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 Questione della lingua

 

Dibattito sulle caratteristiche della lingua letteraria italiana, sviluppatosi in Italia dal Trecento ai giorni nostri. La questione è strettamente legata alla storia della lingua italiana, e in particolare alle sue origini dal dialetto fiorentino (vedi Dialetti italiani), nobilitato e impostosi come lingua comune della penisola soprattutto grazie all'opera di Dante, Petrarca e Boccaccio.

Nel De vulgari eloquentia Dante fissò le regole dell'uso letterario del volgare: la questione si poneva per lui non tanto nell'esigenza di individuare un dialetto che fosse in sé migliore degli altri, ma nella creazione, mediante raffinamento, di una lingua "illustre", "cardinale" (in quanto cardine attorno al quale ruotano tutti gli altri dialetti), "aulica" e "curiale" (ossia degna di una corte e di un tribunale). Dante tuttavia vedeva nella frammentazione politica d'Italia un ostacolo insormontabile alla creazione di questa lingua.

Dopo il ritorno al latino promosso dall'umanesimo, il problema tornò di attualità tra la fine del Quattrocento e il Cinquecento. Si fronteggiarono allora tre correnti principali.

La corrente detta "cortigiana", che trovò i maggiori sostenitori in Vincenzo Colli, Baldassarre Castiglione e Gian Giorgio Trissino (autore anche di un progetto di riforma dell'ortografia), si ispirava a un ideale di lingua eclettico, come l'idioma usato nelle corti italiane dell'epoca, in cui, su una base genericamente toscana, si inserivano parole e costrutti mutuati da altre parlate italiane o di altri paesi (soprattutto il provenzale), purché raffinati e "aventi qualche grazia nella pronuncia" (Castiglione).

La corrente fiorentina, sostenuta fra gli altri da Niccolò Machiavelli, Pierfrancesco Giambullari e Benedetto Varchi, proponeva l'adozione del fiorentino come era parlato all'epoca. Ci fu una variante senese, rappresentata soprattutto da Claudio Tolomei, per il quale la lingua viva da prendere a modello era la parlata di Siena.

La corrente arcaizzante, detta poi "bembismo", ebbe il suo maggior rappresentante in Pietro Bembo, che nelle Prose della volgar lingua (1525) si oppose all'ipotesi di fondare l'italiano sull'uso linguistico comune delle corti rinascimentali, la cosiddetta "lingua cortigiana", perché non si può, affermava, considerare vera lingua letteraria una parlata che non sia nobilitata dall'opera di grandi scrittori. Per lo stesso motivo si dichiarò contrario all'adozione del fiorentino parlato, perché non era lingua abbastanza elaborata. Propose dunque l'adozione della lingua fiorentina del Trecento, in particolare quella di Petrarca per la poesia e quella di Boccaccio per la prosa; Dante non venne considerato sufficientemente esemplare, perché aveva accolto nella Divina Commedia voci provenienti da dialetti o lingue diverse.

L'opera di Bembo ebbe immediata risonanza e decretò il successo della corrente arcaizzante, che divenne preponderante dalla metà del secolo (lo stesso Varchi l'abbracciò intorno al 1560) grazie anche all'opera di Leonardo Salviati e alla fondazione dell'Accademia della Crusca (nel 1612 uscì il Vocabolario degli Accademici della Crusca, considerato sino all'Ottocento la massima autorità in fatto di lingua).

La lingua letteraria italiana si avviò dunque sui binari dell'arcaismo e del preziosismo, staccandosi dalla lingua d'uso quotidiano, per il quale si continuarono a utilizzare i dialetti. Non mancarono comunque voci contrarie; in particolare durante l'illuminismo si criticò l'eccessiva astrattezza e complicazione della lingua, proponendo come modello la chiarezza del francese.

Fu la conquista napoleonica a riaccendere le polemiche sulla lingua, che continuarono per tutto il secolo XIX, quando dopo l'unificazione e la nascita del regno d'Italia si rese necessaria una lingua per lo stato, per la scuola e l'amministrazione. Accanto a una corrente purista, rappresentata da Antonio Cesari, si affermò la posizione di Alessandro Manzoni, sostenitore della lingua fiorentina dell'epoca, d'uso colto, e quindi non più del solo modello della letteratura del Trecento. Esempio pratico di tale proposta fu la seconda edizione dei Promessi sposi (1840), radicalmente rivista secondo tali termini. Autorevole voce contraria fu Graziadio Ascoli: la soluzione del problema, sostenne, non sta nell'adozione di una norma piuttosto che un'altra, ma nell'incrementare gli studi e l'attività intellettuale del popolo, per portarlo a comprendere la lingua della scienza e dell'amministrazione.

Il secolo attuale vede l'affermarsi dell'italiano in tutti i settori della vita pratica e culturale: la presenza di centri egemoni sul piano sociale fa sì che la norma linguistica tenda a modellarsi sulla loro parlata. Attualmente il modello proposto da radio, cinema e televisione è di tipo misto, con una tendenza alla unificazione della pronuncia e una decisa introduzione anche nella lingua letteraria di registri ed espressioni tipiche del parlato, fenomeni che fanno dell'italiano, per la prima volta nella sua storia, una lingua completa e non solo letteraria.

 

Matteo Galli