Nella letteratura greca compare spesso un riferimento alle muse, un’invocazione alle dee delle arti, figlie di mnemosune, sia nei proemi, sia nel corso delle opere medesime, che diverrà un topos letterario per gli scrittori successivi.
Naturalmente
nel corso del tempo il significato che ha assunto questa invocazione e il
contesto in cui è stata inserita sono mutati, assumendo sfumature diverse, a
seconda del periodo e dell’autore.
Le
prime e le più celebri invocazioni alle muse sono quelle dei poemi omerici,
l’Iliade e l’Odissea. Nei proemi delle due opere, infatti, si invocano le muse,
figlie di mnemosine, la depositaria della memoria collettiva; ma nell’Iliade vi
è un’ispirazione totalmente passiva, la musa, chiamata in modo generale qera , canta attraverso il poeta
che mantiene l’assoluto anonimato, nascondendosi dietro questa figura con una
funzione educativa. Nell’Odissea invece si ha un’evoluzione, una presa di
coscienza maggiore da parte del poeta che si inserisce nel proemio con un moi : “Andra moi
ennepe, Mousa”;
incomincia un processo di interiorizzazione della poesia che proseguirà col
passare del tempo ( si arriverà a Virgilio con “io canto”) : vi è sempre la
figura centrale della divinità da cui proviene l’arte poetica, ma si inizia a
delineare anche l’uomo. Si assiste così ad una sorta di sdoppiamento del poeta:
da una parte c’è l’aedo investito dalla divinità che si impadronisce di lui ( qeiamania
) , l’aedo
indovino cieco dotato di memoria mantica, e poi c’è l’uomo che canta
autonomamente ciò che gli detta il cuore, distinguendosi dalla divinità.
L’invocazione
perciò nei due poemi non è ancora un topos, una formula utilizzata di norma per
tradizione nel genere epico, ma ha la funzione di chiarire la provenienza
divina della poesia.
Nella
Teogonia la concezione del ruolo del poeta e della poesia si sono evolute
tant’è vero che il poeta, Esiodo, utilizza le Muse per oggettivare un processo
mentale; rompe l’impersonalità della dizione omerica nominandosi e vantandosi
di una investitura poetica che lo distingue
dagli altri aedi-pastori, al servizio dei potenti. Egli,
autosufficiente, può scegliere l’argomento del canto che la Muse gli hanno
insegnato: non è un creatore, ma il portatore scelto di determinati nella
società, il portatore della verità, che lui ha saputo distinguere dalle
menzogne a differenza degli altri aedi.
Anche
nelle “Opere e giorni” le muse sono un espediente per dare autorevolezza al
canto; le figlie di Mnemosine che con il loro canto danno fama, hanno qui un
rapporto più umano, più personale: esse hanno scelto il poeta e gli hanno
parlato, non si sono imposte dall’alto, ma hanno avuto un rapporto con il
poeta.
Esiodo
consapevolmente si serve delle Muse per garantire la veridicità del suo
messaggio, si è passati, infatti, con Esiodo, dalla poesia epica che narra le
gesta -erga- alla poesia lirica, che
permette al poeta di esprimere la sue opinioni sul mondo e sulla società.
Con
Solone nell’Elegia alle muse si raggiunge una consapevolezza maggiore: non sono
state le Muse a prendere l’iniziativa di parlare all’uomo o di dare
l’investitura, ma è l’uomo stesso che si rivolge loro, non come servo, ma con
un invito ad ascoltare la sua richiesta di ottenere fama e celebrità e di poter
trasmettere la verità con il consenso di quelle depositarie della memoria e
della verità collettiva. Le Muse sono infatti le garanti della giusta relazione
che si instaura tra gli uomini
Ma
Solone fa anche riferimento a un canto diverso, non didattico: al canto che dà
i mezzi di sostentamento: “un altro li procura avendo appreso i doni delle Muse
dell’olimpo e conoscendo la tecnica dell’amabile poesia” –come i pastori
esiodei schiavi dei propri ventri-
Archiloco
ci informa solamente del fatto che lui conosce “l’amabile dono delle Muse”, che
è partecipe della stessa dote delle divinità, ma non specifica come ne è venuto
a conoscenza; l’arte del canto è un’abilità propria condivisa sia dalle Muse
sia dal poeta.
Il
poeta conosce - verbo hpistamai - , non è in preda a una mania , a una alienazione. È
ancora ispirato dal dio, che però non è più la Musa, ma è Dioniso, la divinità
nuova simbolo di un rapporto individuale e di una espressione del singolo. Il
poeta ebbro, infatti, è l’esarca, colui che intona per primo il canto; è colui
che sa e vede l ”ulteriore”, una realtà
alternativa allucinata; diversa dalla realtà didattica della esortazione
soloniana a un determinato comportamento sociale.
Solone
con la sua parenesi è legato a una letteratura paideutica, che insegna (
Aristofane disse che “per i fanciulli ci sono i maestri, per gli adulti i
poeti”), Archiloco, invece, inventa un io letterario; il suo “io”
autobiografico diventa collettivo.