Senatus Consultus de Bacchanalibus

(Luigi Marsico - Pubblicato in " Calabria, saggi di storia e di letteratura ",

Giuditta edit., Catanzaro 1975.)

Copia del senatus Consultum de Baccanalibus

(Fotografia, testo originale e traduzione)

Bacco

A Tiriolo, nell'anno 1640, mentre si scavavano le fondamenta per la costruzione del palazzo del principe Cigala, fu rinvenuta una tavola dì bronzo che portava scolpita su una delle facce una iscrizione. Si deve fondatamente ritenere che il principe non fosse all'altezza di interpretare la scrittura della tavola, si rese conto però dell'importanza di essa e, stimandola oggetto di studio che nella modesta cittadina non poteva essere fatto, l'inviò a Vienna ove i dotti del tempo avrebbero potuto decifrarla. Non si ingannò: la tavola di bronzo infatti era della massima importanza, apparteneva ad epoca romana e portava impresso un senatoconsulto del 186 a. C. che proibiva i Baccanali. Fino a pochi anni fa a Tiriolo di questo Senatoconsulto si avevano poche e confuse notizie, quelle notizie cioè trovate sulla "Grande Grecia" del Lenormant o su qualche altro libro; legittimo quindi tra le persone colte era il desiderio dì conoscere più particolareggiatamente questo cimelio romano unico della specie in tutto il mondo. E fu così che il sindaco del luogo, avv. Tommaso Paone, nel 1969, assecondando i desideri dei propri cittadini, scrisse al console italiano di Vienna chiedendogli che si adoperasse per fare avere alla cittadina un esemplare del senatoconsulto. Il Museo di Vienna, ove il prezioso cimelio era custodito e tuttora si trova, accolse la richiesta e mandò un calco in metallo di esso.

Il senatoconsulto sui Baccanali ha forma quadrangolare, i caratteri sono tutti in lettere grandi e ben visibili. La lingua è latina, ma non quella del tempo di Augusto, bensì quella del periodo arcaico, una lingua quindi che presenta notevoli difficoltà ad essere interpretata; difficoltà che sono rese più ardue dal fatto che, trattandosi di una disposizione di legge, essa è improntata ad una forma giuridica tutta particolare. Tuttavia il Senatoconsulto è stato tradotto ed il suo contenuto è quanto mai severo.

Inizia con i nomi dei due consoli che hanno consultato il Senato a proposito dei Baccanali, e con gli altri due nomi dei consoli che hanno assistito alla redazione dell'editto. Si impone in esso ai Romani e agli alleati di non tenere Baccanali. Nessuno, uomo o donna che sia, vi si dice, potrà essere capo o sacerdote dei Baccanali, nessuno dovrà essere seguace dell'associazione, è proibito unirsi e legarsi con giuramento, raccogliere danaro, promettersi aiuto reciproco. E' vietato altresì celebrare i riti sacri in pubblico, in privato e in segreto; soltanto il pretore urbano, dopo essersi consultato e avere attenuto l'assenso del Senato, potrà concedere a non più di cinque persone il permesso di celebrare un Baccanale; Per coloro che contravverranno a tali disposizioni è comminata la pena di morte. La decisione del Senato deve essere scolpita su tavole di bronzo e diffusa nei luoghi ove più facilmente potrà essere conosciuta.

Questo in sintesi il contenuto dell'editto che nella sua solennità e concisa chiarezza è di una gravità eccezionale. La pena di morte che si commina ai trasgressori denuncia una volontà irrevocabile da parte della maggiore autorità della Repubblica di porre fine ai Baccanali, per cui sorge spontanea e legittima la curiosità di conoscere che cosa precisamente essi fossero. Questa curiosità fortunatamente può essere soddisfatta: lo storico romano Tito Livio, intatti, nella IV deca della sua monumentale opera storica intitolata "Ab Urbe condita" nel libro XXXIX in dodici capitoli fa una precisa e particolareggiata narrazione dei fatti che per una piena comprensione ci sembra necessario riassumere.

Un adolescente di nome Ebuzio, racconta Livio, essendo orfano di padre viveva a Roma sotto la tutela della madre Duronia e del patrigno Rutilio. Perverso era Rutilio, disamorata nei riguardi del figlio Duronia fortemente presi l'uno dell'altro, i due in pieno accordo conducevano un tenore di vita dissipato e perciò dispendioso. Non avendo però la possibilità di potervi provvedere con mezzi propri, avevano dilapidato buona parte del patrimonio di Ebuzio. Avvicinandosi il giorno in cui avrebbero dovuto rendere conto del loro operato, per non incorrere nei rigori della legge decisero dl mettere il giovane nelle condizioni di non poter loro nuocere; e poiché non era possibile eliminarlo con la violenza, tentarono di perderlo in una maniera quanto mai subdola.

Duronia a cui più che il nome di madre si converrebbe quello di spietata noverca, un giorno chiamò a sé il figlio e, simulando una tenerezza che in realtà non sentiva, gli disse che da pusillo era stato affetto da una grave malattia che lei, nell'ansia di vederlo sano, aveva fatto voto agli Dei di iniziarlo ai riti bacchici quando sarebbe cresciuto in età. Gli Dei erano stati benevoli ed avevano ascoltato la sua preghiera e se egli era guarito, e, poiché le promesse bisogna mantenerle, era venuto ormai il momento di sciogliere il voto. "Tu Ebuzio -conoluse Duronia- per dieci giorni dovrai astenerti da relazioni sessuali, al decimo giorno farai un bagno di purificazione e ti renderai così degno di entrare nel santuario ove io ti condurrò"..

Il giovane, nulla sospettando, acconsentì a quanto la madre aveva proposto. Non tutto però va sempre per il verso voluto, e quanto Duronia aveva fatto credere al figlio si rivelò ben presto un'abile macchinazione. Ed ecco in quale maniera.

Ebuzio da diverso tempo aveva intrecciato una relazione amorosa con una certa Ispala Fecennia, che da servetta aveva esercitato la prostituzione e che, divenuta libera, aveva continuato a praticare questo mestiere che, a dire di alcuni, è il più comodo e il più antico del mondo. Poiché fortemente innamorata, la donna concedeva sue grazie al giovane senza nulla pretendere, anzi lo sovvenzionava di danaro e lo colmava di doni, sostituendosi così a quello che avrebbero dovuto fare i genitori, avari nei riguardi del figlio. Ed ancora, spinta dalla passione, era andata oltre: aveva fatto testamento a favore del suo giovane drudo nominandolo unico erede. C'erano quindi tra i due tale intimità e tanti legami di affetto che l'uno non aveva segreti per l'altra.

Avvicinandosi il giorno dell'iniziazione, Ebuzio andò a trovare Fecennia e, dopo qualche titubanza, la scongiurò di non volergli serbare rancore se per alcune notti egli avesse disertato il talamo, in quanto a ciò era costretto da motivi religiosi; invitato a specificare quali fossero questi motivi, raccontò la storia del voto e la sua prossima iniziazione ai riti bacchici.

Fecennia nel sentire queste parole rimase esterrefatta e non ebbe la forza di parlare, ma passati i primi momenti di stupore e di smarrimento, sdegnata disse al suo amante che per lui sarebbe stato meglio morire anziché entrare a far pane di una setta i cui adepti commettevano ogni genere di delitti e di turpitudini. Soggiunse ancora che lei giovinella aveva partecipato assieme alla padrona ai riti bacchici, vere e proprie orge dalle quali si usciva distrutti nel corpo e nell'anima, ma che, divenuta libera, aveva rotto con essi, che a distanza di tempo sentiva ancora l'orrore di quelle notti di nefandezze e di oscenità. Scongiurò pertanto Ebuzio di opporsi al volere della madre che evidentemente, in connivenza col patrigno, mirava alla sua rovina. Il giovane promise di ubbidire.

Trascorso qualche tempo da questo colloquio, Duronia senza che nulla avesse sospettato, chiamò il figlio alla presenza del patrigno e gli ricordò che era venuto il momento di prepararsi all'iniziazione. Ebuzio, memore di quanto aveva promesso a Fecennia, oppose un netto rifiuto. La reazione dei due fu violenta. Duronia inviperita si scagliò contro il figlio con ogni sorta di improperi, gli rinfacciò di non avere rispetto né della madre né del patrigno, gli disse che la sua condotta era la conseguenza delle lusinghe e degli incantesimi della meretrice Fecennia. Ma vane furono le minacce e ancor più vani gli allenamenti che a queste seguirono: Ebuzio rimase fermo nel suo diniego. Duronia e Rutilio allora, presi dall'ira per non aver potuto piegare il figlio al loro progetto, lo cacciarono di casa. Ciò fu la scusa della loro perdizione. Il giovane, sconvolto, si recò da una zia che si chiamava Ebuzia ed abitava sul monte Aventino, le raccontò quanto gli era successo e chiese consiglio su quello che avrebbe dovuto fare. La zia, che era vanzata in età e aveva molta esperienza della vita, suggerì al nipote di recarsi dal console Postumio e narrargli i fatti: sarebbe stata questa, a suo modo di vedere, la migliore soluzione della triste vicenda. Il giovane seguì il consiglio datogli e si recò pertanto casa di Postumio e gli raccontò tutto. Il console rimase stupefatto, ebbe dei dubbi sul racconto e, data la gravità del fatto, volendo sincerarsi sulla veridicità di esso, fece chiamare dalla suocera Sulpicia nella propria casa Ebuzia, la quale confermò il racconto del nipote. Non restava allora, per chiarire che cosa fossero i riti bacchici e per smascherare la setta che li praticava, che far venire e interrogare Ispala, Fecennia, la qualcosa il console fece senza perdere tempo.

Ispala, dietro avviso di un servo, pur non riuscendo ad immaginare che cosa da lei volesse l'illustre matrona, accorse sollecita alla casa di essa. Ma, quando all'ingresso vide schierati i littori ed il seguito del console, ebbe paura, la quale paura si tramutò in un vero e proprio panico allorché si trovò alla presenza di Postumio che le chiese di raccontargli quello che avveniva di notte nel bosco di Stimula quando si svolgevano i riti bacchici. La liberta rimase interdetta e incominciò a tremare. Sollecitata dal console e da Sulpicia a parlare opponeva che, se avesse parlato, i capi della setta dei Baccanali si sarebbero vendicati uccidendola ed ancora che aveva timore di essere punita, dall'autorità dell'Urbe.

Il console impegnò la sua parola affermando che sarebbe stata protetta dalle possibili vendette e che in nessuna punizione sarebbe incorsa.

Rincuorata da queste parole svelò i delitti e le nefandezze di cui si macchiavano gli appartenenti alla setta bacchica. Dal suo racconto pertanto il console poté apprendere questi fatti.

Dapprima al santuario, dove si svolgevano i riti bacchici, convenivano soltanto donne, le iniziazioni avvenivano tre volle l'anno. In seguito però una sacerdotessa campana, tale Pacullia Amnia, apportò radicali innovamenti, in conseguenza i riti che prima si celebravano di giorno, furono celebrati di notte, invece di tre volte all'anno le riunioni si tenevano cinque volte al mese. La cosa più grave però fu il fatto che i riti divennero promiscui, ad essi, cioè, parteciparono anche gli uomini. Il favore della notte, pertanto, e la promiscuità del sesso furono la causa per cui le riunioni degenerarono. Nel corso di esse si tenevano agapi sontuose innaffiate da abbondante vino, poi uomini e donne in preda all'ebrezza, intrecciavano danze incomposte; le donne discinte e spettinate, vestite da baccanti, agitavano fiaccole accese tra urla, grida e canti volgari. Avvenivano infine gli accoppiamenti tra uomini e donne e, cosa orribile a dirsi, anche tra gli stessi uomini, anzi gli accoppiamenti tra uomini si verificavano con più frequenza che quelli con le donne. Gli schiamazzi ed i rumori conseguenti da questo stato di frenesia venivano artatamente coperti dal crepitare delle nacchere agitate senza sosta e dal rumore dei cembali percossi in continuazione. In tale maniera nulla trapelava delle nefandezze che si commettevano. Non erano accolti nella setta gli uomini superiori ai venti anni, e ciò perché più facilmente fossero traviati e si sottomettessero allo stupro. Coloro che vi si opponevano venivano condotti in oscure spelonche ed immolati come vittime. Nei Baccanali era bandito ogni umano ritegno, ogni legge era calpestata, e naturalmente i seguaci dei mostruosi riti che ritenevano lecito l'illecito, nella vita civile non avevano scrupoli di sorta e tra di essi, quindi, si trovavano ladri, falsari, lenoni, omicidi.

Come Fecennia ebbe finito di parlare, si gettò ai piedi del console e lo scongiurò che la proteggesse e le salvasse la vita dalle eventuali vendette dei settari; il console provvide a ciò facendo accogliere la liberta nella casa della suocera Sulpicia ed Ebuzio in quella di un suo cliente. Era del resto suo interesse che i due rimanessero in vita quali testimoni. Dopo aver a questo provveduto, Postumio si preoccupò di informare il Senato dei fatti, e cioè della maniera con la quale aveva avuto notizia dei Baccanali, delle indagini da lui condotte per accertarsi della verità, del racconto di Fecennia. I senatori rimasero sbigottiti. Il pericolo che quella associazione di gente priva di scrupoli potesse sovvertire l'ordine della Repubblica si presentò loro in tutta la grayità, e poiché le violenze, gli accoppiamenti indiscriminati, gli stupri commessi violavano le leggi umane e divine, i padri coscritti decisero di prendere immediati e drastici provvedimenti che ponessero fine a tali nefandezze. Ordinò quindi il Senato che si facessero ricerche per identificare i sacerdoti e le persone che partecipavano ai Baccanali, e non solo nella cerchia dell'Urbe, ma anche in tutta Italia; premi furono dati a coloro che, mediante delazione, facilitarono la scoperta degli affiliati alla setta, i quali tra uomini e donne, assommavano al numero di 7.000. A Roma i capi erano Marco e Gaio Atinio, due plebei della stessa città, Lucio Opiterio diFaleri e Minio Cerrino della Campania. Tutti vennero processati e, secondo la gràvità delle loro colpe, furono condannati a morte o incarcerati; i templi, sentine di vizi e di delitti, furono rasi al suolo. Roma in seguito a questi provvedimenti tu presa dal terrore, molti colpevoli per sfuggire la morte o per evitare il carcere abbandonarono la città e si rifugiarono in terre lontane. Acciocché non si tenessero più Baccanali fu proibita qualsiasi festa in onore di Bacco, eccezionalmente si permetteva di farne qualcuna dietro autorizzazione del Senato ed a condizione che non vi partecipassero più di cinque persone. Fu gncora ordinato agli Edili della Plebe di tenere sotto sorveglianza le case dei vari quartieri della città, di giorno e di notte, affinché non si tentasse di fare ancora quanto era stato proibito. Il Senato infine emanò un editto che, pena la morte, vietava i Baccanali. Questo editto, trascritto su tavole di bronzo, tu diffuso in tutta Italia per essere affisso in quelle località dove più facilmente poteva essere conosciuto.

E così i Baccanali furono estirpati. Roma aveva saputo ben difendere la integrità dello Stato che si fonda principalmente sul buon costume, sull'ordine, sul rispetto delle leggi.

I Baccanali furono la degenerazione delle feste bacchiche le quali, da semplici cerimonie improntate ad allegria, diventarono col tempo riunioni rumorose, forsennate, sensuali. La regione ove questo mutamento avvenne per prima fu la Tracia: uomini e donne, dopo abbondanti libagioni di vino, in preda all'ebrezza, si abbandonavano ad atti incomposti, a danze sfrenate con urli e grida ai quali si univano i rumori frenetici ed assordanti dei flauti, dei timpani e dei piatti di rame. Quando l'eccitazione giungeva al parossismo, tra uomini e donne avvenivano gli accoppiamenti i quali più che atti di amore erano bestiali congiungimenti.

La Grecia inizialmente ignorò queste orge. Le feste bacchiche erano improntate a semplicità; consistevano infatti nel portare in processione un'urna colma di vino, inghirlandata da tralci di vite; dietro seguiva un capro ed un uomo con in mano un cesto di fichi. Nel corso del rito si libava in onore del nume moderatamente, cioè quanto bastava a suscitare spensierata allegria. Col tempo il malcostume dalla Tracia si propagò in Grecia, specie nell'Attica, e le feste bacchiche si tramutarono anche qui in Baccanali. Dall'Attica i Baccanali furono importati nella Magna Grecia e dalla Magna Grecia in Etruria.

A Roma inizialmente le feste in onore di Bacco nulla avevano a che vedere con i Baccanali; venivano chiamate Liberalia (il nume aveva anche il nome di Liber), si celebravano il 17 marzo con banchetti in campagna o con rappresentazioni teatrali in città. In questo giorno i giovani che avevano compiuto i 17 anni indossavano la toga virile e venivano festeggiati in famiglia dai genitori, dai parenti e dagli amici. Ma in un periodo che noi sconosciamo i Baccanali dall'Etruria furono introdotti nell'Urbe ove, data la grandezza della città, per lungo tempo poterono essere celebrati senza che alcuno ne venisse a conoscenza. Nel 186 a. C. però furono scoperti alla maniera che abbiamo narrato.

Roma, per concludere, si dimostrò spietata verso i partecipanti ai Baccanali. Non è da pensare che questo suo atteggiamento fu dettato da principi morali riguardanti il sesso; sappiamo bene in quale maniera il popolo romano concepiva l'amore, come l'esaltò, come lo cantò in poesia. Roma fu rigida e intransigente al riguardo per una non giustificata preoccupazione di eventuali sovvertimenti sociali a cui i settari avrebbero potuto dare origine. Non erano però gli adepti alle sette bacchiche che avrebbero potuto sovvertire l'ordine dello Stato; si trattava di una torma di degenerati ubriaconi. Tuttavia prevenire il peggio è cosa da saggi, ed a questa saggezza Roma dovette la sua grandezza ed il lungo impero.

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