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Gabriele Argento IIIA

Anno scolastico 1999/2000

 

 

 

 

 

 

Giacomo Leopardi

e il

Romanticismo

 

 

 

Il Romanticismo

 

 

Il Romanticismo si sviluppò nell’800 in Germania, ma prese forma soprattutto in Italia. Questo movimento presentava come ideali la lotta per la libertà dallo straniero e per l’unità nazionale. Quindi, era facile che in Italia si sviluppasse, dato che il Paese era diviso e sottomesso a numerose potenze straniere. Quando Napoleone cedette il Veneto all’Austria con il trattato di Campoformio, tutti gli italiani rimasero delusi. Infatti, tutta la fiducia del popolo era riposta in Napoleone. Uno degli italiani delusi fu Ugo Foscolo, il quale scrisse "Le ultime lettere di Iacopo Ortis", in cui spiegò tutto il suo dolore parlando appunto di quell’avvenimento.

Il Romanticismo prese forma in due generi: la Poesia e il Romanzo. Attraverso il romanzo, lo scrittore poteva raccontare storie complesse con molti personaggi. Nella poesia, invece, il poeta cercava di colpire il lettore, suscitando in lui forti emozioni.

Un elemento molto importante che si sviluppò nel Romanticismo fu l’idea di tornare a riscoprire e a valorizzare il passato medievale, in contrapposizione alla corruzione della modernità, con ideali atei, illuministi e cosmopoliti.

Alcuni poeti e letterati furono: Shelley e Byron, Jane Austen, Victor Hugo; mentre altri autori italiani furono: Manzoni, Foscolo, Verdi, Bellini e Leopardi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vita di Giacomo Leopardi

 

 

Giacomo Leopardi nacque a Recanati, nelle Marche, nel 1798.

Egli passò una vita molto solitaria e difficile. Aveva un padre chiuso e tradizionalista, che voleva fare di suo figlio un bambino prodigio. La sua formazione fu orientata agli studi classici e umanistici. A 15 anni scrisse le sue prime opere, e a 18 quaderni di appunti, in cui esprimeva i suoi stati d’animo: lo "Zibaldone".

Intanto, entrava a far parte del mondo degli intellettuali; scrisse le sue prime poesie e progettò la fuga dall’ambiente chiuso della sua famiglia e dal paesino. Il tentativo fu scoperto dal padre, e la situazione per Leopardi diventò ancora più insostenibile. In questo periodo scrisse "L’infinito" e "La sera del dì di festa".

Nel 1822 ottenne di andare a Roma presso un suo zio, dove sperava di diventare bibliotecario. Al suo ritorno a casa si ammalò, e scrisse le "Operette morali".

Dal 1825 riuscì ad andare a Milano, poi a Bologna e a Firenze, grazie ai suoi lavori editoriali. Era molto apprezzato come poeta, e la sua raccolta "Canti" fu accolta come un capolavoro. Ma il grande pubblico non lo apprezzava, perché poeta difficile. Alla ricerca di un clima mite per la sua salute, si trasferì a Napoli con l’amico Ranieri, e qui morì nel 1837.

 

 

A Silvia

 

 

 

Silvia rimembri ancor

Quel tempo della tua vita mortale,

Quando beltà splendea

Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,

E tu, lieta e pensosa, il limitare

Di gioventù salivi?

 

Sonavan le quiete

Stanze, e le vie d’intorno,

Al tuo perpetuo canto,

Allor che all’opre femminili intenta

Sedevi, assai contenta,

Di quel vago avvenir che in mente avevi.

Era il maggio odoroso: e tu solevi

Così menare il giorno.

 

Io gli studi leggiadri

Talor lasciando e le sudate carte,

Ove il tempo mio primo

E di me si spendea la miglior parte,

D’in su i veroni del paterno ostello

Porgea gli orecchi al suon della tua voce,

Ed alla man veloce

Che percorrea la faticosa tela.

Mirava il ciel sereno,

Le vie dorate e gli orti,

E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.

Lingua mortal non dice

Quel ch’io sentiva in seno.

 

Che pensieri soavi,

Che speranze, che cori, o Silvia mia!

Quale allor ci apparia

La vita umana e il fato!

Quando sovviemmi di cotanta speme,

Un affetto mi preme

Acerbo e sconsolato,

E tornami a doler di mia sventura.

O natura, o natura,

Perché non rendi poi

Quel che prometti allor? Perché di tanto

Inganni i figli tuoi?

 

 

 

Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,

Da chiuso morbo combattuta e vinta,

Perivi, o tenerella. E non vedevi

Il fior degli anni tuoi;

Non ti molceva il core la dolce lode or delle negre chiome,

Or degli sguardi innamorati e schivi;

Né teco le compagne ai dì festivi

Ragionavan d’amore.

 

Anche peria fra poco

La speranza mia dolce: agli anni miei

Anche negaro i fati

La giovanezza. Ahi come,

Come passata sei,

Cara compagna dell’età mia nova,

Mia lacrimata speme!

Questo è quel mondo? Questi

I diletti, l’amor, l’opre, gli eventi

Onde cotanto ragionammo insieme?

Questa la sorte dell’umane genti?

All’apparir del vero

Tu, misera, cadesti: e con la mano

La fredda morte di una tomba ignuda

Mostravi di lontano.

 

 

 

 

 

Parafrasi

 

 

Silvia, ricordi ancora quando eri in vita

Quando la tua bellezza splendeva, nei tuoi occhi ridenti e schivi,

e tu lieta e pensierosa ti apprestavi al passaggio dall’adolescenza alla maturità.

 

Suonavano le stanze tranquille e le strade al tuo continuo canto,

quando tu eri intenta ai lavori femminili, sedevi contenta per il tuo avvenire ancora da definire.

Era Maggio e tu eri abituata a lavorare.

 

Talvolta lasciavo gli studi piacevoli e quelli faticosi su cui trascorrevo la mia adolescenza e veniva spesa la migliore parte di me.

Dalle stanze e dai balconi della casa paterna io ascoltavo la tua voce. E ti immaginavo lavorare con fatica alla tela.

Guardavo il cielo sereno, le vie illuminate, e la campagna intorno,

Da questa parte il mare e dall’altra parte le colline.

Non ci sono parole giuste per esprimere i sentimenti che provavo nel mio cuore.

 

Che bei pensieri,

che speranze, che cuori, o Silvia mia!

Come ci sembrava allora la vita umana e il destino!

Quando mi ricordo di tanta speranza

Un sentimento molto forte mi opprime e torno a dolermi della mia sfortuna.

O natura, o natura, perché non mantieni le tue promesse? Perché ci inganni?

 

Prima che giungesse l’inverno, venivi uccisa da un dolore forte e morivi o tenerella, e non vedevi la tua adolescenza.

Non ti struggeva il cuore, le lodi dei ragazzi per i tuoi capelli neri ora dei tuoi sguardi innamorati e schivi.

E con te le tue amiche non parleranno d’amore durante i giorni di festa.

 

Anche la mia speranza morì poco tempo dopo: anche a me il destino ha negato la giovinezza. Ahi come sei passata cara compagna della mia infanzia, mia compianta speranza!

Questo è quel mondo? Sono questi i divertimenti, l’amore, le opere, gli eventi di cui abbiamo tanto discusso insieme?

E’ questa la sorte degli esseri umani? All’apparire della verità tu moristi: e con la mano indicavi da lontano la fredda morte ed una tomba spoglia.

 

 

 

Commento

 

 

Questi versi sono dedicati a Silvia, fanciulla in cui si può riconoscere Teresa Fattorini, vicina di casa dei Leopardi, morta giovanissima di tubercolosi.

Questo poema, che si potrebbe scambiare per una dichiarazione d’amore, è in realtà un’amara riflessione sulla vita e sulla giovinezza.

Il poeta spiega come all’illusione e alla speranza degli anni giovanili si sostituiscano, nell’età adulta, il disincanto e l’amarezza per le sofferenze che la vita impone.

Per meglio definire il distacco tra l’adolescenza e l’età adulta, Leopardi divide il poema in due parti: nella prima descrive la spensieratezza della gioventù (Silvia canta, ricama, è "lieta"); nella seconda alla descrizione si sostituisce la riflessione sulla morte di Silvia, e, più in generale, sulla distruzione della speranza e sulla disillusione dell’uomo adulto.

 

 

 

 

 

 

 

 

L’infinito

 

 

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

E questa siepe, che da tanta parte

Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interiminati

Spazi di là da quella, e sovraumani

Silenzi, e profondissima quiete

Io nel pensier mi fingo; ove per poco

Il cor non si spaura. E come il vento

Odo stormir tra queste piante, io quello

Infinito silenzio a questa voce

Vo comparando: e mi sovvien l’eterno:

E le morte stagioni, e la presente

E viva, e il suon di lei. Così tra questa

Immensità s’annega il pensier mio:

E il naufragar m’è dolce in questo mare.

Parafrasi

 

 

Mi è caro questo colle solitario e questa siepe che l’orizzonte esclude.

Ma quando mi siedo e osservo spazi interinati e silenzi, in tutta quella quiete, mi nascondo nei pensieri, e il cuore si spaventa.

E come il vento soffia tra gli alberi, io penso a questo silenzio infinito, e ricordo il tempo passato e quello presente e vivo e il suo rumore; Così, in questa immensità il mio pensiero affonda: e naufragare in questo mare sterminato è dolce.

 

 

Commento

 

 

Questi versi sono un richiamo ad un Romanticismo più "europeo"; infatti la contemplazione della natura è un elemento ricorrente nelle letterature tedesca, inglese e francese di quegli anni, ma è pressoché assente nel Romanticismo italiano, forse più teso al patriottismo e agli ideali liberali.

Il poeta si trova sulla sommità di una collina e osserva il cielo, soffermandosi a riflettere sul paesaggio che lo circonda e sugli elementi della natura; ecco allora che il rumore del vento riporta alla mente il suono degli anni che passano, e che l’immensità che avvolge l’autore è come una marea che travolge il suo corpo e il suo spirito.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il sabato del villaggio

 

 

La donzelletta vien dalla campagna,

In sul calar del sole,

Col suo fascio dell’erba; e reca in mano

Un mazzolin di rose e di viole,

Onde, siccome suole,

Ornare ella si appresta

Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.

Siede con le vicine

Su la scala a filar la vecchierella,

Incontro là dove si perde il giorno;

E novellando vien del suo buon tempo,

Quando ai dì della festa ella si ornava

Ed ancor sana e snella

Solea danzar la sera intra di quei

Ch’ebbe compagni dell’età più bella.

Già tutta l’aria imbruna,

Torna azzurro e sereno, e tornan l’ombre

Giù da colli e da tetti,

Al biancheggiar della recente luna.

Or la squilla dà segno

Della festa che viene;

Ed a quel suon diresti

Che il cor si riconforta.

 

I fanciulli gridano

Su la piazzuola in frotta,

E qua e là saltellando,

Fanno un lieto rumore

E intanto riede alla sua parca mensa

Fischiando, il zappatore,

E seco pensa al dì del suo riposo.

 

Poi quando intorno è spenta ogni altra face,

E tutto l’altro tace,

Odi il martel picchiare, odi la sega

Del legnaiuol, che veglia

Nella chiusa bottega alla lucerna,

E s’affretta, e s’adopra

Di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.

 

 

 

 

 

 

 

Questo di sette è il più gradito giorno,

Pien di speme e di gioia:

Diman tristezza e noia

Recheran l’ore, ed al travaglio usato

Ciascuno in suo pensier farà ritorno.

 

Garzoncello scherzoso,

Cotesta età fiorita

E’ come un giorno di allegrezza pieno,

Giorno chiaro, sereno,

Che precorre alla festa di tua vita.

Godi fanciullo mio; stato soave

Stagion lieta è codesta.

Altro dirti non vò, ma la tua festa

Ch’anco tardi a venir non ti sia grave.

 

 

 

 

 

 

 

Parafrasi

 

 

La ragazza torna dalla campagna al tramonto con il fascio di erba da dare agli animali. Torna anche con un mazzo di rose selvatiche, dato che si vuole ornare il petto e i capelli per il giorno di festa.

Davanti alla porta di casa siede con le vicine un’anziana con lo sguardo rivolto al sole che tramonta.

Racconta la sua giovinezza, quando al giorno di festa si abbelliva e, ancora sana e snella, era solita ballare quelle sere con tutti gli amici.

Già il cielo si scurisce e si tinge di blu e tornano le ombre giù dalle colline e dai tetti alla luce della luna appena sorta.

Il suono di una campana dà il segno della festa che inizia e, a sentire quel suono, il cuore si conforta.

 

I bambini gridano nella piazza, e saltano qua e là, fanno un rumore bello, e intanto alla tavola imbandita poveramente lo zappatore che pensa al suo giorno di riposo.

 

Poi, quando tutte le luci sono spente, e tutto tace, senti ancora il falegname lavorare per ultimare il lavoro da consegnare l’indomani.

 

Il sabato è il giorno più bello pieno di speranza e gioie; domani ci saranno tristezza e noia e si penserà al lavoro abituale.

 

Ragazzo allegro, questa età fiorita è come un giorno di primavera, che precede la giovinezza.

Fanciullo, apprezza questa tua età soave.

Non voglio dirti altro, ma la tua età, anche se tardi a venire, non ti pesi.

 

 

 

 

 

 

 

 

Commento

 

 

Questa poesia descrive i momenti che precedono il giorno della festa.

Leopardi prende spunto da questa rappresentazione della realtà per fare una riflessione sulla vita e, in particolare, sulla giovinezza: egli paragona così la sua adolescenza a quella della ragazza, fresca e spensierata; alla fanciulla fa contrasto la vecchietta, immersa non solo nel suo lavoro, ma anche nel ricordo della propria gioventù.

L’ultima strofa è dedicata all’infanzia; Leopardi associa la giovinezza alla giornata del sabato, piena di speranze e aspettative per il giorno dopo, e l’età adulta alla domenica, che è una giornata noiosa e stanca.

 

 

 

 

 

Commento generale sulle poesie di Leopardi

 

 

Ho amato molto queste poesie, soprattutto per la descrizione delle cose semplici, che il poeta trasforma in momenti di riflessione e di amara constatazione della vita. Quello che ho maggiormente apprezzato, inoltre, è il contatto spirituale che Leopardi instaura con la natura, che crea in lui sensazioni molto forti, e che egli trasmette a noi con la stessa intensità.

La poesia che ho studiato più volentieri è stata "L’infinito"; mi sono piaciute in particolar modo l’intensità evocativa delle immagini, e la sensazione realistica dell’immensità.