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La "Elettra" di Sofocle.

 

La tragedia senza tragico.

Le "Coefore" di Eschilo rappresentavano l'evento centrale della trilogia che narrava il mito degli Atridi, il matricidio commesso dai due fratelli Elettra ed Oreste. Ma se nell'opera del suo predecessore il senso tragico era reso con molta efficacia concentrando l'attenzione sul personaggio di Oreste, nella "Elettra" di Sofocle questa concentrazione si sposta evidentemente sulla sorella, che mostra tutta la sua determinazione a voler porre fine agli abusi subiti da parte della madre Clitennestra e del suo amante Egisto, dopo che questi hanno ucciso suo padre Agamennone. Il matricidio diviene qui una conseguenza inevitabile, non costituisce più il fulcro problematico della tragedia: in questo senso diciamo che l'opera di Sofocle è una "tragedia senza tragico". Ma quali sono le ragioni che spingono Elettra a desiderare così ardentemente la morte della madre? Ci troviamo ancora di fronte ad una vendetta commessa per adempiere alla volontà di un dio, per rendere giustizia al padre defunto?

Pare proprio di no. Elettra è ritratta da Sofocle con straordinaria profondità psicologica, il suo disagio di fronte ad una libertà che le è stata sottratta dal dispotico Egisto ed alla meschinità della madre, sfocia in un odio incontenibile che la porterà alla vendetta senza che questo le provochi rimorso o la macchi di una qualche colpa. Ma questo va inevitabilmente a scontrarsi con una morale che non accetta più la vendetta, con una società che condanna il delitto e le intenzioni con le quali è stato compiuto: questa incompatibilità tenta di essere risolta offrendo un quadro completo della situazione in cui si trova Elettra dopo la morte del padre, in cui il matricidio è l'unica possibilità per potersi riappropriare del proprio destino, della propria libertà. Ma questa volontà disperata di appropriarsi del proprio destino non è forse una condizione comune a tutti gli uomini ?

L'esistenza non è, forse, una continua lotta contro coloro che ostacolano questo raggiungimento ?

Nell'Atene democratica, in cui il "kràtos" è appunto nelle mani della collettività, non c'è spazio per l'individualismo dei personaggi di Sofocle, non è ammessa la realizzazione di una felicità al di fuori di una morale assoluta e generale.

Il dramma si apre con il contrasto tra Elettra e Clitennestra, mettendo in evidenza l'origine del tutto umana del desiderio di vendetta di Elettra, spogliandolo da qualsiasi implicazione metafisica. Il punto culminante dell'azione è però il riconoscimento tra Elettra ed Oreste, allorché questi torna a Micene in incognito, quando tutti, alla reggia, lo credono morto durante una corsa di cavalli. I due fratelli parlano senza riconoscersi subito, e il nelle loro battute cresce gradualmente la tensione drammatica, provocando così la "sympàtheia" del pubblico per i loro sentimenti.

OR.: Non pronunziare voci di malaugurio; tu piangi senza motivo.

EL.: Senza Motivo? Ma se mio fratello è morto...

OR.: Questa parola non devi dirla.

EL.: Tanto sono indegna del morto ?

OR.: Tu non sei indegna di nessuno; ma l'urna non è tua.

EL.: Ma questo che reggo non è il corpo di Oreste?

OR.: Oreste qui è un nome, un sogno.

EL.: e dov'è allora la tomba di Oreste ?

OR.: Non esiste: di un vivo non esiste la tomba.

EL.: Ma che dici, figliolo ?

OR.: Non altro che il vero.

EL.: Allora egli vive.

OR.: Almeno, se io respiro.

EL.: Allora tu sei Oreste ?

OR.: Osserva questo sigillo di mio padre, e vedrai se dico il vero.

EL.: Oh, il più bello dei miei giorni.

OR.: Il più bello, sì.

EL.: O voce amata, sei giunta a me.

OR.: Sì, sono giunto.

EL.: Ti tengo fra le braccia.

OR.: Sempre così mi terrai.

EL.. O donne carissime, o donne della mia città; guardate: Oreste è qui. Era morto per un'astuzia ed è vivo per un'astuzia.

(Sofocle, Elettra,vv. 1211-1228, trad. di Enzio Cetrangolo)

Anche se il pubblico conosce già la vera identità dei personaggi, il pathos è reso dalla struttura ritmica stessa della scena: questo alternarsi di battute brevi ma dense di significato emotivo, la cui lunghezza supera raramente quella di un solo verso , questa eleganza e purezza espressiva coinvolgono più di qualsiasi altro artificio drammatico. Una particolare struttura della scena teatrale che permise a Sofocle di contenere, nelle sue opere, quel succedersi di avvenimenti e sensazioni che caratterizza l'esistenza, nella vita reale. L'azione dell'eroe non è più determinata dal divino, ma proviene direttamente dalla sua interiorità.

Euripide: la tragedia secondo la ragione umana.

Che la tragedia di Euripide, ultimo dei tre tragici, risenta del clima particolare nel quale era immersa la Grecia dopo la costituzione della lega Delio-Attica e l'avvento dell' "illuminismo" sofistico, appare evidente soprattutto se si considerano i numerosi e non sempre felici tentativi di innovazione che Euripide azzardò nelle sue opere, per adeguare il genere e i temi della tragedia ad esigenze e problematiche molto diverse rispetto a quelle con cui si confrontarono Eschilo e Sofocle.

Il suo distacco rispetto ai modelli precedenti venne interpretato dai suoi contemporanei come un tentativo di stravolgere la tragedia, mentre per Nietzsche sancì la fine della tragedia come conseguenza inevitabile rispetto ad una società mutata.

Il ruolo dell'intellettuale non era più quello di interprete di una mentalità diffusa e universalmente condivisa, ma spesso era invece quello di "rompere" con una società dal fragile equilibrio, che preferiva adeguarsi a convenzioni piuttosto che porsi criticamente di fronte al problema degli emarginati, delle donne e degli schiavi. Coerentemente con il suo atteggiamento critico rispetto ai comportamenti umani, che Euripide ritiene essere guidati esclusivamente dalla ragione, si pone il tono polemico dell'Elettra in cui il matricidio è denunciato come un'orrenda crudeltà. E se da un lato era necessario che Clitennestra morisse, dall'altro era ingiusto. L'eroismo di Elettra ed Oreste sembra qui svanire sotto il peso dell'enorme responsabilità che comporta il loro gesto.

Una limitazione che caratterizza anche il personaggio di Ifigenia nell'Ifigenia in Aulide, in cui il dramma del sacrificio necessario della figlia di Agamennone non conosce via di scampo dalla condanna del rimorso e dell'inquietudine, ed acquista un tono patetico soprattutto nell'invocazione, da parte della vergine, della pietà del padre:

"Ecco, alle tue ginocchia stringo il mio corpo, che è nato da te: non farmi morire prima del tempo! E' dolce fissare gli occhi nella luce: non costringermi a vedere il buio di sotterra. Sono stata la prima a chiamarti padre, e me per prima tu hai chiamato figlia. Per prima ho posto il mio corpo di bambina sulle tue ginocchia, e tante carezze ti ho dato, tante ne ho avute da te. Allora queste erano le tue parole: "Piccola mia, avrò la gioia di vederti felice nella casa di un marito, di sapere che vivi nella prosperità che spetta al mio sangue?" (...) Quei nostri dolci discorsi io conservo nella memoria: ma tu hai dimenticato tutto, e vuoi che io muoia." (vv.1214-1225,1231-32,trad.D.Del Corno).

Lo spostamento dell'attenzione dello spettatore dalla dimensione eroica del mito all'intimità degli affetti famigliari, che risultano più "vivi" se evocati nel loro esprimersi coi discorsi di ogni giorno, coi gesti comuni ad ogni famiglia nella sua vita privata, ha qui l'intento di commuovere e suscitare nello spettatore un profondo senso di rifiuto per la tragedia che sta per compiersi: una tragedia assurda, perché nega la vita.

"La cosa più bella per gli uomini è vedere la luce del sole, dall'altra parte non c'è nulla. E' pazzo chi desidera morire: vivere male è meglio che morire bene." (vv.1249-1252; trad.cit.)

Dalla convinzione profondamente radicata in Euripide del fatto che la vita sia una catena di fatti inspiegabili, irrazionali, che malgrado i disperati tentativi di cambiare il corso degli eventi portano a conseguenze drammatiche, nasce un pessimismo molto ben evidente in Oreste, che non ha nulla a che vedere con la tradizione precedente, né sul piano della trama, che viene stravolta da una serie di eventi inverosimili e inaspettati, né sul piano del significato profondo dell'opera. La trama è in gran parte estranea al mito, ma è frutto dell'invenzione dello stesso Euripide, che sovraccarica la sceneggiatura di colpi di scena, personaggi, matrimoni piazzati alla fine del dramma con la pretesa di ricostituire un universo famigliare oramai disgregato da personaggi impulsivi e trascinati dagli eventi, (secondo un tòpos che ritroveremo addirittura nei Malavoglia di Verga), situazioni senza sbocco che ci offrono un'immagine della vita come un misterioso caos.