Ugo
Foscolo
Nato
nel 1778 nell'isola Greca di Zacinto, da madre greca e padre italiano, si
trasferì nel 1792 a Venezia dove proseguì gli studi. Frequentò salotti in cui
poté fare conoscenza con altri letterati già famosi. Nel 1795 pubblicò il
Tieste, che, quando fu rappresentato, suscitò sospetti della polizia veneta,
cosicché il poeta dovette fuggire nella Repubblica Cispadana ove si arruolò.
Pubblicò l'Ode a Bonaparte liberatore, prima maggiore prova di poesia politica.
Ritornò a Venezia ma, dopo il Trattato di Campoformio (1797), fu costretto a
fuggire nuovamente stabilendosi a Milano ove conobbe il Parini e il Monti. Lì
diresse un giornale che fu però chiuso a causa della censura; si trasferì
allora a Bologna dove iniziò a scrivere Le ultime lettere di Jacopo Ortis,
lavoro interrotto più volte a causa delle guerre napoleoniche e ai numerosi
soggiorni in diverse parti d'Italia (Genova, Firenze, Milano...) ma poi
concluso nel 1802. Desideroso di mettersi al servizio del viceré a Milano, ma
deluso da questa sua aspettativa, si trasferì in Svizzera quindi in
Inghilterra, ove morì in povertà.
Un
aspetto caratteristico del F. è la sua condizione di "sradicato" (W.
Binni): "sradicato quanto ad estrazione e collocazione nazionale, quanto
ad unità familiare, a collocazione sociale, sradicato nel lungo soggiorno in
Inghilterra".
Le
ultime lettere di Jacopo Ortis
Nato
dall'esigenza dell'autore di dar veste alla sua esperienza personale, il
romanzo, a carattere epistolare, prende spunto dalle "lettere del giovane
Werther" di Goethe e la "Novella Eloise" di Rousseau. Si
ricollega alla vicenda biografica del F. Pubblicato in più edizioni (1798;
1802), è composto dalle lettere di un giovane patriota raccolte e pubblicate
postume dal suo amico Lorenzo cui erano indirizzate le lettere. Esule da
Venezia e innamorato di Teresa, promessa ad un altro, Jacopo conclude le sue
angosce con il suicidio. Ci troviamo di fronte ad un esempio di contiguità di
vita e letteratura che rappresenta una novità rispetto alla letteratura precedente.
Nonostante tutto, però, Jacopo non è F. ma è una persona autonoma.
I
due temi di fondo dell'opera sono: Amore, Passione politica.
Temi
che, secondo Amoretti, si fondono perfettamente come fossero contenuti diversi
in una stessa forma caratteriale. "Se i fatti politici esistono per se
stessi e danno autonome motivazioni alla sofferenza di Jacopo, il modo della
sua partecipazione, intenso e tormentato, si comprende solo se si ravvisa in
esso il riflesso di una condizione spirituale antica ed intima. Venezia è la
città madre, Napoleone è il padrone (=padre) e nel figlio suddito si ripete la
situazione edipica" (Amoretti).
Accanto
agli impeti di protesta presenti sono presenti accenni di depressione, di
constatazione dell'impotenza che trova un tentativo di giustificazione teorica
quando si rileva la violenza costante tra individuo e società (T109c). Tali
posizioni sono la spia di un tema della rassegnazione che diventerà esplicito
nelle Grazie.
L'Ortis
rispecchia la crisi dell'intellettuale tradizionale nel mutamento di valori e
strutture nella società italiana tra XVIII e IXX sec. L'isolamento e
l'assunzione della propria estraneità intellettuale, portano Jacopo al gesto
suicida che esprime un atto d'impotenza e d'abdicazione senza alternative.
L'Ortis
è impregnato d'ambiguità di natura ideologica (protesta prima e accettazione
passiva poi) e di natura stilistica (prosa urlata e serene descrizioni).
In
conclusione l'Ortis è un magma che contiene quasi tutto il F. posteriore ma
manca ancora l'oggettivo distacco tipico del Goethe.
Odi
e sonetti
Concreti
segni di distacco di superamento dell'ingombrante autobiografismo che
nell'Ortis impedisce una completa oggettivazione dell'io in una maschera sono
ben evidenti nelle due odi e nei dodici sonetti pubblicati nell'edizione
milanese (1803), con questo non si intende dire che il F. abbandona la materia
autobiografica, questi dati rimangono ma è diverso il dominio degli strumenti
espressivi e le soluzioni raggiunte sono il frutto di una mediazione ben più
equilibrata fra urgenza di vita e ragioni d'arte. Nelle odi sono presenti
motivi di contingente occasionalità, ma tutto ciò è solo un pretesto, ogni dato
della realtà e dell'esperienza biografica è sublimato e trasferito in un remoto
mondo mitologico nel quale diviene emblema e simbolo; così la fascinosa
bellezza di una donna diventa epifania, manifestazione della Bellezza, la
celebrazione di questa bellezza perde la sua componente di rituale mondano e la
Poesia diventa la più alta delle funzioni umane, l'unica attività che può
trasformare in perenne ciò che è caduco e può dare immortalità a ciò che è
mortale.
Negli
stessi anni delle odi, F. scrive anche 12 sonetti, fra i quali tre hanno
alimentato una ininterrotta indagine critica: Alla sera, In morte del fratello
Giovanni, A Zacinto; nei primi due la soluzione della mitizzazione classica
manca del tutto ed è invece la materia autobiografica conflittuale e dolente a
dominare per intero, filtrata sapientemente attraverso una varietà di mezzi
espressivi.
Ma
c'è anche il sonetto A Zacinto che a differenza e in netto contrasto con gli
altri due si ricollega a quel vagheggiamento di mitica classicità di cui si era
parlato nelle odi, è indiscutibile che accanto a questo tema, nei versi c'è
anche l'idea dello sca uminosa classicità coesistono nei sonetti più
significativi come avverrà poi nei Sepolcri e nelle Grazie.
In
morte al fratello Giovanni T113
Sonetto,
in memoria del fratello minore Giovanni, morto probabilmente suicida nel 1801,
composto fra l'aprile e il giugno del 1803; l'ultimo dei sonetti maggiori
ripropone il nodo tematico di famiglia - esilio - morte. Il F. affronta il tema
autobiografico, la struttura di base è contrastante: nella prima terzina è
presente il tema della patria (Venezia), della morte del fratello, del poeta
che si immagina piangente sulla sua tomba e della madre sopravvissuta; nella
seconda viene data l'immagine della famiglia con un incipit di grande
drammaticità e suggestività; la terza strofa analizza l'immagine dell'eroe romantico
che combatte contro il destino mentre nella quarta viene ripreso il tema della
morte, in paese straniero, ma in questo caso la morte viene vista come una
sorta di ricordo dopo il trapasso ("almen le ossa renderete allora al
petto della madre mesta") e quindi il poeta viene compianto; la morte tema
attorno cui ruota tutto il discorso dal momento è vista come sola alternativa
alla vita, come un porto tranquillo che pone fine alle burrasche e che consente
di ricongiungere tutto ciò che era disgiunto.
Il
sonetto presenta una struttura ritmico sintattica affatto statica: ogni strofa
coincide con il periodo, ogni verso ha segmenti dotati di autonomia sintattica,
e le spezzature e la congiunzioni sono disposte in un gioco di sapienti
equilibri e classiche armonie.
A
Zacinto T112
Il
sonetto composto tra l'agosto del 1802 e l'aprile del 1803 e pubblicato per la
prima volta nel corso di quest'ultimo anno, ripropone il tema dell'esilio che,
enunciato perentoriamente all'inizio, è ripreso poi alla fine, quasi a dare
un'idea di circolarità. Esilio inteso non solo come separazione dalla terra
madre, che in questo caso assume una molteplicità di significati, l'isola
infatti evoca il mondo della classicità greca e quindi carica il tema
dell'esilio di molti altri significati: la separazione di un rapporto integrale
con la natura ("sacre sponde ove il mio corpo fanciulletto giacque"),
da un mondo ideale di valori come la bellezza, la fecondità, la vita (Venere),
oppure la poesia con la funzione eternatrice /consolatrice ed infine la
separazione da un mondo di giustizia che si realizza per Ulisse ma non per il
poeta.
Il
tema dell'esilio è reso più drammatico dal confronto con il mitico eroe della
lontananza (Ulisse) e sfocia nell'immagine della "illacrimata
sepoltura" che ne radicalizza in modo irreversibile l'esito.
Note
metriche: nel sonetto non c'è corrispondenza fra il sistema metrico e la
sintassi, è frequente l'enjambement, ci sono solo due periodi.
Alla
sera T111
Composto
dopo l'agosto del 1802, il sonetto va certamente collegato al tema notturno che
ebbe tanta eco alla fine del Settecento e nel periodo romantico vero e proprio;
ma vanno ricordate altre possibili suggestioni letterarie: sembra infatti
l'apertura del terzo libro del De Rerum Natura di Lucrezio di ci proprio in
quegli anni il F. sperimentava una versione in prosa.
E'
necessario sottolineare che in questi versi non è rappresentato un annullamento
dell'io nella natura, un naufragare infinito come nel celebre idillio
leopardiano, quanto piuttosto la conquista di un superiore distacco dalla
tempesta del vivere: lo spettacolo della sera, immagine della fatal quiete
della morte, distanzia l'urgenza del vivere.
Tutto
il sonetto è dominato dal forse iniziale che il poeta non sa né vorrebbe
chiarire: nella pace che il suo sguardo contempla il suo cuore sente appagato
un antico voto ("La fatal quiete") e la sua ragione scopre il fine a
cui tende ogni forma di vita ("il nulla eterno") egli constata questo
accordo fra sensibilità e ragione, tra al propria vita e quella dell'universo,
ma non ne ricerca le cause ne si chiede se corrisponda a realtà; così il senso
del mistero, proprio della sera viene ad acquistare in questo sonetto un valore
più profondo al progressivo scomparire dei singoli spettacoli della vita
terrena avvolti dalla luce serale, si accompagna il progressivo separarsi del
poeta dalle cure del giorno e via via che si diffondono le tenebre la sua
coscienza va facendosi più chiara e più pura.
Ode
all'amica risanata T110
Composta
tra il 1802 e il 1803 per celebrare la guarigione da un malessere della donna
amata, Antonietta Fagnani Arese.
L'ode
deriva la sua fisionomia specifica da due dati: la trasfigurazione della realtà
in una prospettiva classicistica e la concezione della poesia come dispensatrice
di immortalità; il tema preminente è quello della celebrazione della bellezza,
idea che in F. non è mai astratta ma motivo tangibile riconoscibile nelle
manifestazioni concrete. La bellezza femminile in particolare è fugace nelle
donne, ma diventa perenne grazie al canto dei poeti; la poesia ha cioè funzione
di salvare dall'azione del tempo il ricordo della bellezza il quale perennizza
a sua volta la donna nella quale essa si è incarnata, così che diventano miti,
ossia Dee (Artemide, Bellona e Venere). La bellezza è, quindi, l'unico ristoro
ai mali degli uomini. L'ode è divisa in due parti: la prima celebra la
riacquistata salute e la bellezza dell'amica (vv.1-48), la seconda motiva il
ruolo della poesia come dispensatrice di immortalità (vv.55-96), collegano la
prima e la seconda parte alcuni versi cerniera, F. si ricollega tramite versi
neoclassici al tema della patria (la Grecia); il linguaggio poetico foscoliano
è impregnato da riferimenti attinti dai poeti classici e greci, rielaborato che
porta a risultati originali.
I
Sepolcri T114
Gli
anni tra il 1803 e il 1807vedono l'ascesa al potere di Napoleone con la
progressiva emarginazione degli oppositori. In questo periodo Foscolo
concepisce l'idea dell'intellettuale orientata verso un'azione all'interno
delle coscienze; il poeta diventa, quindi, poeta vate che riconosce il suo
compito nella formazione di messaggi di destinazione nazionale, si fa testimone
di problemi storici, morali e politici del suo tempo, proiettandoli, però, in
una dimensione generale e relazionandoli ai temi dell'esistenza umana.
Foscolo,
nello scrivere i Sepolcri, prese spunto dalle posizioni ideologiche maturate
nel corso del '700 riguardo al dibattito sulla morte e sulla tomba e la sua
risposta a tale proposito fu di tipo laico (l'unico può conquistarsi la
sopravvivenza solo in base alla qualità della vita). In questa prospettiva il
sepolcro assume una validità sociale, divenendo materiale testimonianza della
continuità tra passato e presente.
Il
carme si può considerare una "poesia d'occasione" in quanto
collegabile all'editto di Saint Cloud del 1804. Esso rispondeva a due
necessità, quella sanitaria e quella politico - sociale. Per la prima stabiliva
che tutte le sepolture dovessero essere fatte al di fuori dalle mura delle città;
per l'altro verso intendeva abolire le discriminazioni sociali imponendo che le
tombe dovessero avere lapidi uguali, per istituire almeno tra i morti, un
regime egualitario. L'opera è dotata di una solida impalcatura concettuale, di
una forte "tessitura", come la definì Foscolo stesso.
Il
rifiuto dell'editto napoleonico che unisce nella sepoltura grandi e vili, dà
luogo al ricordo del Parini, le cui ossa sono forse insanguinate da quelle di
un ladro decapitato; la considerazione del legame tra i sepolcri e gli affetti
dei cari, con il sentimento per la patria, si traduce con l'evocazione dei
cimiteri inglesi dove le fanciulle pregano per il ritorno di Nelson. Foscolo
sviluppa la tesi del valore morale e civile del sepolcro, esaltando le tombe di
S. Croce da cui l'Alfieri trae ispirazione e conforto. Da qui l'autore rievoca
la battaglia di Maratona, luogo pervaso dalla memaoria delle vicende degli
uomini, rese immortali grazie alla poesia che vince l'azione distruttiva del
tempo, rendendo immortali le grandi azioni ed è proprio a questa funzione che
il poeta si sente chiamato. La tesi che ai sepolcri dei grandi s'ispira la
poesia eternatrice, dà vita al mito di Cassandra, della tomba di Elettra, della
distruzione di Troia, di Omero, il cui canto conserverà per sempre la memoria
di Ettore e dell'eroismo sfortunato.
ASPETTI
METRICO - STILISTICI
il
metro del carme è L'ENDECASILLABO, soluzione già usata precedentemente dal
Parini e dall'Alfieri. Si ricorre costantemente alla tecnica ENJAMBEMENTS che
consente di ottenere una grande mobilità del verso. Infine il lessico usato è
spesso attinto dalla tradizione letteraria, dalla poetica classica e italiana,
anche se a volte il Foscolo tralascia i suoi modelli classici e tende a
ricercate effetti che portano ad un gusto del tutto romantico, dalle tinte
forti (cfr.: la tomba del Parini).
Il
Foscolo didimeo e le Grazie
E'
impossibile dare un conto dettagliato dell'attività intellettuale e letteraria
del F. negli anni che vanno dalla stesura dei Sepolcri alla composizione delle
Grazie (1813), lezioni pavesi e saggi di vario genere; ancora una volta siamo
di fronte ad un susseguirsi di intuizioni e spunti, sembra comunque legittimo
presupporre che i Sepolcri rappresentano la punta più alta di un impegno
volontaristico che mira ad operare ed incidere sulla società, ma non è
difficile individuare nel carme una vocazione a trascendere la storia per
rifugiarsi nella poesia; tale vocazione acquista sempre maggiore consistenza e
trova espressione letteraria nella Notizia intorno a Didimo Chierico e nelle
Grazie.
Questo
non significa un'evasione dalla storia, ma significa anche che il F. alla luce
delle sue riflessioni sulla storia e della sua vicenda biografica prende atto
che la piena realizzazione di sé va ricercata in un ambito individuale ed
intimo, in una dedizione totale al "culto" della poesia, è importante
sottolineare questo orientamento concretamente testimoniato dalla Notizia
intorno a Didimo Chierico che fu rielaborata e pubblicata nel 1813; con questo
enigmatico personaggio che è pagano e letterato (Didimo) e nel contempo
cristiano e prete (Chierico), il F. da un'altra maschera di sé, ma Didimo è
l'anti - Ortis; l'esperienza del mondo, la vicenda storica non è ignorata e
cancellata, ma distanziata, relegata ad antefatto: Ortis freme e geme di fronte
alla lacerante realtà storica, Didimo invece "sentiva non so qual
dissonanza nell'armonia delle cose del mondo: non però lo diceva" e
"teneva chiuse le sue passioni; e quel poco che ne traspariva pareva
calore di fiamma lontana".
Questa
disincantata levità, questo contemporaneo essere nel mondo e fuori dal mondo è
cosa ben diversa dall'evasione ed è qui che bisogna partire per la lettura
delle Grazie.
Composte
fra il 1812-13, le Grazie vengono concepite prima in un inno e poi
successivamente in tre - intitolati a Venere, Vesta e Pallade- e nella loro
genesi si ricollegano a quella poetica elaborata da F. negli anni 1802-03 e
riconfermata nelle lezioni pavesi, che assegna alla poesia un alto significato
sapienziale, una forte tensione didascalico - morale alla genesi dell'opera c'è
un preciso intento didascalico, da mediare però con la modalità lirica (o epico
- lirica) che deve sollecitare il lettore sia sul piano sentimentale sia su
quello dell'immaginazione; l'opera si configura quindi già all'origine come una
mescolanza di generi o per lo meno di piani (didascalico - morale, lirico -
descrittivo, lirico - sentimentale), inoltre se si tiene conto del modo di
lavorare di F. che si dedicava più a rifinire che a calibrare e riconnettere
l'insieme, si potrà comprendere perché l'opera sia rimasta incompiuta ed
episodica, siamo di fronte ad un opera in cui è possibile ravvisare innanzi
tutto una componente consolatoria: il vagheggiamento della mitica classicità,
di questo mondo che splende di grazia e bellezza femminile.
Valore
e significato delle grazie:
Il
carme non può considerarsi frammentario; infatti i singoli frammenti trovano
una loro unità nell'aspirazione all'armonia interiore, in un particolare stato
d'animo del poeta, che tende ad allontanarsi dalla realtà circostante, per
viverla in un mondo di serenità e di quiete.
Semmai
la poesia delle Grazie è episodica: quanto di quello spirito guerriero che gli
rugge dentro il Poeta sente che non gli è rimasto altro che "un calore di
fiamma", ecco che allora si abbandona alla contemplazione della bellezza,
alla poesia come rifugio di serenità, come luogo di quiete.
Il
carme non è un ritorno alle posizioni neoclassiche delle Odi, ma "un'opera
sulla stessa linea dei Sepolcri, ma dopo di essi" (Sansone); in questi
infatti c'è ancora vibrante commozione e accesa passione, mentre nelle Grazie
il Poeta sembra aver raggiunto quell'intima serenità che aveva sempre cercato
mediante la poesia.
"Questo
mondo di bellezza , casta e malinconica insieme, si attua… soprattutto in
alcuni meravigliosi episodi nei quali davvero F. ci comunica l'incanto e lo
stupore e la diafana consolazione dell'Armonia" (Sansone): tali sono la
descrizione della valle di Bellosguardo, il saluto a Zacinto, l'apparizione di
Venere e delle Grazie, l'episodio della vergine romita, l'incanto della musica
sul Lario, gli episodi della suonatrice d'arpa e della danzatrice e infine
alcune figurazioni del velo delle Grazie.
Il
velo delle Grazie T119
Dell'Inno
terzo che costituiscono un blocco fondamentale i versi nei quali viene
descritto il velo che Pallade fa tessere per difendere le Grazie perseguitate
da Amore; l'armamento mitologico che in questo inno è per la verità piuttosto
macchinoso ha però un trasparente significato: il velo serve a salvaguardare le
Grazie dall'urgenza delle passioni umane (Amore), a garantire loro una serena
intangibilità: simbolo e oggettivazione di quel distacco dalla vita, di quella
rasserenante e rasserenata contemplazione della bellezza che dovevano
costituire i motivi di fondo del poema.
Per
la tessitura del velo, Pallade convoca una moltitudine di divinità: Psiche
siede silenziosa e tesse, Tersicore danza, Iride appronta i colori mentre, al
suono della lira di Talia, Erato cantando suggerisce a Flora i colori da usare
e le scene da ricamare; le scene sono cinque e non sono ispirate a una
distaccata rappresentazione di bellezze mitologiche, ma alle vicende umane e
alla variegata gamma degli umani affetti (vv. 144-154: il rapido sfiorire della
giovinezza; vv. 155-162: l'amore coniugale; vv. 163-169: la malinconica umanità
del guerriero e la compassione per i suoi prigionieri; vv.170-177: una serena
riunione conviviale; vv. 178-187: la veglia di una madre preoccupata per il
pianto del suo bambino e ancora ignara che agli infanti/ provvido è il sonno
eterno….).
Non
può sfuggire il profondo legame che c'è in questi versi fra la dolente
esperienza umana e immagine poetica, qui ognuna delle scene descritte è
ispirata ad una situazione umana, ad un nodo di affetti, si tratta di vedere
come il poeta riesce a distanziare l'urgenza affettiva e a conferirle levità,
"calore di fiamma lontana", questo processo può risultare evidente se
si esaminano con attenzione le scelte lessicali, la varietà ritmica ottenuta
con il ricorso agli enjambements, gli effetti fonici.
Il
Leopardi a partire dal soggiorno romano 1822-1823 abbandona la forma poetica e
dichiara di sentirsi mancare l'ispirazione, ma intensifica la propria
riflessione filosofica, sulla natura e sul destino dell'uomo, la sua
riflessione del mondo giunge mediante questa riflessione ad una svolta
importante; la riflessione leopardiana, non risolvendosi in un sistema
organicamente esposto ed essendo oggettivamente complesso, è difficile da
ridurre ad una teoria unitaria e lineare.
Se
in seguito alla crisi del 1819 il L. aveva messo a punto una concezione
antinomica di natura e ragione, nel corso degli anni successivi
progressivamente egli la mette in discussione per approdare a quello che è
stato definito con una fortunata formula il suo pessimismo cosmico e che
costituisce l'assetto all'incirca definitivo del suo pensiero: se ne hanno
tracce in numerosi pensieri dello Zibaldone, una più organica definizione in
alcune Operette morali e soprattutto nel Dialogo della Natura e di un
Islandese; in sostanza da una concezione positiva della natura egli passa a una
concezione radicalmente negativa di essa, non esiste uno stato felice di natura
da cui l'uomo si sarebbe allontanato