hobsbawm lo si ricava abbastanza bene dal suo, per molti versi ammirevole, libro di qualche anno fa, The Age of Extremes 20 L'idea portante è che a partire dagli anni settanta il capitalismo si sia 'liberato' della politica, e in grande misura anche del conflitto sociale. La rivoluzione tecnologica, nei trasporti e nelle comunicazioni, consente a partire da allora la delocalizzazione delle imprese, e infrange il nesso positivo tra accumulazione e occupazione. Il capitalismo è oramai 'transnazionale' e 'mondializzato'. La lettura alla Hobsbawm è divenuta oggi il senso comune, di cui lo storico inglese rappresenta una delle versioni più degne. Quel senso comune secondo il quale vivremmo oggi una 'inedita' globalizzazione dei mercati, della produzione e della finanza che, riducendo i livelli di occupazione, abbatte il tempo di lavoro erogato nell'area capitalistica. Se le cose stessero così, si deve dire, Marx avrebbe sicuramente colto nel segno nell'individuare le tendenze storiche di lungo periodo; egli avrebbe però al tempo stesso individuato le ragioni per le quali la 'vittoria del proletariato' era altamente improbabile, se non addirittura certamente da escludere.